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IL BRIGANTE

MICHELE CARUSO

di Abele De Blasio

LA COMITIVA DEL

COLONNELLO CARUSO

di Luisa Sangiuolo

   

Caruso con sciabola e fucile

Caruso con la "camicia di forza" dopo la cattura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA COMITIVA DEL

COLONNELLO CARUSO

di Luisa Sangiuolo

da: "Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880" De Martino, Benevento, 1975

Dopo la capitolazione di Gaeta (1), Michele Caruso da Torremaggiore (2) viene avvicinato da emissari borbonici che lo guadagnano alla loro causa, affidandogli un incarico di notevole responsabilità: costituire ed organizzare bande reazionarie nelle tre province di Foggia, Benevento e Campobasso. L'uomo, adusato ai lavori più duri, è l'operaio dai vari mestieri, di cui l'ultimo da cavallaro, lo ha portato a conoscere le località boschive e le zone più inaccessibili dal Matese alla Basilicata. Per aver fatto il sensale di grano, ha acquisito capacità di trattative e si sa, ha un modo particolare per troncare le esitazioni dell'interlocutore; lo trapassa con lo sguardo di tiratore dalla mira infallibile, svuotandolo di ogni resistenza fino a renderlo succube della sua volontà. Lo rispetteranno gli uomini che andrà reclutando tra gli sbandati dell'ex esercito napoletano e i renitenti alla leva. Lo temeranno i grandi proprietari che obbligherà alle somministrazioni di viveri e denaro. Gli forniranno notizie utili ed asilo in caso di bisogno i braccianti agricoli, parenti dei soldati dell'esercito di liberazione. Insomma, con il grado di Colonnello, scatenerà guerra senza quartiere, logorando la capacità di resistenza della truppa e le nuove, ma già vacillanti istituzioni. Caruso giovanissimo, conta infatti appena 23 anni, rivela abilità di stratega. Stringe subito rapporti con Antonio Secola da Baselice e G. B. Varanelli di Celenza Valfortore; nel giro di appena tre anni, quanti ne intercorrono tra il 1861-'63, mobilita e sposta numerose bande cui si allea, come quelle del Petrozzi, Tamburino, Vito di Gioia, Cimino, Cosimo Giordano, D'Agostino, Nunzio di Paolo, Tomaselli, Cascione, Martino, Fasano, Camillo Andreotti detto il Moretto, Fuseo, Florenzano, Pace, Carmine Romano, Giovanni d'Elia, Giuseppe Giurassi, Luciano Martino e Salvatore Romano alias Sciamarra. Tali capibanda ai suoi ordini come ausiliari, determinano una situazione di panico in tutto il circondario di Benevento; a questa tensione non sfuggono le truppe inviate a contrastare il passo. Invano i sindaci scongiurano i Comandanti dei distaccamenti di restare a guardia dei paesi. Gli ufficiali se ricevono indicazioni di raccolta, dirigono i soldati "nella direzione opposta e lontana da quella ove la comitiva si stava a bivacco". Viceversa al primo sentore di briganti in arrivo, partono precipitosamente "adducendosi a scusa la necessità di doversi restituire in residenza per affari urgenti" (3). Nei rapporti ufficiali, scaricheranno le colpe su altri, tacciando di inoperosità le Guardie Nazionali e le Autorità Civili. A conseguenza di ciò l'Amministrazione Comunale di Morcone radunatasi di urgenza, decide con delibera del 22 luglio '62 di provvedere da sè alla difesa. Fortifica le case all'inizio e alla fine dell'abitato, dalla porta di S. Maria De Stampatis fino a quella della Rocca, dando mandato all'architetto Lorenzo Della Camera di procedere alle opere con i fondi all'uopo destinati. Per quanto attiene alla vigilanza, saranno in servizio permanente giornaliero due squadre di Guardie Nazionali affiancate da altri dieci uomini di riserva. Nel contempo impiegati e liberali andranno in giro a "catechizzare gli ignoranti per quanto riguarda le utilità del Nuovo Regime Costituzionale" (4). Di riscontro, Caruso serra le file dell'esercito clandestino e per garantire vitalità di manovra, pattuisce scambi di briganti con Crocco e Schiavone; dispone trasferimenti come nella normale gerarchia, allontanando per un po' gli elementi non del tutto idonei e sostituendoli con altri che, per essere sconosciuti ai compagni, si vedono in certo senso obbligati a dare brillante prova di sè. Nel 1862 chiama alle armi gli uomini ["proclama"] (5). Intanto si preoccupa di concentrare i feriti lievi nel bosco di S. Croce di Morcone e in due grotte del Matese; elimina personalmente i moribondi dando loro il colpo di grazia. Se non lo fa lui, saranno i Piemontesi, subito sul campo delle operazioni o dopo sbrigativa sentenza, con fucilazione alla schiena. E' più onorevole quindi ricevere la morte di sua mano, che dal nemico. Nessuno dei subordinati fiata o si azzarda a contraddire. Nella Capitanata, con 1'appoggio di Chiavone e Turri-Turri ha ammassato ingenti quantitativi di grano, avena e fieno. Nelle stalle dei manutengoli, cavalli freschi attendono di sostituirsi agli altri stremati da estenuanti cavalcate, cui li hanno costretti infaticabili cavalieri. A Casalvecchio di Puglia, S. Severo e Torremaggiore, tutti sono equamente taglieggiati secondo un rigido codice di esazione. Chi rifiuta di dare il contributo, non fa a tempo a negarlo, che vede messe a fuoco le messi, distrutti gli arnesi agricoli, ucciso il bestiame. Il 25 maggio '62 gran festa nel bosco. Con rustico pranzo ed appetitoso, si consacra altra alleanza, quella delle le bande di S. Croce di Magliano (6) e S. Paolo di Civitate (7). Concetta Fasulo da S. Lorenzo, donna di disinvolti costumi ed amica del momento di Caruso, intrattiene gli ospiti. Oggi si viva in allegria, che domani sarà in agguato la morte. Il 29 di maggio essa si presenta puntuale ai 14 affiliati in Fojano Valfortore sotto le spoglie del Capitano Demoliff dell'11 Compagnia, 36° Reggimento Fanteria Brigata Pistoia di stanza a Campobasso, di sei carabinieri reali del sott. Ricci e quindici guardie nazionali di S. Bartolomeo in Galdo al comando del sottotenente Moiraghi. Di tre briganti, uno muore nello scontro; altri due feriti, sono miseramente massacrati a colpi di accetta dai fratelli Giannini mentre tentano scampo nel bosco Vetruscelli. Caruso si unisce ad Angelo Maria del Sambro capobanda del Gargano, nella cui comitiva militano uomini di spicco quale Don Nicola Peri da Foggia, ex medico del 3° Reggimento Dragoni e decorato al valore della medaglia di Velletri (8). Intorno al 24 giugno i rapporti fra i due capibanda si guastano e forse proprio perchè Caruso è andato via e non si trova al momento dell'attacco. Quattro giorni dopo Angelo si fa sorprendere in un casolare dal Comandante del 49° di linea che mette fuoco alla casa, obbligando quattro briganti e quattro donne ad uscire ed arrendersi. Il Colonnello nei primi di luglio si associa alla banda Varanelli; nello scontro del 4 con il distaccamento dell'8° di linea, perde tre uomini, cavalli ed una somma ingente, frutto di oneroso riscatto. Il 28 seguente allo scopo di raccogliere vettovaglie, con 39 uomini invade Ginestra degli Schiavoni e nel mentre suscita tra i contadini una dimostrazione antigovernativa, obbliga ben 115 famiglie a dare un contributo in natura o in contanti. Lo ritroviamo nel villaggio di Corsano. Qui mentre è intento a fumare la pipa sulla porta di un casolare, lo attacca il Capitano Cartacci della 4a compagnia del 18° bersaglieri (9). Muoiono 15 briganti, gli altri a stento si salvano inseguiti dai bersaglieri. Direzione della comitiva Cercemaggiore. I 64 individui che la compongono, non possono passare inosservati e i carabinieri di S. Croce di Morcone mettono sull'avviso venti soldati del 45° di linea. Nel conflitto a fuoco, Caruso perde sei uomini tra cui l'amato luogotenente Caporal Antonio (10). Non è prudente andare allo scoperto, perciò incarica Carlo Fusco di esplorare la zona all'intorno. Appiattato dietro un macigno, lo vede prigioniero dei soldati e ne segue con lo sguardo che punta lontano, finanche la fucilazione (11). Il Capitano Rota con un drappello di 37 soldati del 37° Fanteria è spedito da S. Croce di Magliano; gli si aggregano cinquanta Guardie Nazionali e due carabinieri. I pastori fanno del loro meglio per dissuadere il capitano Rota dal combattimento. Caruso si è sveltamente riunito a tre capibanda: Nunzio Cerrefacchio, Cascione e Fioriti. Non sono creduti e come pensavano, è un disastro. Di contro a duecento banditi, muoiono 23 militi, altri undici sono fatti prigionieri (12). I successi di Caruso fanno nuovi proseliti; egli può contare su un effettivo di 300 uomini con cui irrompe in S. Severo, S. Paolo e di nuovo in S. Croce dì Magliano, fino a dicembre. Durante gennaio - febbraio 1863 si dà da fare per requisire cavalli; per sua disposizione fa sequestrare il 12 febbraio a Molinara Rocco Longo che viene portato nel bosco di S. Croce di Morcone ed è obbligato a scrivere in questi termini: "Caro padre, se brami rivedermi è necessario mandarmi subito duemila ducati se no ci rivediamo all'altro mondo. Così ti fa dire il Colonnello Caruso tuo figlio Rocco" Le Autorità persuadono il genitore a non piegarsi alla violenza. Conclusione; Caruso che per nessun motivo e solo per provare la polvere, spara ed uccide pacifici contadini, per una di quelle imprevedibilità di decisioni, rispedisce Rocco Longo a Molinara, sia pure dopo avergli mozzato i padiglioni delle orecchie. Costituirà per Molinara, a suo dire, un ricordo vivo del Colonnello Caruso ed un attestato della sua pietà per avergli fatto grazia della vita. Alla fine del mese, il giorno 27 a mezzanotte circa, circonda la masseria di don Carlo Colatruglio a San Bartolomeo in Galdo. Mentre tra i suoi, i fratelli Santucci e Angelo Polizzi si danno da fare per macellare due montoni, Sciortino ad allestire lo spiedo ed il fuoco per cuocerli, spedisce il terrorizzato Francesco brillo custode della casa dal proprietario con la lista delle richieste. Il trafelato Fiorillo sveglia don Luca. "Padrone, nel cuore della notte abbiamo avuto la Provvidenza... Il Colonnello chiede porzioni di pane vino e salecicio per 300 persone, pacchi di sigari e 10 bottiglie di rosolio. E' alla masseria pronto a bruciarla se non spedite il richiesto". Don Luca acconsente. Il giorno dopo è già a Castelvetere; per niente rabbonito dalla buona cena, va in collera perchè al subordinato Nicola Tainbascia vede in testa il berretto da Guardia Nazionale; con un cenno brusco lo fa inginocchiare; Tambascia pensa tutt'al più di ricevere un sacco di legnate, ma invece si prende una gragnuola di colpi di fucile. Il medico legale, incaricato dalle autorità della perizia, appena entrato nell'obitorio dirà: "Che volete che faccia? D'accordo lo farò, ma il poveraccio è ridotto ad un colabrodo". Caruso è arrivato a Cercemaggiore; mentre con Schiavone mette in armi 90 uomini con l'obiettivo di puntare su Ielsi e S. Giovanni nel Molise, spedisce il 6 marzo 20 uomini della banda di Luciano Martino a Paupisi vicino Benevento per sequestrare il parroco del paese. I briganti tentano di portare via il prete mentre in chiesa è intento a celebrare la Messa, ma tanta è 1'indignazione della gente che finanche le signorine De Marco si mettono a sparare dalle finestre di casa, inducendo i paesani ad intervenire in difesa. Uno di loro, un tale Orazio, uccide un brigante, mentre gli altri 19 sono costretti alla fuga. Da Ururi (13), il Colonnello piomba in contrada Fontana della Vetica in tenimento di Morcone. Donna Mariantonia Bilotta quando si vede circondata da cento malandrini, non ha neppure la forza di pronunziare una frase di assenso. Con un cenno del capo autorizza i coltivatori del gran fondo a raccogliere tutta la biada necessaria per i cavalli (14). Dopo alquanto essersi riposato, Caruso con la scorta di nove accompagnatori, all'una di notte raggiunge la contrada Lorfoglieto sempre di Morcone e alla taverna di Francesco Falasca fa razzia di provvigioni ai danni dell'oste, di Beniamino Argenti, nonchè del carrettiere Vincenzo Schioppa. Ma ha in animo altro. Deve acciuffare Don Pasquale Florio De Maria di S. Croce di Morcone. Credeva di evitarlo durante la notte e scansarsi della taglia, ricoverandosi alla taverna? L'oste, bonario gli fa: "Avete preso il mio; che volete di più? Non c'è". C'è invece e lo prende. "Dunque voi venivate da Napoli, se volete ritornare a Morcone, scrivete sotto dettatura a vostro padre che sborsi 20.000 ducati. Tempo della consegna solo la mattinata di domani Il De Maria ha la prontezza di spirito di mostrarsi accondiscendente e frastornato. L'oste gli strizza l'occhio e profferendosi in inchini, versa abbondantemente da bere. De Maria riprende a sperare, nel mentre vede il Colonnello tracannare boccali senza risparmio. Profitta del sonno profondo degli ubriachi e si mette in salvo. Non trovandolo il giorno dopo, Caruso senza commenti, divide la comitiva in piccoli gruppi, per non dare troppo all'occhio. Qualcuno dei suoi, sarà pure avvistato e ci rimetterà le penne, ma è meglio non esporsi tutti insieme. Così a Palata (15) viene individuato ed ucciso il brigante Francesco Biacco, l'altro Giuseppe Pitta perchè da poco fatto prigioniero e costretto ad associarsi alla banda, è intestato al potere giudiziario (16). A Torremaggiore, i cui abitanti temono il Colonnello come l'Anticristo a cavallo, viene preso il brigante Enrico Pisani e immediatamente passato per le armi, mentre il compagno Michele Caposio è trascinato in paese; i militari eseguono la sentenza di morte nella pubblica piazza (17). Caruso scappa nel Molise; gli danno implacabile caccia dopo il truce episodio di Colletorto (18) nel corso del quale ha sequestrato ed ucciso Michelangelo Lanziti, bruciato il cadavere alla presenza della figlia quattordicenne Pasqualina, di poi da lui violentata (19). Un forte contingente di truppa e Guardie Nazionali per un totale di trecento uomini, lo sorprende alla masseria dei Moffa a Riccia (20). Muoiono i briganti Nicola Napoletano e Domenico Bruzzese (21). Caruso, rimessosi in viaggio, fa tappa di giorno nel bosco Botticella presso Fragneto Monforte (22), per poi riprendere al galoppo la strada verso la Puglia. Va a chiedere aiuto a Schiavone, Coppa, Sacchettiello, Andreotta e Pio per proporre loro una spedizione memorabile, avente lo scopo di sterminare le Guardie Nazionali di Morcone che non smettono le perlustrazioni contro di lui. Gli amici acconsentono e tuttavia dilazionano l'impresa. Non per niente hanno problemi anch'essi, braccati come sono in Puglia da squadriglie di Guardie mobili a cavallo. Nel mentre eluderanno le forze, provvederanno a ricomporre una gran bella banda. Nel contempo sparpagli gli uomini in azioni eversive, in modo da non lasciarsi localizzare. Una soffiata persuade Caruso ad incaricare elementi svelti ed efficienti ad impossessarsi del tesoro in oro dell'orefice Vincenzo Capuano da S. Bartolomeo in Galdo, da lui depositato presso i compaesani Nicolangelo De Falco e Pellegrino Gozzi. La sortita riesce anche perchè effettuata alle due del pomeriggio, ora insolita per i furti. De Falco supplica i malandrini a non mandare in rovina l'amico; non ottiene altro che 30 legnate (aveva avuto il tempo di numerarle) corrispondenti ad altrettanti invocazioni (23). Da tempo il generale Giorgio Pallavicini al comando delle truppe per la repressione del brigantaggio nelle province di Molise e Benevento, va dicendo che i grandi capi non si prendono mai durante la pugna a viso aperto, semmai con la delazione e quando privi di armi credono di essere al sicuro. Figurarsi se prenderanno Caruso, armi nella mano. Nella schiera ristretta delle alte gerarchie militari, Pallavicini si abbandona alle aperte confidenze, ammettendo che Caruso pur non avendo frequentato la scuola di guerra, sa elaborare piani geniali che realizza puntualmente con risparmio dì energie, 1'uomo giusto al punto giusto, nella cornice di quella natura locale conosciuta palmo a palmo. Il Prefetto di Foggia De Ferrari il 1° giugno 1863 emette apposito bando contro Schiavone, Caruso, Villano e Palumbo. Non per niente aveva ricevuto dal Ministero fondi appositi. Dunque promette un premio straordinario e fortissimo pagabile immediatamente "a chi contribuirà alla cattura di uno almeno dei briganti o di qualche complice. Colui che renderà tale servizio, se bandito e presentatosi, oltre il premio godrà della diminuzione della pena di un grado e sarà raccomandato alla grazia sovrana" (24). Per quanto attiene Caruso, il Prefetto De Ferrari è d'accordo con il generale Pallavicini che non sarebbe stato preso se non a seguito di delazione. La guerra dell'esercito clandestino contro quello regolare continua sulla strada di Colle Sannita. Il ventenne Antonio Del Grosso, mentre è intento a sarchiare il granone nel podere di sua proprietà in contrada Decorata, è circondato da 40 briganti a cavallo. Caruso pretende da lui un adeguato riscatto, ma poichè il giovane non ha denaro liquido bastevole, è obbligato ad associarsi alla banda (25). Cerca di convincere il Colonnello di lasciarlo andare in sostegno alla madre che da sola non potrà badare alla conduzione del fondo. Che utilità potrà ricavarne da lui, se non sa maneggiare le armi? Lo dice con tale convinzione, che sul momento il colonnello gli trova una mansione confacente. Farà da guardia alla sua donna Maria Luisa Ruscitti e a quella di Schiavone (26). Alle sette del mattino del 29 giugno 1863 Caruso è a Fragneto l'Abate davanti ai gradini della cappella rurale S. Matteo; aspetta il sacerdote don Pietro Mangano che deve dir messa. Lo sequestra e tramite un contadino manda in paese un biglietto di ricatto; vuole viveri, munizioni, abiti e 200 ducati. Le Autorità lanciano su Caruso carabinieri e soldati di stanza a Pontelandolfo. L'incontro avviene ad un miglio e mezzo da Fragneto l'Abate; il combattimento è animatissimo; i soldati sarebbero stati tutti uccisi, se non fosse intervenuta la Guardia Nazionale di Morcone (27). Si ritrova il sacerdote, ma cadavere. I mietitori dicono che è stato ucciso a colpi di baionetta sul capo, prima che fosse recapitato ai parenti il biglietto di riscatto. Il Colonnello ripiega su Casalduni. Dove andrà? Da Campolattaro il 30 giugno le Autorità seguono con il cannocchiale lo scontro tra lui e i bersaglieri alla masseria Fuschi in tenimento di Morcone. Se Dio vuole, sarà messo in fuga per il Molise (28). Macchè, il 10 luglio ricompare a Pontelandolfo alla masseria dei Mitondo, ove con pochi uomini; fa razzia di cavalli, così come nelle masserie all'intorno. Intanto il grosso della comitiva lo attende in località Zingheramorta tra Pontelandolfo e Campolattaro pronta a riprendere il cammino (29). Il Colonnello in prossimità di Benevento divide i suoi. Alla diciannovenne Maria Luisa Ruscitti da Cercernaggiore, per il 1° luglio affida la spedizione di Foglianise. Provveda al sequestro dei fratelli Pietro e Fortunato Palumbo che conduca poi sul Matese e li rilasci solo dopo aver riscosso non meno di 2500 lire. Parte della banda sconfina nell'avellinese. Di passaggio per S. Angelo dei Lombardi, si imbatte a Bisaccia in qnindici donne. A turno i 40 della banda le violentano. Due fanciulle in età minore, muoiono dopo qualche giorno a causa delle violenze subite. I rimanenti si rifugiano nella valle del Fortore. Il brigante Giuseppe Celli da S. Paolo in Capitanata, perduti i collegamenti con la comitiva da alcuni giorni, capita in Castelfranco in Miscano e tenta di estorcere denaro ai fratelli Giovanni e Leonardo Ricci mentre lavorano nei campi. I fratelli reagiscono, lo fanno prigioniero, lo portano in paese ove viene fucilato (30) . Come d'intesa, i capibanda Schiavone, Ricciardelli da S. Marco dei Cavoti con 11 dei suoi, Antonio Secola ed altri, convengono a Morcone per dare quella memorabile lezione alla Guardia Nazionale, cui prima si è fatto cenno. Fra i componenti sono riconosciuti Filomena amica di Schiavone, Maria Luisa Ruscitti di Caruso; partecipano Antonio (31) e Domenico Lisbona (32), Esposito, Antonio Petruccelli, Baldassarre il giumentaro (33), Ponzio e Salvatore (34), Antonio Del Grosso (35), i manutengoli Mucciacciaro soprannominato Violone, il Cardillo e Longo Squarcione hanno già provveduto ad ammassare viveri ed armi alla masseria Fuschi nei tenimenti di Morcone. Quando il proprietario sarà scoperto, a sua discolpa dirà che aveva dovuto farlo; testimoniano a suo favore molti morconesi che nel dicembre 1862, il Fusco fu privato del padre, ucciso brutalmente dai briganti del capobanda Marco De Masi da Foiano Valfortore (36). Prima di dare inizio alla spedizione, Caruso si porta in contrada Spinosa per compiere grassazione ai danni di Berardino e Pacifico Parlapiano per duemila ducati. Pacifico si slancia in difesa del padre, ma viene sopraffatto; i due a causa delle percosse ricevute con il calcio dei fucili; resteranno inabili al lavoro per trenta giorni. Indi piomba sulla consolare che da Napoli porta a Campobasso, fermandosi in contrada Sferracavallo in attesa della diligenza detta "La Giornaliera" che sarà scortata da soldati e Guardie Nazionali. Di poi in contrada Lorfoglieto assalta la baracca di coloniali di Pietro Bernardi, ma non vi trova il caffettiere. Fa razzia di caffè, zucchero, liquori e danni per un valore di ducati 12 e grana 44, pari a lire 52,87. Ancora in Lorfoglieto, ruba cavalli a Giovanni Lupano e ne sottrae un altro da sotto il traino a Mattia Loreto di professione trainante. Ma per quanto si riferisce allo scontro tra le Guardie Nazionali e l'11a Compagnia del 45° di linea comandato dal capitano polacco Potoski (37), lasciamo che ne parli davanti al giudice Nicola Columbro e il cancelliere Annibale Ranieri del Mandamento di Morcone il testimone Antonio Bassanin fu Domenico di anni 24 celibe, calzolaio nato e domiciliato a Conegliano, provincia di Treviso, soldato del 45° di linea: "Verso le quattro p.m. del giorno 4 volgente mese mentre in unione dei miei compagni di arma perlustrava la via che mena a Campobasso perchè si attendeva la posta che doveva arrivare da Napoli, e che in quel dì ritardò di molto ci accorgemmo che verso la contrada Sferracàvallo venivano degli individui armati di carabina e poiché noi rimanevamo a certa distanza da loro così in su le prime credemmo che fossero i cavalleggieri stanziati nella taverna di Sepino, anche perché vicino ai pantaloni distinguevamo delle fasce di color bleu come le usa quel corpo; ma approssimatici alquanto a quella gente, ci accorgemmo che le persone a cavallo erano dei briganti. Si fu allora che li attaccammo ed anche una pattuglia di cavalleria composta di 14 uomini e che ci sopraggiunse nel momento dell'attacco, fece altrettanto, ma poiché aveva terminato la munizione, dovè retrocedere, e noi soli restammo a far fronte a quei ribaldi al di là di 50, oltre a diversi che vedevansi nelle vicine masserie. Quantunque risoluta fosse stata la nostra difesa, pur tuttavia sopraffatti dal numero dei briganti, e dalla posizione poco favorevole che occupavamo, sventuratamente perdemmo otto dei nostri compagni, oltre ad un altro a nome Guglielmo Maurigi che non fu mai da me visto durante l'attacco, e che tuttavia è assente dalle compagnia. Scoraggiati dalla perdita dei nostri compagni e vedendo che niun soccorso avevamo, così facemmo fuoco di ritirata e potemmo a stento campare la vita. Durante l'attacco quell'orda brigantesca, ad alta voce ci imponeva di deporre le armi, dicendo che essa era la banda capitanata da Michele Caruso, e che quindi eravamo tutti perduti. Niuno di quei malandrini ci riuscì conoscere, solo ci accorgemmo che fra quella gente eravi una donna giovane di età, la quale era armata di una grossa pistola di cavalleria, e si batteva con coraggio sorprendente. Non saprei dire però se i suoi colpi avessero ferito alcuno dei nostri. Solo da un borghese di Sassinoro che si trovò presente all'attacco, appresi che quella spietata donna nel vedere i cadaveri de' miei compagni, vi passò per sopra col suo cavallo, dilegiandoli barbaramente, e volle inoltre che i suoi avessero fatto altrettanto. Appresi pure che quella donna era la druda di Giuseppe Schiavone. Attesa la confusione che regnava in quel momento, non sarei al caso di riconoscere veruno di quei briganti, nè la donna di cui sopra ho parlato. I miei compagni morti sono Ilario Tomaiello, Mascia Giovanni, Persano Pasquale, Mattei Berardino, Racca Eugenio, Vignati Angelo, Conti Angelo, Perini Michele". Caruso punta su S. Bartolomeo in Galdo nelle cui vicinanze lo attende per l'11° luglio l'altro capobanda Schiavone. Conta gli uomini: 40 dei suoi, 30 di Schiavone. Un nuovo affiliato Pasquale Silvestro da S. Felice a Cancello di professione vetturale e disertore del 2° Reggimento Fanteria, aspira ad assumere una funzione di spicco tra i componenti. E' lui che sulla strada che da S. Bartolomeo porta a Benevento, uccide il 15 luglio due manovali del telegrafo impegnati nella riparazione dei fili e alla fine del mese sequestra il procaccia Silvestro Troise derubandolo della valigia postale (38). Il Colonnello decide di riparare in Capitanata per far perdere le tracce di sè. Ci riesce per una quindicina di giorni, finché una colonna di bersaglieri e Guardie Nazionali non lo avvista a Troia. Nello scontro muoiono sette briganti ed è fatta prigioniera Maria Luisa Ruscitti (39). Si impone la necessità di tornare nel beneventano. A Pontelandolfo gli si para innanzi il 26 agosto una compagnia del 39° fanteria; un brigante rimane ucciso. Mentre una quindicina di uomini va a raccogliere provviste alla masseria di Michele Cerulli e si abbandona ad altre violenze contro Carmela Labriola quindicenne, egli si impegna con un folto gruppo di uomini a sequestrare temporaneamente ben 150 tra contadini e carrettieri nelle vicinanze di Morcone, perchè non avvisino i viaggiatori della diligenza del pericolo che incombe su di loro. Realizza un buon bottino e senza esitazione fa fuoco su tre viaggiatori intenzionati a sottrarsi alla cattura. Continua ad aggirarsi nella zona per ricattare qualcuno, quando si accorge che tre dei suoi soldati si dispongono alla fuga per presentarsi alla magistratura ordinaria. Li uccide e nello stesso giorno, 31 di agosto, fa prigioniero il cancelliere Michele Colesanti che da Morcone, suo luogo di residenza si reca come ogni mattina al suo ufficio presso la Pretura di Pontelandolfo. Fortuna per il cancelliere che lungo la strada ci siano i soldati in perlustrazione. Caruso si dà alla fuga e restituisce Colesanti alla libertà. A S. Croce di Morcone altro incontro sgradito; appaiono le Guardie Nazionali che uccidono un brigante. La comitiva per un totale di quaranta uomini arriva a Decorata frazione di Colle Sannita il 1° settembre. Il brigante Silvestro Pasquale gli è a fianco per costringere con brusche maniere il contadino Giorgio Marino ad accompagnarli alla masseria del figlio che intendono sequestrare. Il vecchio si rifiuta; Silvestro gli spara contro e lo ferisce gravemente. Due donne Teresa Martucci ed Angela Zeolla hanno assistito alla scena; impaurite vanno a nascondersi, sono prese ed uccise. Solo l'intervento di alcuni briganti di Colle piega Caruso alla pietà; risparmia così la diciassettenne Serafina figlia della Martucci. Al galoppo nello stesso giorno raggiunge il bosco di Riccia dove lo aspetta il capobanda Tittariello per fondere la comitiva. Il contingente assomma a 60 uomini. Un massaro ha portato a Caruso la polvere da sparo e come egli è solito fare quando non è del tutto persuaso che il prodotto sia buono e il manutengolo di fede sicura, si mette a tirare su bersagli umani. Ne sono vittime i massari Michele Di Domenico e tale Moffa alias Cascetta. Il Colonnello si inoltra per i campi ed attraversa il podere di Giuseppe Ciccaglione. Il poveruomo appena lo vede ha un balzo, teme per la figlia Filomena e si mette a correre verso casa per dirle di mettersi in salvo. Caruso ha l'impressione che voglia andare a denunziare la sua presenza in quei luoghi e lo uccide. Il tre seguente lo raggiungono altri della banda con Concetta Chiavari da Molinara fatta prigioniera nel suo fondo in contrada Murge. La donna si abbandona ad una scena di disperazione; Caruso interrotto nel mentre sta elaborando altri piani con Schiavone, contrariato dà ordine di ucciderla (40). Si dirige indi a Torrecuso nelle vicinanze di Benevento con 34 briganti a cavallo. Ai suoi ordini militano i giovani Enrico Papiccio, Giovanni Montai, Michele Sassano e il fanciullo Antonio Orsolino di appena dodici anni. Fanno parte di quel contingente di ragazzipastori radunati da Giuseppe Schiavone nella Puglia e compromessi con la giustizia per reati di abigeato (41). Attacca e mette in fuga il 6 settembre, sei Guardie Nazionali, 3 soldati e un caporale del 39° fanteria. Sequestra Giuseppe Zolli Mellusi che rilascerà 6 giorni dopo, a seguito del pagamento di 2.000 ducati. Gli uomini sono stremati dalle incessanti cavalcate attraverso il Molise, Il Beneventano e S. Severo di Puglia, ridotti all'esasperazione dalle manovre diversive in prossimità dei centri abitati, allorché Il colonnello con comandi imperiosi li lancia a raggera, pretendendo il concentramento dei gruppi in tempi raccorciatissimi. Non gli interessano le distanze in cui si trovino ad essere catapultati, le forze in perlustrazione, il percorso rallentato sulle montagne, il paesaggio ingannevole del Valfortore con l'orizzonte basso sempre uguale con la possibilità di incorrere in errore, ritornando al punto di partenza. Chi fa ritardare la comitiva è punito con la morte; il suo cadavere gettato nei burroni a miserando pasto dei falchi. Certo è sorprendente che le moderne superstrade delle tre privincie siano sorte sulla rotta dei briganti ed è quasi incredibile che uomini a cavallo abbiano coperto lunghi percorsi in breve spazio di tempo. Solo la volontà implacabile del Capo ed una disciplina rigida, tanto poteva ottenere. Dunque gli uomini devono coprire un percorso lungo ed impegnativo: Torrecuso - Castelvetere Valfortore in un giorno 6 - 7 settembre '63 o attraverso la via dei monti o aggirando Benevento con problemi di guado attraverso il fiume Calore (42). Dopo, avere la voglia di andare in giro nelle masserie a chiedere cibo e ricovero, far paura alla gente. E un nonnulla basterà a scatenare la tragedia. Creature che piangono, fanciulle inseguite, uomini di casa che danno di piglio al fucile. Atri morti. In nome di Francesco II. Così è in contrada Cancinuto di Castelvetere Valfortore. Diciotto tra uomini e donne, vecchi e fanciulli fuggono spaventati al primo abbaiare di cani alla comparsa della banda. Sterminati tutti senza pietà. Due giorni per il bivacco, per riposarsi ed attendere i capibanda Schiavone e Varanelli. In S. Bartolomeo si viene a sapere dell'eccidio; si dà l'allarme; si suonano a stormo le campane; si raccolgono volenterosi in aiuto alle Guardie Nazionali, Carabinieri Reali e Guardie di Pubblica Sicurezza. Caruso non vuole arretrare, anzi cerca il combattimento. Va diritto sull'abitato. Fuori del paese cade Pasquale Ruggiero; indi è la volta delle Guardie Nazionali Giuseppe Farina, Michele Lauro, Basilio Viesti, Donato Vinciguerra, Michele Pepe, Angelo D'Andrea, Achille Mariella, Biase Iannantuono, Antonio Picciuta, Antonio Circelli, Michele Nolas. Cade il Pelosi luogotenente del giudicato; cadono le Guardie di Pubblica Sicurezza Giovanni Guerra e Pellegrino Troise; cade il Carabiniere Reale Pasquale Santorita (43). I paesani temono l'invasione, quando Caruso intima il dietro - front. Via tutti a sequestrare don Giuseppe Iafaioli, don Angelo Maria Gisoldi, Domenico Del Prete e Domenico De Mora. Tutti uccisi, anche i primi due, nonostante le famiglie Iafaioli e Gisoldi abbiano subito raccolto 1.400 ducati. Nel corso dei sequestri alle masserie feriscono quattro individui, tra cui tale Michele Cerignola che a causa delle ferite riportate, morrà diciotto giorni dopo (44). Tutto questo il 9 settembre 1863; tanti morti e cospicuo bottino. Davanti al tribunale militare di guerra, Nicola Tocci negherà di aver fatto parte dell'eccidio. Era tuttavia nel bosco di Monticchio quando Caruso, Ninco-Nanco ed altri capi si divisero il bottino (45). Solo una piastra o due per ciascuno, furono distribuite agli altri briganti - soldati semplici. Ammetterà che, passando la comitiva il 13 settembre per Pietrelcina, catturò Giuseppe Fucci e lo uccise, per quanto il nipote gli avesse dato sessanta ducati e due giumente. Gli domandano i Giudici: "Non arrecò altri danni alla famiglia di Fucci Giuseppe?" "Ah, sì, dimenticavo. Scannai di mia mano diversi buoi Sulla via di Foggia il bottino non si deve spartire, tutti debbono andare da Ninco-Nanco per questo; il colonnello dice che occorre provvedersi di viveri ed indumenti. Si è al 13 di settembre e strada ce n'è da fare. Tre briganti irrompono ad Apice in contrada Calvano, alla masseria dei Belmonte. La figlia nubile Anna, quando ne comprende 1'appartenenza, terrorizzata dalla possibilità di incontrare Caruso di cui è ormai risaputa la violenza che fa alle donne, (quante ne ha rapite ed uccise solo perché stavano per divenire madri!), corre a nascondersi nella casa di Saverio Carbone. Con un urlo di raccapriccio, si imbatte in Caruso che la violenta alla presenza della moglie del Carbone. Di poi il colonnello istiga tre dei suoi a fare altrettanto ad una fanciulla della vicina fattoria S. Auditorio. Dove va la comitiva? Da Ninco-Nanco in Basilicata come ha detto Nicola Tocci? Chissà. Ne ritroviamo le tracce ancora ad Apice il 30 settembre. Un sequestro va a monte e Caruso nell'impossibilità di trattare direttamente con i proprietari o loro parenti fuggiti, prima del suo arrivo, ammazza una mandria di vacche dei benestanti Matteo La Medica e Angelo Santoro in segno di sfregio, quindi brucia le messi di Giuseppe Catassa e di Lorenzo Nardone. Via via le provviste si assottigliano fino a finire del tutto; gli ultimi giorni gli uomini hanno fatto la fame; Giuseppe Pellegrino accusa violenti crampi allo stomaco e si abbandona allo scoraggiamento, bestemmiando il giorno in cui si è fatto brigante. Gli altri fanno seguito con imprecazioni; pare siano vicini ad una esplosione di rabbia collettiva. Prima che questo si verifichi, Caruso uccide con una coltellata il brigante affamato e ne butta il cadavere in un burrone. L'ordine è ristabilito e tuttavia il cibo si deve trovare ad ogni costo. Nei pressi di Morcone in contrada Cuffiano, il colonnello bussa alla masseria di Pasquale De Maria. I Fuschi non possono più aiutarlo; sono in galera per avergli dato ricovero e provviste. Chiede foraggio per le bestie e cibo per tutti. Berardino Polzella venuto ad aprirgli la porta dice che il padrone Pasquale non c'è e nulla nella sua assenza è autorizzato a dare. "Come - dice Caruso - le Autorità non vogliono che voi ci diate da mangiare? Mettetevi tutti in fila!" Obbediscono Luigia Pietrangelo, Berardino Polzella con la moglie Marta Zeoli, i figli Giuseppe, Mariantonia, Luigi, Domenico e Michele. Tutti fucilati, indi fatti a pezzi e sfigurati con colpi di pugnale; tutti anche Luigi di nove anni, Domenico di sette e il piccolino Michele di appena quattro anni. Il medico legale attesterà che la più giovane era stata violentata sino alla morte da quasi tutta la banda, forte di oltre cinquanta briganti. Nella masseria non c'era più vino, olio, grano ed avena (46). Caruso si è messo in via per Benevento il giorno dopo, il 6 ottobre lo ritroviamo a S. Giorgio la Montagna, attualmente S. Giorgio del Sannio. Riceve polvere da sparo; immediata esercitazione sulla schiena di nove contadini che lavorano la terra. Su nove infelici, cinque rimangono stecchiti, gli altri gravemente feriti. Il 12 ottobre ripassa a Decorata di Colle Sannita nello stesso fondo in cui ha ucciso il 1° settembre Giuseppe Ciccaglione; vede la figlia Filomena intenta con altre donne alla semina. L'afferra e la issa sul proprio cavallo. Per ben quattro volte Filomena si getta giù per sottrarsi al suo rapitore. Egli la trascina nel bosco di Riccia e in una grotta la violenta, indi la rimette in sella e la costringe ad una lunga cavalcata, finché non avvista un gregge. Il cane pastore gli si avventa contro mostrandogli le zanne; Caruso lo uccide. Fa legare il padrone, uccidere ed arrostire i migliori montoni. Dopo una breve sosta, si parte per la Puglia, per Volturara Appula. Con 40 uomini circonda la fattoria di Pasquale d'Andrea e per persuadere in fretta il proprietario Antonio Piciuti a sborsare un riscatto di 200 ducati, gli tronca la mano destra. Per sottrarsi all'inseguimento delle truppe stanziate in Volturara, Caruso ritorna nel Molise verso Il bosco di Riccia, dove avvisate in tempo dal telegrafo, muovono contro di lui tre compagnie del 27° fanteria agli ordini del maggiore Giuliti e due del 45° del Maggiore Napolitano. Il colonnello avvisato dagli informatori appena in tempo fa dietro-front per la Capitanata attraverso Alberona, S. Paolo, Torremaggiore. Si ferma alla masseria Buccini e poichè oltre ai viveri non può ricevere altro, per rappresaglia fa uccidere 24 vacche del proprietario Luigi Pertosa di S. Nicandro. A Lucera il 16 ottobre, viene circondato e perde un brigante nello scontro; ritorna indietro ad Aberona. Da Serracapriola, per disorientare gli inseguitori, fa recapitare un cartello di sfida al maggiore Civitelli del 14° fanteria; lo attende al ponte Civitale. In realtà si rifugia al bosco Grotta che conosce a menadito e ritiene idoneo nascondiglio. Quindi il 17 ottobre con la banda, circonda la masseria Monachiella tra Torremaggiore e Casalveccliio di Puglia (47). Dà ordine ai ventiquattro vaccari di mettersi insieme tutti da parte, nel mentre i suoi rovistano in casa per provvedersi di viveri e foraggi. Quattro dei malcapitati si chiudono dentro un bugigattolo; viene sfondata la porta e un brigante ne ferisce tre con la baionetta; quelli si danno a piangere a gran voce, invocando pietà. Si sparano loro addosso due colpi. Agli spari appaiono Caruso e Luigi Cottarelli chiamato Coppola Rossa. Questi li prende per i capelli trascinandoli alla presenza di Caruso. Il colonnello che in quel momento impugna un rasoio, se ne serve per segnare loro sulla guancia un segno di croce. Il brigante Nicola Tocci che fa da sentinella e spia se venga la forza, li insulta: "Fatevi buona confessione, altrimenti il Papa non vi assolve". Caruso li sgozza di sua mano e Tocci li finisce con la sciabola, se ancora. respirano. Dei ventiquattro vaccari; tre sono risparmiati: uno che è muto ed altri due perché vadano dalle Autorità a portare la notizia. Dal 18 al 20 ottobre Caruso è impegnato a sottrarsi all'inseguimento della truppa. Viene localizzato a Torremaggiore il 18 ottobre dal 6° squadrone lancieri Aosta; nell'impatto perde sei uomini. Quindi piega verso Lucera, ma incalzato dalla Guardia Nazionale si rivolge verso Biccari ed Alberona. Il 19 ottobre prima lo assale un gruppo di Guardie Nazionali di Roseto che gli uccidono un uomo, di poi una compagnia del 26° fanteria di Foiano che lo priva di un brigante e di una briganta. Il 20 sono sulle sue tracce gli Ussari che uccidono due briganti. Il colonnello divide la banda. Per dieci giorni gli uomini vadano per conto loro; si rivedranno il 29 ottobre a S. Bartolomeo. in Galdo. Un gruppo di sette uomini il 28 è già a Foiano, allorchè avvista Angelo e Lucido Bocchino, Berardo e Ciriaco Colella. I due Bocchino erano partiti qualche giorno prima da contrada Terranova di S. Giorgio la Montagna (ora del Sannio) [più propriamente Terranova è frazione di San Martino Sannita] con alcune bestie da soma cariche di castagne, diretti a S. Bartolomeo; strada facendo si erano imbattuti nei Colella da Pietradefusi che avevano chiesto di aggregarsi a loro; con tanti briganti in giro, meglio essere in compagnia. Di ritorno da S. Bartolomeo con grano e granturco da rivendere nei paesi di provenienza, a Foiano vedono spuntare i sette briganti (48). I Colella si mettono a tremare verga a verga, poi si rinfrancano sentendo Angelo Bocchino esclamare: "Oh, il mio Baldassarre!" E' Baldassarre Ianzito di S. Giorgio la Molara, amico del cognato di Angelo, militante nella banda. Angelo si apparta con Baldassarre a confabulare di chissà che. Baldassarre ammicca ad un altro brigante che spara su Lucido e lo uccide. I Colella vedono Angelo togliere gli orecchini d'oro dai lobi degli orecchi di Lucido Bocchino, steso cadavere, ed appropriarsi della roba. Non sanno cosa pensare; quelli sono briganti, ma questi che fa il viaggio con loro, che non sia più brigante di loro? (49). Come stabilito i componenti della banda si ritrovano il 29 ottobre a S. Bartolomeo nella fattoria di Domenico Ianni; credono di avere ingannato gli inseguitori ma si sbagliano; troppo ostentatamente hanno preso varie direzioni. E' logico che abbiano un punto di riferimento, evidentemente in una zona di confine. S. Bartolomeo forse. La Guardia Nazionale è invitata a sorvegliare non tanto i sentieri, quanto le case rurali, poiché non è pensabile che i briganti varchino i limiti della provincia senza concedersi una sosta. Si va quasi a colpo sicuro, ma Caruso prevedendo una sorpresa del genere, non sconfina in Puglia che sarebbe circondato; fugge verso il beneventano verso le terre di S. Vincenzo e distanzia in breve tempo due squadroni di cavalleria. All'alto comando militare, questo eterno avantindietro di Caruso proprio non va a genio e il Generale Pallavicini comincia a tempestare con i dispacci. Generale - Prefetti, Prefetti - Sottoprefetti, Sottoprefetti - Delegati di Pubblica Sicurezza. Dov'è Caruso? Alle masserie no, per le strade neppure, nei boschi, ma quale? A questo punto entrano in azione i Delegati di Pubblica Sicurezza, sulla collaborazione dei quali, molto si fida con i corpi separati. Si mischiano tra la gente, ascoltano nelle taverne, promettono premi; per quanto sappiano bene di dover ancora temporeggiare per acciuffare Caruso, sperano di prendere qualcuno della banda dietro informazione di confidenti, magari in qualche osteria confuso in mezzo ai carrettieri. Tra Arienzo e S. Maria a Vico, la sorveglianza si fa attenta; cinque uomini a cavallo destano sospetti; conviene circondare la prossima locanda. Il Delegato di S. Felice a Cancello avvisa i Carabinieri Reali, le Guardie Nazionali e Soldati di stanza (50) . Cinque individui: Antonio Orsolino, Pasquale Silvestro, Giovanni Montai, Enrico Papiccio e Michele Sassano stanno montando a cavallo; li perquisiscono e trovano loro addosso duemila franchi. Dopo essere stati sottoposti ad interrogatori pressanti sono portati in giro per le vie del paese. Pare che la banda sia ridotta a venti uomini. Eccolo là il Delegato che li ha presi. E il suo grande momento. A Caruso non lasciano scampo; gli prendono un uomo alla volta. I manutengoli di S. Bartolomeo in Galdo sono guardati a vista e Giovanni Zeolla va troppo in giro; lo mettono in carcere e battendo la strada che egli era solito fare, tre giorni dopo arrestano il brigante Nicola Tocci, ferito al ginocchio sinistro. Qualcuno si presenta spontaneamente; è Antonio Sovino al Delegato di Pubblica Sicurezza di S. Giorgio la Molara (51). In territorio di S. Marco dei Cavoti, 12 cavalleggeri di Monferrato, arrestano Vito Paolo Daddato. Le perlustrazioni continuano; sulla montagna di S. Giorgio la Molara si rinviene cadavere Penta Agostino. Alcuni contadini dicono che aveva la febbre e Caruso temendo si consegnasse alla giustizia come gli altri, lo aveva ucciso. Giuseppantonio Paoletti di Montefalcone Valfortore che ha dovuto dare ricovero alla banda nella sua masseria, va a dirlo alle Autorità; teme di essere messo in galera come manutengolo. Gli fanno coraggio; piuttosto avvisi in tempo quando Caruso ritornerà da lui; per compenso e per attutirgli la paura, gli danno 850 lire in premio. Risultato, quando il luogotenente Alberto Ulliasco alle due di notte con un plotone di bersaglieri il 6 dicembre 1863 circonda la casa, i briganti si difendono ad oltranza. Meglio aspettare per prenderli altri rinforzi, un plotone di Guardie Nazionali di Roseto Valfortore e una brigata di Carabinieri Reali. Nel conflitto a fuoco il giorno dopo, rimangono feriti due contadini della masseria. Si va a cercare i briganti; tutti morti: Giuseppe Spinelli da Casalnuovo; Matteo Bartoletti di Castelmaggiore, Carmine Parisio di Basilicata, Baldassarre Tocitillo da Molinara, Luigi Mastrolitto da Torremaggiore e due di Castelnuovo di cui non si conoscono i nomi (52). Caruso non c'è e neppure il brigante Testa. Sono fuggiti verso S. Giorgio la Molara; vanno a prendere Filomena Ciccaglione, prima di partire per la Basilicata e rifare una nuova banda. Non si parla d'altro nel circondano di S. Bartolomeo e del premio esorbitante di L. 20.000 che per il Prefetto di Benevento il reggente Homodei, autorizzato dal Governo, ha messo a disposizione di chi farà prendere Caruso. Le donne scuotono il capo e guardano fisso mariti e figli; non vogliono nè permettono che si cambi posizione, si diventi ricchi all'improvviso, a prezzo di tradimento, di grande rischio e di morte. I vecchi tirano di pipa sornioni; i giovani restano assorti. Qualcosa accadrà, si sente nell'aria; aria di tradimento, di morte. Qualcosa gli uomini hanno capito: viene l'ora della vendetta. Filomena Ciccaglione che non ha dimenticato l'uccisione del padre da parte di Caruso, sta diventando lo strumento passivo dei signori possidenti del suo paese, desiderosi di benemerenza presso le nuove autorità. Non li hanno forse visti in compagnia degli ufficiali piemontesi, il delegato non è stato visto nelle case, portatore di occulti messaggi e le serve di case perbene, perché stanno così silenziose e sbigottite? Filomena sa che il colonnello ha solo il Testa con se. Caruso vuole vederla; le ha dato appuntamento in una pagliaia. Dove, Filomena lo confida al contadino Luca Pacelli. Il Sindaco Ionni di Molinara lo viene a sapere da lui. Se Pacelli vuole il premio, se lo meriti, facendo compagnia alla Ciccaglione per non destare sospetti, nel mentre egli radunerà 14 Guardie Nazionali di Molinara per circondare il rifugio. Così viene fatto. Filomena agisce in trance, solo le mani le tremano, il cuore no; tutto doveva avvenire da tempo, ineluttabilmente. Si avvicina a quell'uomo per cui ha sentito sempre ripugnanza e lei che non si è mai lasciata andare alle tenerezze, gli comincia a carezzare i capelli. Piano, con tocco leggero, a lungo senza fine. L'uomo lascia fare senza fastidio, poi all'improvviso le punta lo sguardo pungente addosso; l'ha tutta nelle pupille. - Mi hai tradito - dice Caruso, con calma senza ribellione. La sua ora è venuta, l'ora del colonnello Michele Caruso. Solo Luca Pacelli abbassa il capo vergognoso, al Testa diciassettenne può apparire un tale che si impicci dei fatti suoi, incurante delle recitazioni femminili, di affetti mai provati (53). All'improvviso 1'irruzione; il piano preparato con cura meticolosa scatta. L'uomo fa per prendere la pistola, ma è subito disarmato; forse è il gesto inconscio di chi è abituato a difendersi, la reazione del militare di fronte al pericolo. Le Guardie Nazionali legano Caruso e il Testa, la Ciccaglione anche; non è forse amica del Colonnello Caruso? Al Sindaco Ionni non pare in questo momento il caso di fare distinzioni e spiegare alle Guardie che per la Ciccaglione non sarà formulata accusa di associazione a banda armata; a lei è già stato accordato il perdono, già è stata scagionata da qualsiasi imputazione. Si portano i tre a Molinara, a quel che si dice ancor oggi, tra il compiacimento di tutti. Il Reggente Homodei dà indi l'ordine di traduzione immediata; si esegue. I Giudici militari preavvisati, aspettano riuniti nella sala grande del Palazzo del Cardinale Arcivescovo di Benevento. Per pura formalità, separatamente si intende la Ciccaglione che può subito ritornare in libertà. Si fa venire innanzi Caruso Michele; ha qualcosa da dire? Con accento sicuro, l'imputato professa la sua appartenenza a banda per iscopo politico, in adesione alla causa legittimista e clericale. Il Generale Pallavicini - no, gli dice - Caruso è solo un volgare assassino. Nientaffatto, risponde Caruso Michele, ho difeso il mio Re, come voi il vostro. No, è diverso. - Va bene - Avete ucciso - Anche voi, Signore - No davvero - Va bene, posso farvi prendere la banda se voi volete - No - voi e il Testa siete gli unici briganti superstiti - Ma posso indicarvi i manutengoli - No - Farvi prendere altri banditi. Un lampo negli occhi del Generale e un sorriso, suo malgrado divertito. Caruso è di parola con tutti, meno con i soldati di Vittorio Emanuele II. Sarebbe come dare scacco matto ai piemontesi oppressori e tirarsi addosso tutte le bande delle province meridionali, liberare Caruso, rimetterci la pelle - la carriera - l'onore. Lo sa e non lo dice. Risponde no. Passiamo a Testa. Testa confessa tutto; guarda terrorizzato quei signori impeccabili come damerini nelle loro uniformi, con tanto oro sulle frange e sui gradi. Sono signori e danno la morte. Meglio il colonnello Caruso, un colpo e poi basta, senza i perché, i codici, i paragrafi, la legge di un Re. Di chi? Di Vittorio Emanuele II. Ma perchè non sperare che gli facciano grazia? E' giovane e vuole vivere, non vuole morire come il colonnello Caruso. Un gesto reciso ed annoiato, tronca l'interrogatorio. Lo ha fatto il Generale Giorgio Pallavicini. Il giovane Testa non lo interessa; lo ha infastidito trovarsi di fronte l'altro, 1'organizzatore del grande brigantaggio nel Molise, Beneventano e Capitanata; per poco non estendeva la sua giurisdizione, in seno contrario, nelle province della sua zona militare. Signori - egli dice - deve farsi relazione scritta di questa adunanza. Si fa il verbale della Seduta del Tribunale Straordinario di Guerra convocato d'ordine dal sig. Generale Pallavicini (54) ……… A Benevento subito si sparge la notizia della prossima esecuzione. Tutti vogliono vedere il colonnello Caruso. - vero che è così brutto? - I militari non si fanno pregare per metterlo in mostra; sul cavallo no, sarebbe troppo marziale, sul mulo un tantino meno; meglio metterlo su di un asino, strettamente legato. Contro Caruso si levano grida ed insulti, qualcuno si slancia a sputargli addosso; è la gente del vicino contado. I beneventani, no. Sono più incuriositi che sdegnati. Quant'è brutto, Madonna mia, anzi bruttissimo! Lo dicono ad alta voce e glielo fanno sentire. Caruso guarda torvo, bieco, sprezzante; una smorfia gli contrae il viso e lo sfigura ancor più. Ma come, non ce lo avevano detto, esclamano i beneventani, è pure guercio! (Si tratta invece di un abbaglio collettivo). Andate a farglielo notare ad un beneventano, a più di un secolo di distanza, vi dirà che era bruttissimo e guercio, poi aggiungerà che lungo la via alla fucilazione, gli domandarono a gran voce: Carù, Carù, addò (li) ai annascuosto i' tesori tui'?" Egli rispose: "Chi scava trova, chi scava trova". Tanto disse il colonnello Caruso e tante "vote quante chilli gliel(e) addimmannaren(e). Lo portarono dopo Piazza Mercato, fuori Porta Rufina, in un grande spiazzale, là dove hanno di poi costruito l'edificio della Posta Centrale. Francesco Testa si mise a piangere; si buttò in ginocchio davanti al plotone d'esecuzione; chiese che gli facessero la grazia in nome della Madonna. Non gliela fecero, lo bendarono, lo uccisero. I soldati slegarono Caruso ed egli camminò a passo agile e svelto; si dispose loro di fronte, severo nell'aspetto. L'ufficiale che comandava il plotone, come di rito, gli si avvicinò e gli chiese ad alta voce: "Avete qualcosa da dire?" Caruso rispose: "No. Sono innocente". Fecero fuoco ed egli cadde riverso sul fianco destro, con un grido soffocato, quasi un colpo di tosse. Seppe morire. Aveva cavalcato la tigre e non ne era sceso neppure per un momento. Il suo cadavere fu esposto alla folla per ventiquattro ore e i beneventani andarono al mortorio, senza risentimenti, perché qui nel Sud si porta rispetto ai morti, anche quando hanno fatto un gran male. Il 13 dicembre 1863, alle ore 16 fu steso l'atto di morte. Era presente il Barone Celestino Bosco Lucarelli funzionante Sindaco ed Ufficiale dello Stato Civile. Sul documento apposero il segno di croce i becchini Pellegrino De Luca e Felice Agostiniello. Essi non sapevano scrivere. Per la morte di Caruso, pubblico riconoscimento a Nicola Ionni Sindaco di Molinara e al sottotenente Santoro della Guardia Nazionale dello stesso paese: sono nominati Cavalieri dell'Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro (55). Hanno fatto presto a concedere titoli, pezzi di carta! A chi andrà il premio, dopo il gran chiasso che han fatto? L'attenzione generale non si appunta tanto su Luca Pacelli; via non è quel coraggioso che vogliono far apparire. Il buon senso del popolo prevale: non può aver agito da solo; ci saranno stati altri delatori. Arrivano le prime conferme ufficiali. Sì, altri due contadini, un numero imprecisato di guardaboschi, ma sui nomi si mantiene il più rigoroso riserbo ed è ovvio; non piace a costoro essere segnati a dito e chiamati spioni. I commenti arrivano fino a Torino capitale del Regno italiano; in data 28 dicembre 1863 al Reggente Homodei Prefetto di Benevento, arriva una ministeriale: "Sarebbe molto gradito se il sindaco destinasse parte della somma alla fondazione di un asilo infantile o altra opera di pubblico vantaggio a beneficio di Molinara, affinchè la dolorosa memoria delle atrocità commesse da Caruso fosse in parte mitigata da una istituzione di beneficenza che ricordasse al paese i nomi di coloro che hanno contribuito a liberarlo da tanto pericolo" (56). Coloro che effettivamente contribuirono a liberare non solo Molinara, ma tutta la provincia da tanto pericolo, furono i Carabinieri. Con autentica commozione i cittadini li hanno seguiti nei combattimenti impari per forze numeriche e nel cuore portano il ricordo di Alessandro Falini. Vorrebbero che una Caserma d'Italia portasse il suo nome. L'unanime desiderio popolare si è attuato; Oggi la Caserma del Comando Gruppo Carabinieri di Benevento si chiama Alessandro Falini. Nell'atrio, una lapide illustra la motivazione …….. Quanti i morti in combattimento nella provincia di Benevento? Non c'è una statistica precisa, nè tanto meno approssimativa. Ed allora, dobbiamo rinunziare a contarli i morti? No, facciamolo sia pure in piccolissima parte. Guardie Nazionali: 5 di Paduli, 12 di Circello, 10 di Torrecuso fucilate all'Olivola vicino Benevento, 31 di S. Bartolomeo in Galdo. Soldati di varie Armi: nessun quadro riassuntivo dei morti negli scontri contro Caruso, risulta essere stato inviato per conoscenza alle Autorità civili. Poveri figli, dicono i beneventani, speriamo che abbiano avuto una sepoltura da cristiani e non siano dispersi come in guerra. Come se questa non fosse una guerra, più dolorosa di ogni altra e civile: Italiani contro Italiani La ricerca pietosa approda al ritrovamento di diciassette salme. Trattasi dei soldati del 39° Reggimento Fanteria, caduti nell'agguato teso loro da Caruso e Schiavone il 24 febbraio 1863 in contrada Francavilla. I cittadini di Benevento non li hanno dimenticati; al Cimitero prima di andare dai loro morti, sostano dinanzi al monumento che trovasi immediatamente all'inizio del Viale principale di accesso alla Chiesa Madre. Ai lati della piramide tronca, simbolo della giovinezza crudelmente stroncata, ci sono questi nomi: Sottotenente CAMILLO LAURI - Pausula (Macerata); Sergente FEDERICO PARISINI - Bologna; Caporale BIAGIO BENCIVENNI - Bologna; SOLDATI: PIETRO FANTASINI - Tortona - SALVATORE GUSAI - Nuoro - NICOLAO CALLERI - Savona - GIUSEPPE GAMBESINI - Bologna - FRANCESCO GAZZINI - Reggio Emilia - CARLO LODOVISI - Vergato (Bologna) - GIUSEPPE BARELLA - Grandola (Como) - GIUSEPPE GIORDANO - Vinadio (Cuneo) - FELICE MERLETTI - Ponanzo (Messandria) - STEFANO DAMIANO - Villafalletta (Cuneo) - FRANCESCO BIANCO - Sersale (Catanzaro) - CESARE BETTINI - Montesanpietro (Bologna) - GIOVANNI ARRIGATTI - S. Sebastiano (Alessandria) - COSTANTE TADDIA - S. Pietro in Casale (Bologna). Le lapidi allorquando onorano i caduti nella repressione del brigantaggio, non fanno il nome di chi comandava le bande. Caruso e Schiavone avrebbero avuto troppo onore ad essere menzionati sul marmo. Caruso c'è ancora tra i suoi uomini sbandati, inseguiti e braccati. Se presi, saranno deferiti al Tribunale di Guerra in Caserta; lì mandano i briganti di Avellino e Benevento, a giudizio. E' la volta di Papiccio Enrico di Acquaviva (Campobasso), domiciliato a Chieuti di Foggia, di anni 18, contadino, prima associatosi alla banda Mezzalingua di Serracapriola di Foggia, a quella di Bigiona, poi di Caporal Nunzio, indi a quella del colonnello Caruso nel seettembre 1862. - di Sassano Michele nato e domiciliato a Casaivecchio di Foggia, di anni 21, contadino, uomo di Caruso dal giugno 1862. - di Orsolino Antonio da Casalnuovo Monterotaro. di Foggia e domiciliato a Casalvecchio, stessa provincia, di anni 12, pastore. - di Montai Giovanni nato e domiciliato a Celenza di Foggia, di anni 27, contadino. - Tutti e quattro arrestati dal delegato di Pubblica Sicurezza tra Arienzo e S. Maria a Vico il 1° settembre 1863, giudicati insieme in Caserta il 2 marzo 1864; condannati Papiccio, Sassano, Orsolino alla fucilazione per il reato di brigantaggio, grassazione con omicidio e ribellione con omicidio: articoli Codice Militare 596 par. 1 e 247 par. 1. Antonio Orsolino ha solo 12 anni! Il Montai lo condannano alla pena dei lavori forzati a vita, commutata poi in venti anni di reclusione. Il 17 marzo 1864, altro processo dinanzi ai giudici militari. Imputati: Daddato Vito Paolo da Torremaggiore di Foggia di anni 21 e Scarino Antonio di Domenico da S. Giorgio la Molara, di anni 28. Entrambi sono di professione braccianti. L'uno, il Daddato si era unito a Caruso nel luglio 1861 e con lui era rimasto fino al 13 novembre dello stesso anno, allorchè venne arrestato nelle vicinanze di Baselice nel luogo detto Spartita, da soldati dei Cavalleggeri di Monferrato; l'altro, lo Scarino dall'aprile 1863 fino al novembre stesso anno in cui si era spontaneamente presentato al delegato di Pubblica Sicurezza di S. Giorgio la Molara. I giudici ritengono privo di qualsiasi fondamento quanto asserisce, cioè di essere stato preso con la viva forza da Caruso sulla montagna di S. Giorgio la Molara; gli ricordano i numerosi precedenti criminali a carico che "io dinotano proclive di sua natura al mal fare e dispostissimo quindi alla vita brigantesca". Entrambi facevano parte della banda armata di Michele Caruso che forte dai 40 ai 50 e più individui e più persone andava scorrendo le campagne di Benevento commettendo crimini e delitti. Il Daddato fu preso dai cavalleggeri di Monferrato mentre impugnava una pistola carica fra le mani, ma non mostrò intenzione di farne uso, quando avrebbe potuto sparare benissimo contro di loro ove lo avesse voluto. Non ravvisano i giudici circostanze attenuanti, se non per Scarino presentatosi volontariamente, il che gli importa una diminuzione della pena secondo il disposto dell'articolo 5 della legge 7 febbraio 1864. Li condannano ai lavori forzati a vita, stando contro di loro le circostanze di aver appartenuto ad una banda che tutte superò in recar danno così alla vita che alle sostanze e con ferocia inaudita. Forse si giudicano gli imputati con maggiore clemenza? Viene il turno di Peschetta Giovanni fu Biagio, di anni 21, nato e domiciliato a S. Giorgio la Molara, contadino detenuto dal 10 novembre 1863. Si aggregò alla banda Caruso dal 20 agosto 1863 e gli rimase fedele fino al 7 novembre 1863, quando rimase ferito in uno scontro; lo arrestarono tre giorni dopo in una pagliaia nel bosco di Riccia. Condannato a morte il 28 di maggio 1864. Compare in giudizio Parente Saveria di Antonio, nata e domiciliata in S. Giovanni di Ceppaloni (Benevento), di anni 52 e madre di sette teneri figli. Il 6 ottobre 1863 aveva bussato alla porta di casa, un frate incappucciato. Era Carmine Porcaro suo compaesano, notoriamente appartenente alla banda Caruso; sotto questo travestimento cercava di sottrarsi all'inseguimento delle Guardie Nazionali. - In nome del buon vicinato, c'è mia madre lì nella casa attaccata alla tua in pena per me, non mi mandare via. Parente Saveria non lo manda via. Il giorno dopo gran perquisizione e sistematica in tutte le case, quella della Parente è circondata; trovano nella stalla una sella e una giumenta. Non le appartengono; Porcaro Carmine dov'è? - Sotto la minaccia della fucilazione - è al piano di sopra. Il frate incomincia a sparare all'impazzata, fortunatamente senza colpire nessuno; desiste solo quando la vecchia madre al di sotto gli grida dì smetterla. Sette anni di reclusione a Parente Saveria, il 13 giugno 1864. Signor Presidente, chi baderà ai miei figli? Non mi rassegno, voglio ricorrere per loro. - A norma di legge lo potete fare presso la Corte di Cassazione. - Non ho i soldi per l'Avvocato. - Ricorrete alla Corte d'Appello di Torino, ove siede il Tribunale Supremo di Guerra, presso cui potete avvalervi del patrocinio gratuito dell'Avvocato dei poveri. Signor Presidente non so scrivere, come faccio i1 ricorso? - Vi manderò l'Avvocato fiscale militare Lazzarino nel carcere di Via Vallottoni ove siete detenuta. Scriverà egli per voi e metterete un segno di croce. Questo in tre giorni, altrimenti scadranno i termini utili per la presentazione. L'Avvocato fiscale andò, Parente Saveria firmò. Risultato: conferma alla stessa pena in data 18 agosto 1864. Ricordate quell'Angelo Bocchino in viaggio di ritorno da S. Bartolomeo in Galdo il 28 ottobre 1863, imbattutosi a Foiano in 7 briganti capitanati da Baldassarre, il suo Baldassarre? I Colella, padre e figlio, mulattieri di Pietradefusi (Avellino), erano rimasti sconcertati ed allibiti quando lo avevano visto spogliare il morto Angelo Bocchino degli oggetti di valore, togliergli gli orecchini d'oro dagli orecchi. Chiesero, tornati a casa, informazioni sul conto di Angelo; altre ne presero nei paesi all'intorno dove li portava il loro mestiere. Appurarono così che 1'omicidio era accaduto su commissione; egli voleva disfarsi di Angelo perchè Lucido Bocchino se l'intendeva con la moglie. Caserta, 23 luglio 1864: Angelo Bocchino viene condannato ai lavori forzati a vita. Arriva l'ora per la resa dei conti per Tocci Nicola di anni 20, nato a Casalvecchio di Puglia, arrestato nella masseria di Papa Buccione nel circondano di San Bartolomeo in Galdo. Aveva 18 anni quando si era associato alla banda Varanelli, passando indi a quella di Schiavone, Caruso e Ninco-Nanco; diverse volte aveva opposto resistenza alla forza pubblica, specialmente nel bosco di Monticchio; è colpevole di molte grassazioni. Si vanta di avere ucciso in diversi scontri molti soldati e violentato diverse ragazze. Conosciamo le sue imprese nel beneventano, altre ne ha compiute a San Marco la Catola di Foggia, prima che fosse arrestato Giuseppe Cottarelli detto Coppola Rossa, in pianura di Roseto, ove Caruso abbandonò la borsa con ottomila franchi in oro. In quel fatto - 22 ottobre 1863 - era rimasto ucciso il capo brigante Varanelli. Caserta 26 luglio 1864: Tocci Nicola è condannato a morte. Caserta 27 luglio 1864. Si giudica Silvestro Pasquale di anni 22, nato e domiciliato a S. Felice a Cancello, vetturale e disertore del 2° Reggimento Fanteria. Si associò l'11 luglio 1863 nelle vicinanze di S. Bartolomeo in Galdo alla banda Caruso, forte dai 40 ai 70 individui. "Ricordate Silvestro Pasquale di essere stato condannato a quattro mesi di carcere militare a Napoli per aver oltrepassato i limiti della guarnigione?" "Sì". "Ma non lo avete detto. Ricordate di esservi unito ai briganti Lisbona e poi Varanelli, prima di unirvi a Caruso?" "Sì" "Ma non lo avete detto". Foste arrestato il 2 novembre 1863 a S. Felice a Cancello". "Sì" "Non eravate con altri quattro briganti?" "Sì" "Ma non lo avete detto". "Ma io vi dico ora che 1'11 luglio 1863, fui sorpreso dai briganti nelle vicinanze di S. Bartolomeo in Galdo e da questi obbligato a seguirli; volevo presentarmi". Silvestro Pasquale, la legge vuole fatti e non intenzioni!" Se voi volete fatti, Signori giudici, vi dico sull'anima mia, sulla bella Madonna, che non era cattivo come voi pensate". Sì, infatti i testimoni confermano quanto voi dite, che nei primi tempi intercedavate a favore delle vittime sottraendole alla morte, ma la vostra partecipazione al massacro di S. Bartolomeo e alla carneficina della masseria La Monachella, depongono contro di voi". Siete condannato alla pena di morte!" E i manutengoli, li hanno forse perdonati? Faranno anch'essi i conti con S. M. Vittorio Emanuele II. Ah, ecco i manutengoli di S. Giorgio la Molara! E' il 21 giugno 1864. Sono Marchetto Pietro di S. Giorgio la Molara, di anni 25, boaro e Callisto Nicola di anni 56, da Molinara, domiciliato a S. Giorgio la Molara, egli anche boaro. "Nei mesi di settembre ed ottobre 1863, portaste zucchero e limoni al brigante ammalato Silvestro Pasquale della banda Caruso. Avete detto sotto la minaccia del capobrigante Caruso". "Sì" "Non potevate negarglielo il soccorso?" "Noi? Signor presidente, ma voi lo avete visto, lo avete conosciuto il colonnello Michele Caruso?".. Il Sig. Presidente, preso alla sprovvista, dice di no. Dice di no, perchè è un soldato e i soldati non dicono bugie. Guarda i due boari. Se ne stanno zitti, dopo aver all'unisono mandato un lungo sospiro. "L'aiuto non sarebbe stato di libera volontà; manca la gravità d'intenzione per commettere il reato". Non luogo. I due se ne stanno lì impalati. Potete andare". "In quale luogo dobbiamo andare a scontare la pena?" "In nessun luogo, siete rimessi in libertà. Siete stati assolti. Avete capito?" Sì, Sig. Presidente, ora abbiamo capito ! ". Il 2 luglio 1864 i soldati portano in aula Caretto Donata alias Scopellina da S. Giorgio la Molara, di professione lavandaia: ha 88 anni. Detenuta dal 14 novembre 1863, è accusata di avere scientemente e di libera volontà dato ricovero, viveri e medicinali al brigante Tocci Nicola della banda Caruso, ferito nello scontro avuto con la pubblica forza nel bosco di Monticchio. Periodo del ricovero: 8 ottobre - 14 novembre 1863; luogo: una pagliaia distante un miglio da S. Giorgio la Molara. Nella pagliaia sono stati ritrovati un fucile, un cappotto, una valigia del Tocci, da lui abbandonata prima di lasciare il rifugio. "Vi rendete conto di quello che avete fatto?" "Sì, Sig. Presidente!" "Perchè non lo avete denunziato?" "Come facevo in così pochi giorni?" "Avevate tutto il tempo per farlo". "Siete condannata ad anni sette di reclusione, da oggi 2 luglio 1864". "Ma Sig. Presidente, ho 88 anni; il Re Vittorio Emanuele II non mi può fare la grazia?" "Volete inoltrare ricorso?" È un vostro diritto. Fatelo al Tribunale supremo di guerra a Torino. (Il ricorso fece presto ad arrivare e presto a tornare. Respinto in data 17 novembre 1864). Il 21 luglio 1865 il Tribunale militare di Caserta emette altre due condanne a morte contro gli sbandati De Felice Pasquale da Castropignano (57) e Di Brio Lorenzo da Busso (58), colpevoli dopo la morte di Caruso nella cui banda avevano militato, di avere costituito altra comitiva per iscopo politico nel Molise e ai confini dello Stato pontificio. Quante altre sentenze ci furono? Tante, ma queste citate sopravanzano all'ingiuria del tempo. Di tutti i protagonisti di questa tragica storia, indotti a darsi al brigantaggio per riscattarsi della miseria o perché perseguitati dalla giustizia, per ansia di libertà o perché renitenti alla chiamata alle armi di un Re ritenuto nemico, nessuno diventò fuorilegge per spirito di avventura o di novità. C'era in tutti la consapevolezza piena di andare incontro alla morte e quando c e in gioco la vita, si sa sempre perché si combatte, perché si muore. Tra quanti furono obbligati con la forza ad associarsi alla banda, pochi avendone la possibilità, si consegnarono alla giustizia; senza tema si può dire che sposarono gli ideali dei loro compagni di lotta, divennero soldati impegnandosi a non tradire. Tra i partigiani emerge una figura di donna: Maria Luisa Ruscitti, catturata da Caruso in una delle incursioni a Cercemaggiore in contrada Cappella. Aveva diciotto anni ed era di condizioni fra le più umili, bracciante agricola quando trovava lavoro e donna di fatica nella casa del possidente Leopoldo Chiaffarelli del Paese (59). La sua bellezza notevole e raccolta; i suoi sentimenti semplici e puri. Costretta a soggiacere a Caruso, era stata da lui rapidamente istruita nell'uso delle armi e sotto la guida di quel maestro, era diventata nei pochi mesi di permanenza nella banda, soldato esemplare. Per il suo istruttore ebbe rispetto da subordinato a superiore, nella ingenuità delle anime semplici ed illetterate che capiscono le doti e le limitazioni del prossimo molto prima degli intellettuali tanto proclivi all'analisi dei fatti e pur lenti ed incompleti nelle sintesi. Per lei il colonnello Caruso era un primitivo, duro e spietato perché cresciuto in un ambiente arretrato entro una natura avversa ed inclemente, in cui per sopravvivere, si doveva lottare come nei tempi di molto remoti. Noi lo diremmo un individuo che nella protostoria dei contadini meridionali, anelava al riscatto della servitù, ad una vita civile e più umana. Quali mezzi nativi aveva per lottare? Quelli da fiera selvaggia, dando e ricevendo la morte. Una donna passò attraverso un esercito senza contaminarsi; certo il colonnello non avrebbe tollerato affronti personali, ma gli uomini capivano tante cose, da come fingeva di non guardarla, sentendosi in soggezione, quando si era abbandonato ad una di quelle esplosioni di collera bruta e ruminava forse pentimenti tardivi; era abituato prima a fare e dopo a pensare. Da sempre la natura si ribella, rompe gli argini, distrugge campi e seminati, quando altri ne sovverte l'ordine insito e la rende schiava di assurde sovrastrutture. Tutte queste cose, intuiva Maria Luisa Ruscitti di sanissima morale ed illibatissimi costumi (così dissero di lei nei rapporti, nelle udienze giudici e testimoni), affine per solitudine interiore alla solitudine dell'altro, in quel tenergli testa, pacata e silenziosa. Maria Luisa la briganta e tuttavia per impegno e disciplina, una capitana. Quando uscì di galera nel 1888, era stata condannata dalla Corte di Assise di Trani a 25 anni di reclusione, per avere, durante uno scontro a fuoco, ucciso un ufficiale, sopportò per tutta la vita la sorveglianza speciale (60). L'altra, la Ciccaglione era morta da tempo, il 31 maggio 1866. Una martire, una santa, per il paese di Riccia (con una pensione di 40 ducati annui per aver contribuito alla cattura del feroce capobanda). Anche i manutengoli avevano fatto la guerra, anche le donne. Che guerra! Scopellina di 88 anni e Saveria Parente mamma di sette bambini. La povera gente nella fase aurorale delle rivendicazioni contadine, non sapendo scrivere, agi in modo corale e per questo non bisognava essere necessariamente orfani, privi di responsabilità familiari, per professare un'idea politica.

 

NOTE

1) 13 febbraio 1861 L'esercito borbonico sconfitto da Garibaldi sulla linea del Volturno tra il 1° - 2° ottobre 1860, si era ritirato a Gaeta deciso a resistere ad ogni costo. Sulle prime Napoleone III per impedire che la città fosse espugnata dalla parte del mare, aveva spedito una flotta. Fu poi costretto a ritirarla a seguito delle proteste di Vittorio Emanuele II e dell'Inghilterra. Di conseguenza Gaeta capitolò.

2) Torremaggiore è in provincia di Foggia; qui nacque Michele Caruso da Vincenzo e da Teresa Rateno il 30 luglio 1837.

3) Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento. Brigantaggio '61, Morcone - lettera del Sindaco datata 5 dicembre 1861 diretta al Sottoprefetto di Cerreto in riscontro all'uffizio 2 dicembre 1861 n. 4729.

4) Delibera dell'Amministrazione Comunale di Morcone del 22 luglio 1862.

5) Il proclama di Caruso è riportato da De Blasio "Il brigante Michele Caruso" - Napoli. Lubrano, 1910.

6) S. Croce di Magliano è in provincia di Campobasso.

7) S. Paolo di Civitate è in provincia di Foggia.

8) 19 maggio 1849. Ferdinando II di Napoli guida l'esercito contro la Repubblica Romana, ma viene sconfitto dai garibaldini.

9) Il De Blasio localizza questo episodio a Corsano provincia di Lecce. Trattasi invece di Corsano attualmente frazione di Montecalvo Irpino, provincia di Avellino, distante da Benevento circa 30 Km. e da Montecalvo 5 Km. Cfr. il Giornale Officiale di Napoli ~ 203 del 4 settembre 1862 per la masseria Capriata in Corsano indicata come vicina a Benevento. La data va anticipata almeno di 2 giorni in quanto la notizia è riportata dal Giornale Officiale di Napoli il 4 settembre 1862.

10) 19 settembre 1862.

11) 20 settembre 1862.

12) 5 novembre 1862 come risulta dal processo Dibrio e De Felice 274/318 cit.

13) Ururi è in provincia di Campobasso.

14) 14 marzo 1863

15) Palata è in provincia di Campobasso.

16) 21 marzo 1863.

17) 23 marzo 1863.

18) Colletorto è nel Molise.

19) 20 aprile 1863.

20) Riccia è in provincia di Campobasso.

21) 26 aprile 1863. Sul cadavere di Domenico Bruzzese viene ritrovato il tipico distintivo dei briganti: il ritratto di Pio IX; sul rovescio la dicitura Fac et Spera ed una mano che brandisce un pugnale con sotto la scritta Viva Francesco II.

22) 28 aprile 1863.

23) 12 giugno 1863.

24) Il bando oltre che dal Prefetto di Foggia è firmato da Domenico Varo e da Luigi Ricca.

25) 27 giugno 1863.

26) Cfr. Imputazione N. 1116 del 1863 N. 28 del Registro di Giudicatura. Tribunale Circondariale di Benevento. Mandamento di Morcone. Cartella N. 33 Tribunale Militare di Guerra Caserta. Archivio Centrale dello Stato Roma.

27) Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento. Brigantaggio 1863 Morcone, lettera del Sindaco al Sottoprefetto di Cerreto del 29 giugno 1863. Per il loro valore si sono distinti Armando Nardone sottotenente, Nicodemo Caruso sergente, Salvatore Massa caporale, Nicola Borrelli, Giuseppe Rinaldi, Nicola Paglia militi.

28) Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento, brigantaggio 1863, Campolattaro lettera del Sindaco al Sottoprefetto di Cerreto in data 30 giugno 1863.

29) 30 giugno 1863.

30) 3 luglio 1863 cfr. Giornale Officiale di Napoli N. 157, 9 luglio 1863.

31) Antonio Lisbona morirà in tenimento di Alberona. Il suo cadavere trasportato a Lucera, sarà riconosciuto da due concittadini.

32) Domenico Lisbona morirà nel conflitto a fuoco con le Guardie Nazionali di Baselice il 2 gennaio 1864.

33) Baldassarre Ianzito da S. Giorgio la Molara cfr. De Blasio op. cit.

34) Ponzio da Torremaggiore si chiamava Matteo Vartoletti; Salvatore da Torremaggiore De Meo alias Cardillo; entrambi moriranno a Montefalcone ai primi di dicembre 1863.

35) Antonio Del Grosso il 6 luglio 1863 alle due di notte, mentre i briganti bivaccavano tra S. Giorgio la Molara e Montefalcone, fuggì e si presentò volontariamente a Colle. Cfr. in Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento Brigantaggio 1863 Morcone rapporto del Sindaco al sottoprefetto di Cerreto 9 luglio 1863.

36) Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento, brigantaggio

1863 Campolattaro, sindaco al sottoprefetto (15-10-63).

37) Cfr. Lettera del Sindaco al sottoprefetto in data 4 luglio 1863, Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento Morcone 1863 e processo contro Caruso e 60 briganti ignoti Cartella N. 33 Archivio Centrale dello Stato Roma.

38) I e II imputazione contro Silvestri Pasquale processo cit. Archivio Centrale dello Stato Roma, cartella 37.

39) 18 agosto 1863.

40) 3 settembre 1863. Non fu fucilata da Giuseppe Celli. Cfr. Giornale Officiale di Napoli N. 157/9 luglio 1863. Il Celli era stato fucilato a Castelfranco in Miscano il 3 luglio 1863.

41) Come da Processo N. 450 Cartella 33 contro Schiavone Giuseppe Archivio Centrale dello Stato Roma.

42) Il percorso 6-7 settembre 1863 Torrecuso-Benevento è indicato come da processo di cui alla precedente nota.

43) I nomi degli uccisi sono riportati nella imputazione a fatti accaduti il 9 settembre 1863 contro Papiccio, Orsolino, Montai, Sassano proc. cit. di cui anche a nota 41.

44) I fatti sono desunti sempre dal processo Papiccio, Orsolino, Montai, Sassano cit.

45) Come da processo a suo carico.

46) Come da processo Tocci. Cartella 30 processo N. 164. Tribunale Militare di Guerra Caserta. Archivio Centrale dello Stato Roma.

47) Tutti gli avvenimenti sono stati desunti dal processo di cui a nota precedente.

48) 28 ottobre 1863. Bocchino Angelo fa uccidere Lucido Bocchino, dandone mandato verbale a sette briganti della banda Caruso capitanati da Baldassarre.

49) I Colella sentono che qualcosa non va. I briganti non sono li per caso.

50) Come da processo citato.

51) Cfr. Giornale Officiale di Napoli N. 270 del 18 novembre 1863.

52) Dai documenti da me visionati non risulta conferma di quanto ha asserito il De Blasio op. cit. per gli avvenimenti 6-7 dicembre 1863. Sarebbero morti nell'assedio alla masseria di Giuseppantonio Paoletti 24 bersaglieri e 36 Guardie Nazionali comandate dal capitano Goduti cfr. il telegramma N. 17162 spedito dal Prefetto De Ferrari di Foggia a S. E. Generale La Marmora Napoli. Ministro interno Torino Prefetti e sotto-prefetti delle province napoletane. Autorità della Capitanata il giorno 9-12-1863 al sottoprefetto di Cerreto e conservato in Brigantaggio Cerreto 1863 presso il Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento. Il telegramma specifica: Forze tutte illese.

53) Così come nella tradizione popolare.

54) L'episodio della fucilazione di Caruso, è stato da me narrato come ri sulta dalla tradizione orale beneventana. Non tutti lo ritenevano un feroce assassino. I contadini di Barba sulla strada di Benevento che porta ad Avellino, un po' dopo il bivio per Ceppaloni, attestarono la generosità del brigante verso la povera gente. I contadini di Colle Sannita lo rispettavano perchè se si trovava nel beneventano, ogni settimana di notte, mandava puntualmente qualcuno a pagare il conto di quanto aveva prelevato così faceva con i bottegai di generi alimentari.

55) Archivio di Stato Benevento - telegramma del Reggente la Prefettura Homodei in data 20 dicembre 1863. Montesarchio 1863.

56) La ministeriale è inviata per conoscenza a tutti i Sindaci della provincia. Archivio di Stato Benevento, Montesarchio 1864, lettera del Reggente Homodei al sindaco in data 5 gennaio 1864.

57) Castropignano è in provincia di Campobasso.

58) Busso è in provincia di Qampobasso.

59) Cfr. De Blasio op. cit.

60) Maria Luisa Ruscitti nacque il 5 maggio 1844 a Cercemaggiore ed ivi morì il 4 novembre 1903.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL BRIGANTE

MICHELE CARUSO

di Abele De Blasio

da: "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio" Stab. Tipografico, Napoli, 1910

Il 30 luglio 1837, in Torremaggiore fu visto sulla soglia della sua abitazione il boscaiuolo Vincenzo Caruso più contento del solito e ad un suo vicino che gli aveva domandato a che dovevasi tale insolita allegria rispose con un'esplosione di gioia: La mia famiglia si è arricchita di un'altra bocca! Infatti la moglie Teresa Rateno s'era, in quel giorno, sgravata di un maschietto. L'abitazione del Caruso era una vecchia catapecchia mezza rovinata, dalle mura nere, umide e screpolate; una di quelle case che contemporaneamente servono da stalla, da cucina e da dormitorio, una vera dimora della miseria, dove non possiamo concepire come quella gente vi avesse potuto vivere, amare e soffrire. Sprofondata sopra un gramo lettuccio fra il sudiciume e i cattivi odori, vedevasi la puerpera col neonato. Una candela ad olio dalla fiamma fuligginosa ardeva innanzi ad un'immagine sacra incorniciata fra quattro catinucce. Era una S. Anna che la levatrice portava in giro; perché la riteneva protettrice delle gestanti. Il giorno appresso il neonato, ravvolto nelle fascie come una mummietta e colla testina coperta da una cuffia rossa guarnita di coccarde gialle, fu portato al fonte battesimale, dove gli fu imposto il nome di Michele, in memoria forse del debellatore degli spiriti maligni, che tutt'ora impera sul Gargano. Il piccolo turco, così vien chiamato chi non è stato ancora battezzato, lavato con l'acqua benedetta, fu riportato in famiglia, dove le vicine di casa Caruso s'erano raccolte, sia per dare al bambinello il bacio rituale, sia per fare dei prognostici al piccolo cristianello. Infatti Rosa la pecorara gli augurava di vederlo subito un guardiano di armenti; Maria la moglie del fabbro-ferraro avrebbe già voluto ordinargli una tagliente scure, perché diceva che Micheluzzo, ben presto, avrebbe prestato aiuto al padre e la levatrice, che, requie all'anima sua, la sapeva più lunga, vedeva nelle fattezze di quella creaturina un ministro di Dio, un prete. A quest'ultima profezia, rispose Teresa Rateno: Così sia... così sia... e per la commozione le si inumidirono gli occhi. Così sia! risposero in coro tutti gli altri presenti. E così sarà, soggiunse il boscaiolo, poichè è nato di Domenica, giorno sacro a Domineddio benedetto; poi pipando pipando passò in giro un piattello contenente dei bicchierini di rosolio di cannella, una specialità del caffettiere di San Severo. Per tenere il neonato lontano dal malocchio la moglie del ferraro gli volle attaccare, colle proprie mani, al corpetto, un cornetto di osso nero incastrato in argento. Per impedire che venisse stregato, il padre inchiodò sull'architrave della porta un ferro di cavallo; che; il giovedì innanzi, aveva trovato lungo la mulattiera che menava al bosco di Torremaggiore. La vammana (levatrice) dal canto suo, aperta una borsetta, tirò fuori una collana di vetro, che, secondo la posseditrice aveva la prerogativa di fare aumentare la secrezione lattea, e la sospese al collo di comare Rosa. Al dire dei vecchi di Torremaggiore, Michele Caruso, nei primi anni, si mostrò capriccioso e poco rispettoso con i suoi genitori e quando il suo compare di cresima volle un giorno riprenderlo, la buona Rosa gli disse: "Compar, mio, non abbiamo, per raddrizzarlo, più che fare! Tutto dipende dalla volontà di Dio!... Sa il Signore come dovrà trasformarlo. Noi nulla più possiamo". Con i compagni e con gli animali,, fu brutale, poiché, mentre ai primi per un nonnulla, azzeccava delle ceffate, agli altri, come agli uccellini, che gli portava il padre, con due dita, serrava la strozza. Divenuto precocemente, giovane si diede a fare il boscaiuolo, arte che lasciò ben presto poiché, al dire del nostro protagonista, l'accetta e la sega erano per lui troppo pesanti e a ciò devesi se lo si vedeva girottolare pel paese trasformato ora da facchino, ora da sensale di grano ed ora da aiuto fornaio. E bene far notare, che, anche in dette occupazioni temporanee, mancava, in lui, il sentimento del dovere, che è la base della morale; ed infatti, quando gli riusciva, rubava ai padroni e quando questi se ne avvedevano, allora se ne scagionava a base di svergognate menzogne. Del resto al psicologo naturalista ciò non reca meraviglia; sia perché detto masnadiere era nato da antenati non del tutto onesti, sia perché era cresciuto in rozza famiglia e la mancata educazione aveva fatto in lui comparire l'atavismo; cioè le vere tendenze malvagie degli uomini primitivi …………. Il lettore, man mano che s'internerà nella vita di Michele Caruso, si persuaderà sempre di più che detto masnadiere fu uno dei più feroci che abbia registrato la storia. In quella belva imperava, come nelle orde dei mammiferi, la brutalità, solo la brutalità. In lui non si riscontrerà nessun atto eroico, nessun atto di pietà, che del resto si riscontrano negli animali inferiori. Era egli, che pel solo desiderio di vedere soffrire e morire fucilava e bruciava gli animali. Era egli che, a differenza di tanti altri capimasnada, eseguiva le più importanti condanne capitali; ed era egli stesso, che, per far risultare la propria personalità, sgozzava i viandanti, decapitava i proprietarii, e, per provare la polvere, sparava tutti i contadini, che avevano la sventura d'imbattersi in lui. Qui cade acconcio far notare che non bisogna confondere Michele Caruso con l'altro brigante Giuseppe Caruso, che era l'anima della banda di Crocco e che, al dire di Del Zio, era stato uno dei più sanguinarii e feroci briganti che componevano la suddetta masnada e che in più circostanze ne prese addirittura il comando. Anche in Giuseppe Caruso non ci era se non sete di sangue, e giammai vi fu un sentimento di pietà, nè risparmiava alcun mezzo, anche il più crudele ed inumano, purché otteneva il suo intento. Interrogato un giorno perché uccidesse tanti contadini, che non gli avevano fatto alcun male, con cinismo ributtante, rispose: "Perché ero certo che la truppa, trovando un morto, si fermava, ed io intanto avvantaggiava su d'essa mezzora di cammino" Le seguenti pagine, che fanno parte della relazione del Massari, presentata alla Camera dei deputati, in nome della Commissione d'inchiesta sul brigantaggio meridionale, spiegano, di detta piaga sociale, le vere cause ………. Quando nel 1860 in Torrernaggiore fu inalberato il vessillo tricolore, Michele Caruso, che contava 23 anni, già godeva fama di ladro emerito. Nessuno dei danneggiati negl'interessi aveva avuto il coraggio di denunziarlo alla Giustizia, essendo a tutti noto che il figlio di mamma Teresa era capace di accoppare il delatore. La bilancia traboccò in suo danno quando una piccola frazione di sconsigliati capitanata da lui tentò, nel proprio paese, un'azione di rivolta contro quelle famiglie, che, con i loro averi e con i loro consigli, avevano contribuito a liberarci dal giogo borbonico. Quelle incomposte dimostrazioni essendo, a principio, a base di fischi, di proteste, di abbasso e di evviva non impensierirono le autorità, poiché il paese aveva trovato in sé stesso, nel suo buon senso e, nella sua civile educazione il reagente contro quelle pulcinellate. L'intervento della giustizia fu necessario in seguito quando quei farabutti si strinsero fra loro in modo che, pur non avendo una personale organizzazione, costituivano un gruppo che, con preordinata, intesa pensò a svolgere un'azione collettivamente concorde; ed unico suo programma era quello d'internarsi in ogni questione che si aggirava in ogni pubblica manifestazione, col proposito determinato di scuotere il prestigio delle Istituzioni, la forza delle Leggi, il principio di Autorità e di provocare il disordine cercando con la propaganda e con l'esempio di menare alla rivolta, che avrebbe, per conseguenza, portato al saccheggio. In seguito a ciò fu arrestato Caruso ed i suoi adepti. L'arresto fu motivato: "per associazione in banda armata avente per mira di cangiare e distruggere la forma del Governo accompagnata da altri reati". Il nostro protagonista fu rinchiuso nelle carceri di S. Severo da dove evase, e, per non ricadere nelle mani della Giustizia, si dette alla macchia. Caruso, scelse come campo per le sue gesta, il territorio di Riccia, sia perché ivi si congiungono le province di Campobasso, Foggia e Benevento, sia perché, in quei tempi quelle valli e quei monti essendo rivestiti di folte boscaglie offrivano ai masnadieri sicuro asilo. "Solo chi conosce la macchia", scrive Scipio Sighele nel suo Mondo criminale italiano, "può spiegarsi il fenomeno di questa latitanza il bosco basso, arruffato, inesplorato e inesplorabile tutto forre, buchi e dirupi. Nella desolata solitudine della macchia circondata dai melanconici e deserti latifondi, ove non si ode che il libero galoppo dei bufali e dei cavalli selvaggi, il brigante sa di poter impunemente sfidare la polizia e sorride forse della nostra platonica giustizia, che si accontenta di accumulare sulla testa i mandati di cattura e di promettere taglie a chi saprà consegnarlo ai carabinieri". E dello stesso parere è il Cascella, il quale fra le cause del brigantaggio ricorda le condizioni topografiche di alcune regioni, che offrivano maggiore facilità agli agguati ed ai ricoveri. Caruso dapprima venne seguito dal nepote della madre, un certo Cerrito, un'altra buona lana, che, fin dalla tenera età, percorse, come lo zio, interrottamente la via del vizio con l'abbandonarsi alla dolce voluttà del furto. Cerrito imitando zio Michele, imparò, in poco tempo, la tecnica di seviziare il prossimo; ma un giorno sorpreso dalla guardia nazionale nella masseria detta delle Monacelle, fu ucciso. Il giorno appresso sulla pozza di sangue di Cerrito, il brigante Giacomo Leone piantò una rozza croce di quercia e su questa Giovanni Fraschillo, che godeva fama di letterato, pose un pezzo di carta portante questa epigrafe:

Qui fu ucciso

Cerrito nipote del Colonnello Caruso

Passeggiere togliete il cappello

e preca per quella bella anima

Un altro essere che fu caro a Caruso e che per le sue buone qualità brigantesche riuscì, nella comitiva, ad occupare il grado di sergente, fu Antonio Secolo [Secola] di Baselice. Secolo e Caruso contavano quasi la stessa età, avevano la stessa indole malvagia con egual carattere vivace. Questi due... agnelli si amavano come fratelli; nulla vi era più di segreto tra loro e ciascuno sfogava alla sua volta con 1'altro le sensazioni di dolore o di piacere che provavano durante la giornata. Caruso accettò pure, senza reticenze, la buona compagnia di Giovanbattista Varanelli, un vero mostro umano di Celenza Valfortore. Tittariello, così veniva chiamato il Varanelli, non ebbe, come il suo collega Caruso l'onore di essere fucilato dalla truppa, dopo sommario processo all'aperto; poiché in un giorno del 1863 venuto a contatto con le guardie Nazionali di Riccia e di S. Marco la Catola fu, con una schioppettata; mandato all'altro mondo da un ragazzo di S. Marco, che spontaneamente e con insistenza aveva voluto seguire la banda. Il 18 agosto 4861, la cessata Gran Corte Criminale emise nuovo mandato di cattura contro Michele Caruso. Non creda il lettore che le suddette contrade sieno state durante gli anni 186O-l863 sotto il solo dominino di Caruso-Tittaneilo, niente affatto; poiché Petrozzi, Tamburino, Vito di Gioia, Cimino, Cosimo Giordano, d'Agostino, Nunzio di Paolo, Tomaselli, Cascione, Martino, Fasano, Camillo Andreotti detto il Moretto, Fusco, Florenzano, Pace, Carmine Romano, Giovanni d'Elia, Giuseppe Giurassi, Luciano Martino e Salvatore Romano alias Sciamarra erano tutti comandanti di piccole bande, che, all'occorrenza, facevano da ausilio alla compagnia del Colonnello Caruso; specie quando nella comitiva di questi si avveravano defezioni o massacri. Qui aggiungo che in circostanze speciali notavasi uno scambio di briganti tra Caruso, Crocco e Schiavone e, qualche volta, come vedremo, questi re dei boschi e dei monti combattevano l'uno accanto all'altro. I misfatti commessi dalla banda Caruso nessuno li ha potuto e li potrà esattamente numerare; poiché detto masnadiere comandando una numerosa comitiva a cavallo passava da una provincia all'altra con la massima facilità e tanti di quei delitti, che venivano addebitati ad altri capi, erano, in realtà, commessi da Caruso. Le ricerche che pubblico, in arte mi sono state comunicate da amici di Riccia, di Baselice, di Morcone, di Torremaggiore e di S. Croce del Sannio; altre le ho desunte dal processo, e le più importanti le ho raccolte da alcuni avanzi di galera, che, un tempo, fecero parte della banda Caruso e che ebbero salva la vita, perciò si presentarono inermi al generale Pallavicini. Dopo l'evasione, Michele Caruso lasciò parlare poco di sé, perché ebbe bisogno di farsi, nelle suddette province, delle amicizie in modo che al principio del 1862 già aveva intorno a sè una complicata organizzazione di servizii di sicurezza da garantirgli la sua incolumità. Durante questo periodo di preparazione ebbe ripetuti abboccamenti con alcuni sfruttatori di casa Borbone, i quali gli proposero, per farsi dei proseliti, un programma, che il Caruso accettò senza alcuna modifica. Anche prima dei convegni , per essere ammesso nella banda Caruso, non era cosa facile, a causa che detto brigante desiderava dall'aspirante garanzia di coraggio. In caso di dubbio, veniva sottoposto al saggio, che consisteva nel ricattare o nel mandare al l'altro mondo qualche liberale. L'uccisore non portava, pel delitto commesso, rimorso alcuno; poiché, prima di compierlo, doveva dire "Giuro che N.N. sarà da me ucciso; perché nemico della S. Chiesa e del Nostro Augusto Sovrano Francesco II Viva Dio, Viva Maria Santissima, Viva il Papa Pio IX ". Caruso, dopo il proclama, riuscì a gracimolare ottantadue masnadieri, che li suddivise in otto compagnie essendo convinto del principio: "Divide et impera". I componenti delle comitive erano, per lo più, contadini ignoranti, facili ad essere suggestionati e pronti a commettere qualsiasi delitto. Essendo il Caruso preveggente installò nel bosco di S. Croce ed in due grotte del Matese dei posti di soccorso. Infatti in dette località furono trovati fucili, salami, vino e legumi. In alcuni sacchi erano rinchiusi fiori di malva, reputati utili per quelli che erano affetti da bronchite; sale inglese, per i costipati di ventre e cerato di Galeno, fascie e sfilacci per i feriti. In una bottiglia a larga gola vi era dell'acqua santa con la quale si benedicevano i moribondi e si mettevano in fuga gli spiriti maligni. I delitti commessi da Caruso li pubblico sotto torma di diario e se in questo il lettore vi nota delle lacune, esse debbono, in parte, addebitarsi alle visite, che, detto brigante, solea passare ai comitati reazionarii , specie quando trovavasi, come suoi dirsi, nei verbi difettivi !

1 Luglio 1861

Alcuni componenti della banda Caruso, Chiavone e Turri-Turri, nelle ore a. m. del primo luglio 1861, si recarono a Castelvecchio di Puglia è ivi imposero a Giuseppe Antonio D'Alessio, di mandare ai loro capi, che si trovavano nella vicina selva, ducati duemila; a Pasquale d'Elisi domandarono ducati seimila, a Gennaro Cono seicento, a Francesco d'Ondes cinquecento e a Giuseppe Ferrecchio duemila. I mandatarii aggiunsero che se le somme imposte non fossero state subito consegnate, avrebbero bruciato te loro messi. La stessa minaccia fecero a quel sindaco, al quale chiesero ducati tremila.

3 luglio 1861

Alcuni briganti domandarono a Tommaso Pensano dei viveri e del denaro. Alla negativa gli uccisero tre cavalli. Bruciarono poi in contrada Ripalta, che trovasi nel circondano di San Severo, grano, avena, fieno e paglia, tutta roba spettante a Stefano Cataldo, perché costui si era rifiutato di mandare ad essi briganti ducati quattromila.

5 luglio 1861

In quel di San Severo, quattro briganti si impadronirono di don Ferdinando Parisi, al quale imposero, pel riscatto, ducati sessanta. La famiglia del ricattato ne mandò al capo trenta. Uno dei briganti ricattatori sentendosi, per la somma ricevuta, non poco offeso, propose al Caruso, per avere i restanti ducati trenta, d'inviare alla famiglia Parisi un orecchio di don Ferdinando. In questi tempi, soggiunse Caruso: "Ogni acqua leva la sete" e dispose che il ricattato fosse lasciato libero. Lo stesso giorno e nello stesso comune, alcuni soldati sbandati, dietro il consiglio di Caruso, rubarono cavalli ed armi a don Paolo del Sordo. A don Luigi Trotta domandarono trecento ducati. Il povero Trotta, per aver salva la vita, fece tenere ai briganti quarantotto ducati ed un bellissimo fucile.

7 luglio 1861

La mattina del 7 luglio, in Torremaggiore, alcuni briganti rubarono a Felice Pampo, e a Pietro Inglese, muli e cavalti, poscia sequestrarono Alfonso Ferrante, al quale promisero salva la vita, purché avesse dai suoi fatto inviare al loro capo ducati tremila.

9 luglio 1861

La comitiva Caruso e quella di Angelo Maria del Sambro si mettono d'accordo per spillare alla famiglia La Medica di Torremaggiore forti somme. Infatti i briganti imposero una taglia di ducati cinquemila a don Vincenzo La Medica ed un'altra di quattromila a don Tommaso, che trovavasi a Lucera.

19 luglio 1861

Giuseppe Manciello, Salvatore Codipietro ed altri briganti bruciarono, nel comune di San Severo, i carri e gli attrezzi agricoli appartenenti a don Francesco De Pasquale, e tutto ciò fu fatto per ordine di Caruso, che aveva domandato e non ottenuto dal De Pasquale duemila ducati.

24 luglio 1861

I briganti impongono a Pasquale Fusi di Torremaggiore, di versare al loro capo Caruso la somma di ducati milleseicento. La somma richiesta non fu mandata ed i briganti uccisero tutti gli armenti del Fusi.

25 maggio 1862

La mattina del 25 maggio i componenti le bande brigantesche di S. Croce di Magliano, di S. Paolo di Civitale e di Torremaggiore, previo appuntamento, s'incontrarono presso S. Elia, dove, ad unanimità, elessero a loro capo supremo Michele Caruso. Il nemico delle nuove istituzioni, dopo aver ringraziato i suoi elettori per la fiducia che avevano voluto riporre in lui, ordinò a tutti di montare a cavallo e di seguirlo nel vicino bosco, dove aveva già fatto preparare un sontuoso banchetto. Faceva gli onori del bosco Concetta Fasulo, una virago di S. Lorenzo, la quale, per la sua sfrontatezza e per le sue maniere libere, aveva lasciato parlar di sè fin dalla fanciullezza. La Fasulo s'era ingaggiata nella banda Caruso in qualità di spia e di consolatrice degli afflitti.

29 maggio 1862

Il capitano Dernoliff con l'undicesima compagnia del 36° Regg. Fanteria, brigata Pistoia, stanziata a Campobasso, in unione di quindici guardie nazionali di S Bartolomeo in Galdo, comandate dal sottotenente Moiraghi e con sei carabinieri, diretti dal sottotenente Ricci, in una masseria di Foiano Valfortore, sorprese quattordici briganti della comitiva Caruso, ma il latrare dei cani pose sull'avviso i masnadieri, che si dettero a precipitosa fuga lasciando i loro cavalli. Fu ucciso un brigante e due altri, che erano feriti, prima d'internarsi nel bosco Vetruscelli, furono finiti a colpi di scure dai fratelli Giannini.

2 giugno 1862

Caruso divide i suoi dipendenti in cinque gruppi: a tre di essi dà l'incarico di rubare ai viandanti i muli e i cavalli. Agli altri di procurarsi, con la forza, i viveri.

5 giugno 1862

Caruso rifornitosi di cavalli, attraversa con i suoi la piana di Sepino, tirando, in aria, colpi di fucile. La guardia nazionale di quel paese, chiamata a raccolta, si dette ad inseguire il masnadiere, il quale, in luogo di affrontare quel pugno di prodi, vigliaccamente andò a rifugiarsi nel vicino bosco.

14 giugno 1862

La sera del 14 giugno un plotone dell'8° Fanteria, comandato dal sottotenente Minghetti, incontrò presso Carpino una comitiva di cinquanta briganti comandata da Caruso e da Angelo Maria del Sambro, capo della banda del Gargano e terrore del circondano di S. Severo. I briganti, dopo uno scontro durato quindici minuti, lasciarono sul terrena uno dei loro.

15 giugno 1862

La mattina del 15, nello stesso territorio, si vide Caruso seder tranquillamente sopra un poggio dal quale scorse che il comandante dell'undecima compagnia dell'8° Fanteria voleva, per una mulattiera, attaccarlo alle spalle. Caruso ordinò ai suoi di tirare contro i soldati, ed infatti ne fu ferito uno gravemente.

16 giugno 1862

La mattina del 16 giugno quattro briganti, approfittando dell'assenza del loro capo, andarono a costituirsi al comandante dell'8° Fanteria.

24 giugno 1862

Cominciano fra Michele Caruso e Angelo Maria del Sambro degli screzii. I masnadieri dei due capibanda cercano, con tutti i modi, di rappattumarli.

27 giugno 1862

La mattina del 27 giugno il colonnello Testa, presso S. Severo, attaccò il del Sambro. Nella mischia fece prigionieri quattro briganti, che furono fucilati il giorno appresso. Uno di questi era don Nicola Peri.. . da Foggia, domiciliato in Apricena, già medico del 3° Dragoni borbonico e decorato della medaglia di Velletri. In tale circostanza fu presa viva la druda di Angelo Maria del Sambro, una bella e muscolosa donna, la quale, in luogo del rosario e del crocifisso, portava in tasca un rasoio ed un pugnale Alla cintola, come ornamento, aveva due pistole con manico di argento cesellato.

28 giugno 1862

Il comandante del 49° di linea, venuto a conoscenza che il del Sambro, con alcuni dei suoi si trovava in un casolare, sito in contrada Tampicci, vi dette l'assalto, e, quando si avvide che i masnadieri non volevano arrendersi, vi fece appiccare il fuoco. I briganti, col loro capo e quattro donne, implorando pietà, deposero le armi e si arresero. Erano tutti di S. Marco la Catola. Caruso venuto a conoscenza della cosa, mandò un parlamentare dal comandante del 49°, per indurlo a misurarsi con lui.

4 luglio 1862

Un distaccamento dell'8° di linea e nove guardie nazionali di S. Marco la Catola, dopo aver, per più ore, inseguita la banda di Giovambattista Varanelli, la raggiunsero presso il bosco di Pietra dove trovavasi Caruso. Si venne a battaglia, e, dopo uno sciupio di polvere e palle, a conto fatto, i soldati ebbero un morto ed un ferito ed i briganti perdettero tre dei loro, oltre sei cavalli, cinque fucili, tre pistole e una buona somma di denaro.

28 luglio 1862

Nelle prime ore del mattino del 28 luglio 1862, Caruso, con trentanove dei suoi, entrò in Ginestra, e, sotto il pretesto di sollevare quella popolazione contro l'attuale Governo, danneggiò nella proprietà centoquindici individui.

4 settembre 1862

Il capitano Cartacci, comandante la 4° compagnia del 19° battaglione bersaglieri, venuto a conoscenza che Caruso aveva voluto recarsi nel leccese e che con una parte dei suoi trovavasi nella masseria Capriati, sita in quel di Corsano, vi andò a dare 1'assalto. Caruso, che trovavasi fuori la porta a fumare la pipa, riuscì a fuggire; gli altri, in numero di quindici, furono dai bersaglieri massacrati.

19 settembre 1862

Il comandante la stazione dei carabinieri di S. Croce di Morcone, avendo saputo che la comitiva di Caruso, forte di sessantaquattro individui, si trovava nella masseria Pescadonna di proprietà di Giovanni Marino, in tenimento di Cercemaggiore, con venti uomini del 45°di linea, si recò in detta località. Caruso, avuto da una delle sue sentinelle il segnale del pericolo, montò il suo favorito e si dette alla fuga. Dei suoi dipendenti ne furono uccisi sei. Dopo tale sconfitta acquistò detto masnadiere un aspetto più terribile e più minaccioso. Il resto della giornata lo passò aggirandosi pel più fitto del bosco di Cerce. A notte fatta passò a rassegna i suoi, e, quando si avvide che fra i caduti vi era caporal Antonio, si dette ad imprecare contro il destino

20 settembre 1862

Michele Caruso manda a chiamare Carlo Fusco per conoscere da costui il movimento della truppa. Il Fusco, mentre si recava sulla montagna di Pietracatella, per conferire con Caruso, venne arrestato e fucilato. Caruso, che stava tranquillamente seduto sopra un macigno, dal quale si osservava il via-vai dei soldati e delle guardie nazionali, assistette all'esecuzione del Fusco.

5 novembre 1862

La mattina del 5 novembre partiva il capitano Rota, comandante la 13 compagnia del 36° reggimento fanteria da S. Croce di Magliano, con 37 dei suoi, col luogotenente Perino, con due carabinieri e con cinquanta militi nazionali di detto comune, alla volta di Melanico e Montecalvo, poste a due miglia e mezzo da S. Croce, dove aveva avuto sentore trovarsi una forte comitiva di briganti. Giunto il distaccamento a poca distanza dei detti luoghi, trovò dei pastori, che annunciarono essere folle impresa lo avventurarsi contro i briganti, di gran lunga superiori in numero. Quei militi, colti dalla paura, se ne ritornarono nelle loro case e lasciarono il Rota solo coi suoi soldati e coi due carabinieri. Quei pochi e bravi militi, spiacenti bensì dell'abbandono della guardia nazionale, ma non per questo meno tenaci nel loro dovere, seguivano intrepidi il passo del capitano Rota e, pervenuti al colle del Rottavone, presso Montecalvo, sito al nord e a due miglia da S. Croce di Magliano si davano con tutto l'animo all'inseguimento di alcuni briganti, che erano comparsi sul detto colle; ma ad un tratto vennero circondati da numerosi drappelli di briganti sboccati dall'alto del colle e furono costretti a difendere sè medesimi: lo fecero con raro valore, sempre più costretti dalle manovre conversive, rapidamente eseguite dai nemici, in numero di 200 e per di più diretti dai famigerati capi Caruso, Nunzio, Cerrefacchio, Cascione e Fioriti, ed essendo, per le moschettate dei medesimi, di già d'assai assottigliate le loro file, erano in brevissimo tempo interamente accerchiati e 23 barbaramente uccisi. Il maggiore comandante quel circondano, avuto la notizia dell'eccidio si recò sopra luogo, con quanta forza più potè raccogliere e ciò fece per dare degna sepoltura agli uccisi. Dei rimanenti soldati undici furono fatti prigionieri e sette si salvarono fingendosi morti.

7 novembre 1862

Varie comitive riunite e formanti il complesso di 300 briganti, assalirono S. Severo e poscia S. Paolo; malgrado l'esorbitante numero vennero respinti da una compagnia del 55° fanteria coadiuvata dalla guardia nazionale. Dopo lungo combattimento, che cagionò la morte a 4 soldati, i briganti fecero finta di ritirarsi poiché si trasferirono tra Ripa e Poggio Imperiale per accerchiare un drappello di 40 uomini della 14° del 55° fanteria; ma il bravo capitano Rossi, che li comandava, pose in fuga i briganti e lo stesso fece il tenente Montmasson a Poggio Imperiale. Caruso, vista la mala parata, ordinò ai suoi di andarsi ad accampare nella vicina selva.

13 novembre 1862

I reali carabinieri di Biccari con novanta guardie nazionali dello stesso paese, eseguendo una perlustrazione, seppero che nella masseria Quirico-Tulino vi era una banda di cinquanta briganti; ma per l'esagerata notizia data intorno al numero di essi da due donne e da un certo Violante, che assicuravano essere i briganti al numero di duecento, nacque nella colonna una certa titubanza, la quale piegò in disordine. I briganti, avendo notato che parecchi componenti quella guardia nazionale erano vinti dalla paura, incominciarono a tirare contro i più baldanzosi. Rimasero uccisi i due militi Matteo Gallo e Giuseppe Baves. I militi nazionali di Roseto ed Alberona, come seppero che i briganti avevan uccisi i due succennati individui, a tutta corsa, si recarono a Biccari, e, giunti nella località occupata dai masnadieri, ripresero l'offensiva. I briganti furono posti in fuga portando con loro molti feriti.

11 dicembre 1862

Achille Del Giudice, proprietario di S. Gregorio, avendo saputo che la comitiva Caruso, composta di 20 briganti a cavallo, aveva lasciato la Puglia per andare a sequestrare un ricco signore di Piedimonte, ordinò ai suoi guardiani di non perdere di vista quei briganti. Questi, nulla sapendo, lasciarono dieci cavalli in una vallata, che furono sequestrati dai guardiani di Del Giudice.

22 dicembre 1862

Sette briganti a cavallo sequestrarono in una masseria presso S. Croce di Magliano un tal Michele Giannotti , che condussero nel bosco di Grotta. I carabinieri e le guardie nazionali di quel paese venuti a conoscenza della cosa, si dettero ad inseguire i briganti. Questi, vistisi a mal partito, si dettero a precipitosa fuga, lasciando libero il Giannotti.

9 febbraio 1863

La mattina del 9 febbraio 1863, Caruso, trovandosi nel territorio di Campomarino , seppe da una spia che Paolo Chiusi possedeva due magnifici cavalli. Il nostro masnadiere, per averli, mandò Domenico Grammatica dal possessore. Il Grammatica, come manesco, portava il primato nella comitiva. Il Chiusi alla richiesta oppose un bel rifiuto; ma, dopo aver avuto dal Grammatica una lunga serie di legnate, cedette le bestie.

12 febbraio 1863

Il giorno 12 dello stesso mese in Molinara, tre briganti ricattarono Rocco Longo. Il sequestrato, arrivato nel bosco di S. Croce di Morcone , fu presentato al colonnello Caruso , il quale gli dettò il seguente biglietto: "Caro padre, Se brami rivedermi é necessario mandarmi subito 2 mila ducati se no ci rivedremo all'altro inondo; così ti fa dire il colonnello Caruso. Tuo figlio Rocco" - Le autorità di pubblica sicurezza, venute a conoscenza della cosa, impedirono alla famiglia Longo di mandare ai briganti, la somma domandata. Dopo due giorni , Caruso non vedendosi arrivare il denaro disse al ricattato: "Io, come feci scrivere ai tuoi, ti dovrei uccidere; però, per dimostrare ai posteri la mia pietà verso gli infelici, ti lascio libero tenendomi, come ricordo, i padiglioni delle tue orecchie". E ciò detto; gli fece da Antonio Punzi staccare le cose desiderate.

27 febbraio 1863

Verso la mezzanotte del 27 febbraio, innanzi alla masseria di don Luca Colatruglio, che trovasi in quel di S. Bartolomeo in Galdo, si fermarono dei briganti a cavallo - Caruso , che comandava la comitiva, calato l'arcione, picchiò ripetutamente alla porta. Il guardiano Francesco Fiorillo, svegliatosi di soprassalto, incominciò con parolacce ad inveire contro il disturbatore. Apri, se no dò fuoco alla masseria e ti arrosto come un pulcino, disse Caruso. Il Fiorillo, che dalla voce aveva conosciuto il masnadiere, corse ad aprire e fece le scuse. Per S. Michele benedetto, per farti muovere ci voleva tanto e non vedi che con questo freddo si può prendere la bronchite ? Del resto porta questo biglietto al tuo padrone, e noi , per non perdere del tempo, ci mangeremo quei due montoni che stanno nella stalla. Scuoiarono i due ruminanti i fratelli Santuccio e Angelo Polizzi. Cosimo Sciortino li trasformò in arrosto. Il biglietto inviato al Colatruglio diceva: "Caro D. Luco - Mandati subito di pane vino salecicio per 300 persone 20 tomole di Biada e un piatto di poparoli alla cete e 10 paccotti di sigheri e 10 bottiglie di Rosolio e 10 foglietti di carta Colorata altrimenti vi brugia tutto. Il colonnello Michele Caruso".

28 febbraio 1863

Sempre la stessa comitiva, mentre, il 28 febbraio, stava a bivaccare nelle vicinanze di Castelvetere, si trovò a passare di là Nicola Iambascio, che, per combinazione, aveva, come copricapo, un berretto di guardia nazionale. Caruso indusse il passante a gettare il berretto ed inginocchiarsi. Il tutto fu dal Iambascio eseguito scrupolosamente. Il Caruso ordinò poscia ai suoi di scaricare i fucili addosso al Iambascio. Il cadavere, come lessi nell'autopsia, per i tanti forami, si rassomigliava a un crivello.

2 marzo 1863

Nelle ore antimeridiane del 2 marzo, Caruso incontrò presso Cercemaggiore il suo collega Schiavone e tutti e due formarono una comitiva di novanta individui. Nello scorrazzare pei comuni di Ieisi e San Giovanni in Galdo, rubarono in una masseria due cavalli. Il massaro Pimmo Francesco, nel vedere i briganti, per la paura, andò a rifugiarsi sotto alcune fascine. I briganti lo scovarono e, per punire la di lui codardia, lo uccisero a colpi di fucile.

6 marzo 1863

Nelle prime ore del 6 marzo venti briganti cercarono catturare il parroco di Paupisi, mentre, in una piccola chiesa, sita nel centro del comune, attendeva alle funzioni religiose. La popolazione, avuto sentore della cosa, si armò e si diede ad inseguirli. In quell'occasione le signorine De Marco si videro dalle finestre, tirar colpi di fucile contro i briganti, dei quali uno cadde per opera di un certo Orazio. Caruso, che trovavasi all'entrata del paese, cercò di chiamare a raccolta i suoi, che si erano sparpagliati per le vicine campagne - ma non vi riuscì; perciò sopraggiunta la guardia nazionale, i briganti, per salvarsi, si dettero a correre precipitosamente per alcune vie mulattiere.

12 marzo 1863

Lungo la via che conduce a Montuoro fu incontrato dalla banda Caruso, Luigi Bianco di Ururi. Caruso, nel vederlo gli disse: Dove vai? e l'altro di rimando; Mi reco in campagna. E' meglio che resti qui, caso contrario questo tempaccio ti apporterebbe danno alla salute, e, senza dir altro, lo rese cadavere con un colpo di pistola. Eppure nessun animale uccide pel gusto di uccidere, come faceva Michele Caruso.

14 marzo 1863

Nel dì 14 marzo, Caruso con cento dei suoi si vide attraversare la Piana di Morcone; poi andò in casa di Mariantonia Bilotta che era situata in contrada Fontana della Vetica, ed ivi, a base di minacce, si fece consegnare cereali, salami ed altro ben di Dio per sfamare cavalli e cavalieri. Ciò avvenne poco dopo il mezzogiorno. A circa un'ora di notte, lo stesso capobrigante, accompagnato da nove dei suoi più temuti subalterni si recò alla taverna di Alfonso Falasca, in contrada Gorgoglieto, e quivi, rubò, in danno del Falasca, nonché di Beniamino Argenti e di Michele Maccherona, addetti al servizio della posta, e di Vincenzo Schioppa, carrettiere, diverse vettovaglie ed otto cavalli. In fine si prese, in ostaggio, Pasquale Florio De Maria di S. Croce di Morcone, che, reduce da Napoli, e, prevedendo l'incontro dei briganti, aveva cercato di far sosta, fino a giorno fatto, in quella taverna. Il De Maria, fatto montare a cavallo e circondato dai briganti, fu accompagnato in una vicina campagna, dove gli fu imposto di scrivere al padre, domandandogli il prezzo del suo riscatto, ma, per l'incertezza della luce, fu fatto ritornare nella taverna del Falasca, dove Caruso gli dettò la seguente lettera: "Mio caro padre - Vi prego di inviarmi ventimila ducati, perché sto tra gente che li vogliono, e presentatevi da Don Nicola Sentinella, altrimenti pensate voi mandate denari di oro se li trovate. Per tutto domani ad ora 15 e non fate venire la forza. Vostro figlio Pasquale Florio De Maria . Il capo Michele Caruso". Il ricattato, dopo tre ore di palpiti, visto che i briganti dormivano, fuggì.

21 marzo 1863

I due briganti, Francesco Biacco e Giuseppe Pitta, furono scelti da Caruso per sequestrare un massaro di Palata. I due masnadieri, nel recarsi al luogo indicato, furono arrestati. Il Biacco fu fucilato e il Pitta, perché arrolato da poco nella banda Caruso, fu mandato in galera.

23 marzo 1863

Caruso, dopo aver bevuto più del solito pensò recarsi in Torremaggiore, dove i suoi concittadini gli fecero brutta accoglienza; poiché gli uccisero Enrico Pisani ed arrestarono l'altro brigante Michele Caposio, che, il giorno dopo, fu fucilato nella piazza di quella città.

24 marzo 1863

Caruso, per la disfatta subita il giorno innanzi, pensò la mattina del 24, di dare, al suo paese nativo, un vero assalto, e, per la bisogna, chiese aiuto ad altri capibriganti; però un distaccamento del 14° fanteria gli uccideva Giovanni Lotti e Michele Mastrolillo, due buone lane di Torremaggiore.

25 marzo 1863

Nelle prime ore del 25 i componenti la perfida orda del Caruso ricomparvero nel territorio di Morcone ed ivi si dettero a scorrazzare per le contrade Corte e Gorgoglieto spinosa. Per passatempo consumarono grassazioni in danno di Alfonso Falasca, Antonio Fusco, Luigi Parlapiano, Pasquale De Carlo, Alfonso Pasquale, Domenico Giustiniani ed Antonio Amoroso. Amministrarono, poi, generose legnate a Donato Ciampa, perchè ritenuto linguacciuto.

29 marzo 1863

Il 29 marzo alcune spie andarono a riferire al sindaco di S. Croce di Magliano che Caruso si trovava, con trenta dei suoi a bivaccare in una masseria. La Guardia Nazionale si recò sopra luogo ed arrestò Antonio Porrazzo ed Antonio Auriemma, che furono subito passati per le armi.

10 aprile 1863

Sei briganti a cavallo, fra i quali vi erano Caruso, Cascione e Carbone, incendiarono a sei miglia da Larino, la masseria dei fratelli Cocco.

20 aprile 1863

Il 20 aprile la banda Caruso, forte di ottanta uomini, sequestrò presso Colletorto (Molise) tre individui, che poscia furono, mediante denaro, rilasciati. Sequestrò pure Michelangelo Lanziti, che, dopo poco, fu ucciso, e, per disperderne le tracce ne bruciarono il cadavere. Tutto ciò successe in presenza dei tre ricattati e della figlia del Lanziti, a nome Pasqualina, e perché quella povera ragazza si disperava nel vedere il padre così trattato, Caruso le disse: "Piccina mia, non piangere e trascinatala dietro una siepe la stuprò".

24 aprile 1863

Un plotone del 45° fanteria, venuto a conoscenza che Caruso era ricomparso nel mandamento di Morcone, si diede ad inseguirlo. Nella precipitosa fuga, Caruso lasciò nelle mani della truppa, tre cavalli ed alcune armi.

26 aprile 1863

Alle ore 10 del 26 aprile, 300 uomini di truppa e guardie nazionali circondarono la banda Caruso, che trovavasi nella masseria Moffa (Riccia). I briganti lasciarono due morti; cioè Nicola Napoletano e Domenico Bruzzese. Nella saccoccia interna del pastrano del Napoletano fu trovato un involto contenente molte immagini sacre. Al collo di Domenico Bruzzese stava sospeso un abitino, il quale mostrava da una parte il ritratto di PIO IX e dall'altra un ricamo col motto fac et spera e una manina ricamata in argento, che brandiva un pugnale, con sotto la scritta: Viva Francesco II.

27 aprile 1863

Un distaccamento di fanteria sorprese, presso Cercemaggiore, la banda Caruso. Dopo uno scambio di fucilate rimasero sul terreno due briganti.

28 a 30 aprile 1863

Verso le ore 24 del 28 aprile, così diceva alle autorità di pubblica sicurezza, Antonio Mancini: "Mentre ritornavo dal travaglio, e mi conducevo, per cenare in casa di mio padre, fui, in contrada Cuffiano, preso da quattro individui armati di schioppi e pistole e forzatamente m'imposero di montare a cavallo. Aggiunsero che, se mi fosse cara la vita di non gridare. Cavalcando, cavalcando giungemmo in contrada Seilvapiana, dove erano altri 24 individui del pari bene armati ed ognuno fornito di cavallo. Fatta una sola compagnia prendemmo la via del bosco Botticella, che trovasi nel tenimento di Fragneto, ed ivi si pensò far sosta, essendo la notte già inoltrata. La mattina del 29 da un tale, che si faceva chiamare Colonnello Michele, fu dato ordine di metterci in marcia, e, verso sera, giungemmo nelle Puglie, dove si unirono a noi altri cento e più individui tutti a cavallo. Nel mattino del 30, mentre stavamo presso una masseria, le nostre sentinelle gridarono: Alle armi! alle anni! e fu allora che tutti quei Briganti montarono a cavallo e si dettero a precipitosa fuga senza curarsi più di me".

8 a 10 maggio 1863

Dietro amichevole convegno fra Schiavone, Coppa, Sacchetiello, Andreotta e Pio, fu deciso di formare una sola compagnia a scopo di distruggere la guardia nazionale di Morcone che si era prefissa di annientare i briganti. Infatti quei bravi militi coadiuvati da parecchi soldati vennero in contatto con i briganti, la mattina del 9, fra S. Croce e Morcone, e, dopo una mezz'ora di combattimento, si trovarono dall'una e dall'altra parte morti e feriti.

1 giugno 1863

Nicolangelo De Falco e Pellegrino Gozzi di S. Bartolomeo in Galdo, alle ore 2 p. m. del 1 giugno, trovandosi presso S. Marco dei Cavoti, furono assaliti dai briganti, fra i quali vi era una donna. I masnadieri, dopo un ordine tassativo di Caruso, scesero da cavallo, e, dopo aver scaricato i muli del De Falco e del Gozzi si appropriarono di un involto contenente del tabacco e di uno scatolo, che racchiudeva oggetti di oro. Il De Falco volle far notare al capo di quei masnadieri che l'oro era dell'orefice Vincenzo Capuano e avesse perciò la bontà di restituirglielo. Il Pellegrino, in compenso, ebbe dal Caruso trenta legnate.

11 giugno 1863

La Commissione per la repressione del brigantaggio

pubblicava questo avviso:

Riconosciuto che pochi altri ladroni, i quali non salgono tutti ad una cinquantina diretti da Schiavone, Caruso, Villano e Palumbo, oserebbero un'altra volta attentare alle sostanze, alla vita e all'onore dei pacifici cittadini, all'unanimità delibera:

1. Un premio straordinario e fortissimo Verrà, immediatamente pagato a chiunque prenderà o farà prendere alcuno dei sovraindicati briganti.

2. Un premio straordinario, proporzionato alla importanza del caso sarà egualmente dato a chiunque farà prendere alcuno dei loro fautori, manutengoli; o complici di ogni maniera.

3. Quando colui che rendesse al Paese un tale servizio fosse pure un bandito presentandosi alle autorità, oltre il premio, otterrà di essere raccomandato alla grazia Sovrana.

Foggia 11 giugno 1863

Visto Il Presidente

Il Prefetto Domenico Varo

De Ferraro Il Segretario

Luigi Ricca

30 giugno 1863

Presso Colle, i briganti, divisi in diversi gruppi, cercarono sorprendere la truppa che si recava in perlustrazione lungo la rotabile Sannitica; ma il comandante di quella zona militare venuto a conoscenza della cosa, attaccò il Caruso, il quale, per salvarsi, lasciò in mano dei soldati alcuni cavalli e non pochi briganti feriti, che, nello stesso giorno, furono finiti a colpi di fucile.

1 luglio 1863

I fratelli Pietro e Fortunato Palumbo di Foglianisi furono, nella loro campagna, visitati dalla banda Caruso. I Palumbo, dopo aver scambiato col capo di quella comitiva, poche parole, furono invitati a montare a cavallo. A notte fatta arrivarono sul Matese, dove, per ordine del famigerato Colonnello, scrissero una lettera al padre loro per avere, con urgenza, il prezzo del loro riscatto. Furono liberati dopo aver sborsate lire. 2500. Marialuisa Ruscitti faceva parte della compagnia.

2 luglio 1863

La mattina del 2 luglio la banda Caruso fu vista aggirarsi pel distretto di S. Angelo dei Lombardi. Presso Bisaccia s'imbatte in quindici donne, delle quali cinque erano vergini. I componenti di quella masnada, che erano al numero di quaranta, abusarono di tutte quelle donne. Due di queste, le più piccole, per i ripetuti maltrattamenti, morirono dopo alquanti giorni.

4 luglio 1863

Alle 8 del mattino la guardia nazionale di S. Marco trovandosi in perlustrazione incontrò, ed uccise due briganti della comitiva Caruso.

18 agosto 1863

Alle 11 di sera del 18 agosto 1863, un drappello di forza pubblica, costituito di carabinieri, bersaglieri e guardie nazionali, sorprese nel territorio di Troja la banda del colonnello Caruso forte di 38 cavalieri. Un grosso mastino, appartenente ai briganti, pose, abbaiando, sull'avviso i suoi padroni, che correvano pericolo. I briganti, mentre si decidevano per qual via internarsi, s'ebbero dal suddetto drappello una serie di schioppettate. Oltre sette morti, i masnadieri lasciarono nelle mani dei carabinieri, la favorita di Caruso a nome Marialuisa Ruscitti del fu Giuseppe. La Ruscitti, che nel 1863 contava diciannove anni; poiché era nata in Cercemaggiore il 5 maggio 1844, trovandosi in qualità di domestica in casa del signor Leopoldo Chiaffarelli, fu da costui mandata in campagna per raccogliere le legna; ciò avvenne nel giugno del detto anno. Caruso, nel vederla la catturò e la portò seco dopo averla legata sopra un cavallo. La Ruscitti fu condannata dalla Corte di Assisie di Trani a 25 anni di lavori forzati e alla sorveglianza perpetrua, per avere ucciso, con un colpo di pistola e dietro ordine di Caruso, un comandante della pubblica forza. Dopo scontata la pena ritornò in Cercemaggiore e andò a servire in casa del signor Luigi Salerno menando una vita esemplarissima fino allo scrupolo. Per giunta fu sommamente religiosa. Sono stato assicurato che quando veniva obbligata a raccontare delle cose, che riguardavano la sua vita brigantesca, subito veniva assalita da forti attacchi convulsivi e finiva sempre piangendo; poiché ricordava con orrore quei tristi tempi. Morì in Cercemaggiore il 4 novembre 1903.

26 agosto 1863

Una compagnia del 39° fanteria sorprese nel tenimento di Pontelandolfo, la banda Caruso composta di 26 persone a cavallo. Fu ucciso un brigante.

27 agosto 1863

Qindici briganti, capitanati da Caruso, si recarono alla masseria di Michele Cerulli, dove stuprarono la quindicenne Labriola Carmela serva del Cerulli.

31 agosto 1863

Caruso trovandosi in contrada S. Maria, che è in quel di Morcone, si avvide che tre dei suoi s'erano messi in fuga per andarsi a costituire alle autorità di Pontelandolfo. Caruso fattili inseguire, li fece condurre innanzi a sè, e, dopo averli interrogati sul movente che li aveva spinti a disertare e non badando alle loro discolpe, ordinava che fossero uccisi. Eseguite le tre condanne dispose di catturare il morconese Michele Colesanti, che, da Morcone si recava a Pontelasmdolfo, dove faceva il cancelliere. La truppa che si trovava in perlustrazione mise in fuga i briganti e così il cancelliere Colesanti riusciva a fuggire.

1 Settembre 1863

 All'avemaria del primo settembre 1863 mentre il vecchio contadino Giorgio Marino se ne stava seduto innanzi alla sua masseria, che trovasi in contrada Decorato, che è in quel di Colle Sannita, fu onorato da quaranta cavalieri armati dl tutto punto. Buon uomo, disse il capo di essi, che era Michele Caruso, usami la cortesia di farci accompagnare da tuo figlio alla Masseria nuova. Ciò non può essere, signor mio, rispose il vecchio; poiché dalla vostre cere mi sono accorto che siete briganti. Anzi, rispose il capo, puoi aggiungere comandati dal colonnello Caruso, il quale per darti una prova della sua bontà di animo, ti libera, con una schioppettata, da tuo figlio, e, ciò dicendo, freddò, con una fucilata il giovane Giuseppe Marino. Il vecchio padre, nel vedere il figlio esanime, incominciò a piangere disperatamente e a gridare contro l'uccisore. Costui sentendosi offeso disse al vecchio: Se io fossi medico, per calmarti, ti ordinerei dell'oppio, ma perché sono sprovvisto di questo potente medicamento; così ti scarico addosso un colpo di pistola, che, se non ti farà addormentare per sempre, ti farà nondimeno, abbandonare la zappa per parecchio tempo. Giorgio Marino fu ferito al petto e alle spalle. La belva però non era, quel giorno, ancora sazia di sangue e le vittime; sulle quali avrebbe potuto sfogare l'ira sua, non si fecero attendere; poiché, poco dopo, attraversando il bosco Decorato fucilò due contadine che placidamente raccoglievano le legna. Le uccise si chiamavano Teresa Martucci ed Angela Iapolla. La diciassettenne Serafina Zolla, figliuola della Martucci, non fu uccisa; perchè alcuni briganti di Colle intercedettero per essa. Giunto nel tenimento di Riccia s'incoutrò coll'altro capo banda Tittariello e unito a lui formarono un'unica comitiva di 60 individui a cavallo. Lungo il loro percorso Caruso volle provare la polvere ricevuta la mattina precedente da alcuni manutengoli, e, come bersaglio, si servì delle schiene dei massari Michele Di Domenico, che andava a caccia di colombi e di un certo Moffa soprannominato Cascetta. Compiuti questi due assassinii arrivò in contrada Chiusa Maralla o Scarajazo dove si trovava ad arare Giuseppe Ciccaglione, alias Ciccariello. Costui avendo scorto i briganti si recò di tutta corsa alla masseria per avvertire la figliuola Filomena e due sue nipoti affinché fuggissero; ma i briganti credendo che il Ciccaglione fosse andato alla masseria per armarsi, lo freddarono a colpi di fucile. Passati poi in quel di Castelvetere in contrada Caucinuto ammazzò, per diletto, altri 14 poveri contadini, tra i quali una famiglia intera. Quel giorno era maggiormente feroce, perché, in contrada Rivosecco non aveva potuto ricattare il tenente portabandiera della guardia nazionale di Riccia signor Giuseppe Palladino, suocero carissimo del nostro amico Dr. Enrico Sedati.

3 settembre 1863

Il 3 sett. 63, mentre Concetta Chiafari fu Tommaso da Molinara si recava nel suo fondo in contrada Murge fu, da un brigante afferrata e condotta innanzi a Caruso , il quale in quel giorno, teneva come commensale, l'atro capo-banda Schiavone. La Chiafari, giunta innanzi al Caruso gli si gettò ai piedi ed incominciò a piangere. I piagnucoloni non sono degni di stare su questa terra le disse Caruso, e ordinò a Giuseppe Celli fu Andrea, di s. Paolo, che poi fu fucilato in Castel Franco, di uccidere la Chiafari.

5 settembre 1863

Il 5 settembre 1863, Antonio Tini di Emmanuele da Paduli, venne dal comandante di quella guardia nazionale, incaricato di portare un plico a un maggiore dei bersaglieri, che trovavasi in S. Marco. Nel ritorno il Tini s'imbatte in contrada Calisi, con Caruso, il quale avendo saputo che il Tini era stato latore di un plico, nel quale si diceva che i briganti si trovavano in un dato luogo fu, il malcapitato, fatto inginocchiare, e, con un colpo di fucile, fu dal Caruso ucciso.

19 settembre 1863

Anna Belmonte, nubile contadina, trovandosi il 19 settembre nella masseria di suo padre fu visitata da tre componenti della banda Caruso, i quali, dopo aver fatto nella masseria un repulisti di biancheria e di polli, andarono via. La Belmonte tutta spaventata, andò a rifugiarsi nell'abitazione di Saverio Carbone, ma ivi trovò Caruso, il quale dopo averla schiaffeggiata, la indusse, in presenza della moglie del Carbone, a giacere con lui. Commesso questo delitto passò nel tenimento di Apice, e, in vicinanza della masseria S. Auditorio, incontrò una giovanetta. Caruso ordinò a tre dei suoi di abusarne ed infatti ne abusarono nel modo più infame.

30 settembre 1863

La banda del Caruso non si limitava solo ad arrecare danno alle persone con assassinii, ferimenti, estorsioni e ratti; ma anche alla proprietà: infatti nel settembre del 1863 una forte banda di briganti capitanata dallo stesso Caruso passando pel tenimento di Apice appiccava il fuoco a cinque bighe di paglia di pertinenza di Giuseppe Catassa e ad altri materiali combustibili di proprietà di Lorenzo Nardone. Un altro giorno non avendo potuto compiere un ricatto ammazzò la mandria di vacche dei signori La Medica Matteo e Santoro Angela.

4 ottobre 1863

Poco prima dell'alba del 4 ottobre Caruso, con quarantacinque proseliti si recò nella piana di Sepino, presso la taverna, che segna quasi il confine del Molise con detta provincia. Fermò quanti passavano, onde le truppe dei dintorni non fossero avvertite della sua presenza. Alle 8 a. m fermò una vettura particolare detta giornaliera partita da Campobasso e diretta a Napoli. Spogliò quattro viaggiatori, fra i quali un soldato del 19° fanteria, che si recava in permesso ad Asti. Rinchiuse i quattro spogliati, nella taverna e si prese i cavalli della giornaliera. Quando però alle 9 cominciò il solito movimento dei distaccamenti e i briganti si avvidero che, contro di essi era diretto un drappello del 45° fanteria si dettero in fuga abbandonando tre cavalli. Lo stesso giorno alle 2 1/2 p. m. la banda Caruso fu attaccata dal capitano polacco Potoski, che trovavasi a comandare la 11° compagnia del 45°. L'attacco avvenne presso la masseria Galanti, in quel di S. Croce di Morcone.

5 ottobre 1863

Verso la mezzanotte del 5 ottobre, Caruso, attraversando con 60 dei suoi una delle mulattiere che da S. Croce del Sannio menavano a Morcone, seppe da uno dei suoi sottocapi; che il brigante Giuseppe Pellegrino, per fame, stava maledicendo il destino che lo aveva spinto a farsi brigante. Il Caruso, senza dir verbo, fece, con un gesto significativo condurre innanzi a sè il Pellegrino e, con una coltellata, gli trapassò il cuore; poscia ne ruzzolò il cadavere in un burrone. Arrivato in contrada Cuffiano, che fa parte del comune di Morcone; fece bussare ripetutamente alla masseria di Pasquale De Maria per avere foraggio per i cavalli e viveri, per la compagnia. Berardino Polzella aprì la porta e disse al Caruso che massar Pasquale trovavasi in Morcone e che di foraggio e di viveri non era il caso di parlarne, perché ne era senza. Capisco, disse il Caruso, che le autorità ti hanno imposto di rifiutarci il cibo; però sappi che chi ti parla è persona che non si fa menare pel naso, e, per dartene prova, scanno prima i tuoi e poi te. Dispose infatti in fila gli abitanti di quella masseria e fumando fumando li uccise l'uno dopo l'altro. A giorno fatto un contadino che, per caso, si trovò a passare per la masseria di De Maria avendo visto quella massa umana crivellata da ferite andò a darne avviso ai carabinieri, i quali, recatisi sopra luogo, ebbero a constatare che Luigia Pietrangelo, Berardino Polzella, Marta Zeoli, moglie di Berardino, e i figliuoli di questi Giuseppe, Mariantonia, Luigi, Domenico e Michele erano stati prima sparati a bruciapelo e poscia ridotti a pezzi con colpi di accetta. Fra quell'informe massa umana vi erano tre creaturine, Michele, Domenico, e Luigi Polzella, che contavano rispettivamente 4, 7 e 9 anni

6 ottobre 1863

In S. Giorgio la Montagna Caruso ebbe da una sua spia una certa quantità di polvere. Il masnadiere, per vedere se corrispondeva al suo desiderio, la provò alla schiena di nove contadini cinque dei quali restarono cadaveri. L'omicidio per sola brutalità è comunissimo nella Malesia e nell'Africa centrale. I capi ed i guerrieri uccidono sovente il primo che incontrano per mostrare la loro forza o la loro destrezza, o per puro capriccio, più spesso ancora per provare le loro armi, senza che ciò provochi lo sdegno degli astanti (Garofalo)

12 ottobre 1863

La mattina del 12 ottobre, mentre la giovane Filomena Ciccaglione assieme ad altri contadini e contadine stava a seminare in quella stessa campagna, dove le fu ucciso il padre da Caruso, volle la sventura che si trovasse nuovamente a passare di là lo stesso masnadiere, il quale, preso dalla bellezza di lei, designò portarla seco. Ognuno può considerare la disperazione della Ciccaglione, sia per la sua naturale timidezza e sia per trovarsi in mezzo a quegli stessi assassini, che, come abbiamo detto, il primo settembre di quello stesso anno, le avevano ucciso il padre. Quattro volte messa a cavallo si buttò di sella; poscia vi fu legata e mantenuta da uno dei più robusti della comitiva.. In grazia di generose legnate amministrate ai cavalli, la comitiva attraversò, a trotto, buona parte di quella contrada, poscia entrata nel bosco di Riccia, fra repentine voltate e rialzi ed abbassamenti di terreno si arrivò ad una grotta. Caruso, calato l'arcione, sciolse la rapita, ordinando ai suoi di allontanarsi e di stare sulla vedetta. Infine caricatasi la Ciccaglione sulle spalle la portò nella grotta. La povera giovane rifattasi dal primo sgomento, con le braccia protese si rivolse al masnadiere, e, in tuono da far pietà, gli disse Per amor di Dio e della Vergine del Carmine uccidimi e riducimi a pezzi, e se lo credi, sparami al cuore, come, tempo fa, sparasti a mio padre, ma non togliermi l'onore che ho tanto caro. Quando si tratta di fare un simile piacere rispose beffardamente Caruso, io mi trovo sempre nel centro, e, afferrata la donna pel collo la rovesciò sulla paglia ammuffita, che copriva il pavimento di quella grotta e ne abusò. Dopo un'ora la Ciccaglione fu rimessa a cavallo. Caruso, con un prolungato fischio, chiamò a raccolta i suoi, e tutti si posero in cammino. Passarono pianure, attraversarono torrenti, boschi, e gole di monti, seguendo l'indicazione delle guide, or questa ed or quell'altra strada. Presso una collina vedono una mandra di pecore, vi si accostano, legano il padrone, uccidono il cane, scelgono, scannano, scuoiano ed arrostiscono i più giovani e pasciuti montoni. Dopo aver fatto bivacco, rimontano a cavallo e si avviano per la volta del Matese. Dopo alcuni giorni, Caruso e la sua bella Filomena si recarono in Puglia dove il masnadiere aveva un compare. Dopo pranzo, senza alcun motivo, Caruso uccise tutti i componenti di quella famiglia; poscia ridusse a pezzi il compare e lo gettò in una caldaia di acqua bollente, trasformandolo così a lesso.

13 ottobre 1863

Caruso si reca con quaranta dei suoi nella masseria di Pasquale d'Andrea, presso Volturara, e vi scanna sette vaccine, tronca la mano destra al massaro Antonio Piciuti imponendogli, per aver salva la vita, la taglia di ducati 200.

14 - 16 ottobre 1863

Nelle prime ore del 14 ebbe luogo una grande perlustrazione nel bosco di Riccia dove erano riunite le tre compagnie del 27° fanteria col maggiore Giuliti e due compagnie del 45° col maggiore Napoletano. Caruso, venuto a conoscenza della cosa, passò in Capitanata per Alberona; la mattina del 15 si spinse fino a S. Paolo facendo punta verso Torremaggiore. Nella masseria Buccini, uccideva 24 animali vaccini di pertinenza del sig. Pertosa di S. Nicandro. Il 16 scontrò la truppa nelle vicinanze di Lucera ed ebbe un morto e fuggì verso Alberona. Durante questa scorreria e passando per Serracapriola mandò un biglietto di sfida al maggiore Civitelli del 14° fanteria. Nel biglietto gli diceva che se voleva battersi con lui lo attendeva al ponte Civitale; però questo uomo Orazio di Ponte non si fece trovare e andò invece a rintanarsi nel bosco Grotta uno dei suoi più favoriti quartieri.

17 ottobre 1863

Uccide tredici contadini nella masseria Monacelle.

18 ottobre 1863

Caruso sostiene presso Torremaggiore, uno scontro con il 6° squadrone dei lancieri di Aosta, ma perde sette cavalli e cinque cavalieri. Fuggi in direzione di Lucera; ma quella guardia nazionale lo spinse verso Biccari ed Alberona.

19 ottobre 1863

La banda, passando pel territorio di Castelnuovo, uccise a colpi di rasoio tredici contadini. Alla sera, presso Roseto, fu da quella guardia nazionale assalito restando fra le mani di quei bravi militi un morto ed un ferito. Nello stesso giorno una compagnia del 26° fanteria, nel territorio di Fojano si dava ad inseguire la banda Caruso. Nella mischia rimasero uccisi un brigante ed una brigantessa. In tale occasione Enrico Lombardi di Lucera, che stava sequestrato, riuscì a fuggire.

20 ottobre 1863

Nella masseria Reggente, che trovasi in quel di Lucera, Caruso uccise una donna; però attaccato dagli Usseri perdeva 2 uomini e 4 cavalli.

22 ottobre 1863

Toglie al postiere di S. Bartolomeo in Galdo tutta la corrispondenza e lo sequestra.

28 ottobre 1863

Nel giorno 28 ottobre ritornando da Vulturino, per la volta di S. Bartolomeo in Galdo, i quattro mulattieri Lucido Bocchino fu Giovanni, Angelo Bocchino di Andrea da Terranova, Bernando e Ciriaco Colella del villaggio di Pisciaro Montefusco, s'imbatterono nella numerosa banda Caruso, che allora infestava quelle contrade, il primo venne ucciso con un colpo di arma da fuoco in tenimento di Fojano Valfortore, pel motivo che richiesto chi fosse, ebbe a rispondere essere quel tale che tempo addietro, essi briganti, avevano tolto i muli e i maccheroni. La prova specifica pose in rilievo che uno dei malfattori, in quel rincontro venne riconosciuto per Baldassarre Ianzito di S. Giorgio la Molara, il quale scaricò il primo colpo contro Lucido Bocchino, che andò a vuoto e che il Ianzito fatto segno ad un altro suo compagno sconosciuto, costui con arma simile a quella del Ianzito, detta carabina, tirò un'altra scarica contro il Bocchino, che, colpito alla regione scapolare destra, rimase all'istante cadavere ed infatti il proiettile gli aveva perforato il polmone, il pecardio e l'aorta ascendente.

29 ottobre 1863

La banda, mentre stava riposando nella masseria di Ianni Domenico, (S.Bartolomeo in Galdo) fu messa in fuga da quella guardia nazionale.

3 novembre 1863

Caruso comparve con i suoi nel territorio di S. Vincenzo (Benevento), ma inseguito da due squadroni di cavalleria, andò a rifugiarsi nel bosco di Riccia

13 novembre 1863

Nel bosco di Montepeloso compare la banda Caruso. Fra i componenti vi era la Ciccaglione.

17 novembre 1863

La banda Caruso, che era ridotta a cinque individui, passò la notte del 17 novembre nel bosco di Riccia.

23 novembre 1863

A notte fatta la banda andò a riposarsi nella masseria Paoeletta, che trovavasi nel comune di Montefalcione; Caruso, per essere al sicuro, fece chiudere in una stanza i proprietarii. All'alba prese la via di S. Bartolomeo in Galdo.

25 novembre 1863

Caruso, nell'atttaversare la montagna di San Giorgio la Molara, si avvide che uno dei suoi, Agostino Penta, aveva la febbre. Caruso prima gli raccomandò l'anima e poi lo uccise.

27 novembre 1863

Il 27 novembre Caruso si diresse alla masseria Pilla, che trovasi in quel di Colle, ma quivi scoperto dalla forza, andò a rifugiarsi nel bosco di Castelpagano, dove s'imbatté in Gabriele Mignana ed Antonio Mancini. Caruso domandò a questi due se avessero voluto arrolarsi nella sua banda: alla negativa li uccise.

7 dicembre 1863

Il 7 dicembre nella masseria Paoletta [Paoletta Giuseppantonio di Montefalcone ebbe 850 lire perché avvertì la forza pubblica che nella sua masseria vi era la banda Caruso] che, come abbiamo detto, trovasi nel territorio di Montefalcone della Ginestra, avvenne, fra la forza e la banda del Caruso, una vera carneficina; poiché da 24 bersaglieri e 36 guardie nazionali comandati dal capitano Carminio Goduto furono al Caruso uccisi sette dei suoi otto compagni. Egli con un certo Testa, dopo aver attraversato boschi e burroni, giunse nel tenimento di S. Giorgio la Molara, dove in casa di Pellegrino C. trovavasi nascosta Filomena Ciccaglione. Caruso aveva in mira di recarsi in Basilicata per rifare la banda. Dopo il fatto d'armi innanzi ricordato, il prefetto di Benevento Sigismondo, per stimolare lo zelo della forza pubblica, previo accordo col Governo, promise, a chi avesse catturato il Caruso, lire 20000. Filomena Ciccaglione, che già conosceva i rovesci subiti dal suo rapitore, credette giunto il momento sospirato della sua liberazione, di vendicare la morte del padre ed il sacrifizio della sua innocenza. Mediante Luca Pacelli fece sapere alle autorità in qual pagliaio Caruso le aveva mandato il convegno. A tale notizia il sindaco di Molinara signor Nicola Ionni, a notte fatta, riuniti 14 militi della guardia nazionale, si recò sul luogo indicatogli, ivi si trovava già il Pacelli e la Ciccaglione. Caruso, vedendosi sorpreso, tentò far testa alla forza brandendo una pistola, che gli fu tolta di mano a tutta forza. Stretto d'ogni intorno fu legato con l'unico suo compagno Testa e fu condotto a Molinara con grande gioia di quegli abitanti, che vedevano nella cattura di quel capo masnada un pericolo sempre per essi imminente. Da Molinara, per ordine del Prefetto, furono i due briganti e la Ciccaglione tradotti a Benevento, e sottoposti al tribunale militare. Caruso sostenne sfrontatamente la sua innocenza attribuendo i delitti agli altri componenti della sua banda; anzi promise al Pallavicini, che se gli avesse fatta salva la vita, gli avrebbe fatte delle rivelazioni importanti ed avrebbe fatto da guida ai soldati per fare arrestare gli innumerevoli suoi compagni e manutengoli. Il Pallavicini gli rifiutò tutto, e, senza dilazione, emise contro di lui e del suo compagno sentenze di morte. Caruso, con le mani legate dietro la schiena, fu condotto fuori porta Calore, dove aspettavalo una folla enorme accorsavi da tutti i paesi del Beneventano. Caruso, seguito dal Testa, camminava con passo lesto e con aspetto cupo e minaccioso. Giunto a pochi passi dal drappello, che lo doveva passare per le armi, alzò la testa e fissò i fucili, che lo dovevano finire sfidando così la morte; poscia gettò uno sguardo di disprezzo alla folla che, a squarciagola, gridava: A morte! A morte!…. Il masnadiere voleva contro di essa imprecare, ma non ebbe tempo, poiché il comando fu dato, l'ufficiale del drappello sguainò ed alzò la sciabola... poi nell'abbassarla la scarica rintronò terribile. Michele Caruso, colpito da più proiettili, mandò un grido interrotto simile ad un conato di tosse, poi barcollò ed infine cadde sul fianco destro. Erano le ore 22 del 12 dicembre. Il cadavere, dopo essere stato esposto al pubblico per 24 ore, fu trasportato al cimitero, dove fu fotografato. Il giorno appresso nella casa Comunale fu redatto il seguente atto di morte: "L'anno milleottocentosessantatre il dì tredici del mese di dicembre alle ore sedici avanti di noi Barone Bosco Lucarelli ff.te Sindaco ed Uffiziale dello Stato Civile del Comune di Benevento, Distretto di Benevento, Provincia di Benevento, sono comparsi Felice Agostiniello di anni quarantadue, di professione becchino regnicolo domiciliato in Benevento, e Pellegrino De Luca, di anni quarantanove di professione becchino regnicolo domiciliato ivi, i quali han dichiarato che nel giorno dodici del mese di dicembre, anno suddetto, alle ore ventidue è morto Michele Caruso di anni venticinque di professione cavallaio domiciliato nelle prigioni, figlio del fu Vincenzo Caruso di professione ------------ domiciliato -------------- e di Teresa Latella ---- domiciliata -------------- Il defunto era del Comune di Torremaggiore, Provincia di Capitanata. Noi quindi ci siamo trasferiti presso il defunto, ed avendo conosciuto insieme coi dichiaranti la sua effettiva morte, ne abbiamo formato il presente atto, di cui si è data lettura ai medesimi, ed indi si è firmato da noi e non dai dichiaranti per essere analfabeti come hanno detto. Firmato il ff.te Sindaco B. Bosco, il Segretario G. B." Caruso morì, ma non certo pentito, del macello della carne umana, che in poco più di sei mesi aveva fatto nel beneventano. Un giornale di Benevento "Il nuovo Sannio" ricordando parte dei misfatti commessi da questo bandito scriveva: "Caruso era incalzato dagli spettri dei 17 soldati dell'esercito uccisi nella contrada Beneventana, Francavilla - dei 7 proprietarii ricattati e trucidati lungo la Sannitica e nelle circostanti campagne - dagli spettri delle 5 guardie Nazionali di Paduli, dalle 12 di Circello e dalle altre l8 di Orsara fucilate e seviziate ! ! ! Era incalzato ed atterrito dagli spettri delle 10 guardie Nazionali di Torrecuso, fucilate presso Benevento all'Olivola, e dei due pedoni del telegrafo fucilati a Masti , dei 14 infelici resi cadaveri presso Colle - dei 27 tra uomini, donne e fanciulli massacrati a Castelvetere, dagli spettri di 31 guardie Nazionali di S. Bartolomeo in Galdo, dai massacri delle Camarelle, dei 7 individui fra uomini e donne della famiglia Leali trucidati a Casci presso Marcone, dei 6 campagnuoli presso Cubante, dei 13 contadini scannati di sua mano con rasoio presso S. Severo. Era incalzato ed atterrito dagli spettri delle sue amiche uccise sol perché erano incinte, di parecchi suoi compagni perché sospetti e di tanti altri che la mente rifugge dal ricordare gittati per le campagne, nei burroni e nelle fratte al pascolo degli animali". Il brigante Testa invece dovette essere bendato e cadde piangendo supplicando grazia. Alla Ciccaglione, lasciata libera, molte famiglie di Benevento professarono aiuto ed ospitalità, ma ella preferì di ritornare a Riccia presso una sua zia. I suoi concittadini le andarono incontro per compiangerla e non per deriderla. Quelli che ricordano quando fu interrogata dal capitano Lombardi dei Mille, comandante della truppa, dicono che era ancora bella, ma smunta e pallida e per di più quasi scimunita. Ebbe una pensione di 40 ducati all'anno; morì nel 31 maggio 1866, dicono consumata o meglio moralmente disfatta dalle violente emozioni e dalla vergogna e fisicamente distrutta da una vita di privazioni e di disagi, sotto l'aureola del martirio.

FINE

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