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Commissione d'inchiesta sul brigantaggio RELAZIONE STRALCIO di GIUSEPPE MASSARI |
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Il 16 Dicembre 1862 la Camera nomina una commissione d'inchiesta per studiare il fenomeno del brigantaggio nelle provincie meridionali e le sue cause politiche e sociali. L'inchiesta, già più volte proposta dalla sinistra, dovrebbe anche sollevare il velo di silenzio steso dal governo sugli errori e sugli abusi compiuti dall'esercito nell'opera di repressione. Nel maggio 1863 la commissione d'inchiesta conclude i lavori. I risultati, raccolti in una lunga relazione, vengono letti alla Camera in diverse sedute e saranno quindi pubblicati in estate sul giornale "il dovere". La relazione evidenzia numerose ragioni economiche e sociali del fenomeno del brigantaggio, ma evita di parlare delle responsabilità del governo, chiamando invece in causa l'attività degli agenti borbonici e clericali. In sostanza conclude la relazione "Roma è l'officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi e in tutti i modi, moralmente e materialmente: moralmente perché il brigantaggio indigeno alle provincie meridionali ne trae incoraggiamenti continui e efficaci; materialmente perché ivi è il deposito, il quartier generale del brigantaggio d'importazione". La commissione d'inchiesta, pur raccomandando provvedimenti economico sociali, propone per l'immediato l'adozione di una legge speciale di carattere fortemente repressivo. Sarà varata, infatti, il 15 agosto 1863 la Legge Pica.
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……. […] Facil cosa é dire che il brigantaggio si è manifestato nelle provincie meridionali, a motivo della crisi politica ivi succeduta; con ciò si enuncia il motivo più visibile del doloroso fatto, ma si rimangono nell'ombra le ragioni sostanziali, le quali invece sono quelle che vanno accuratamente studiate ed esaminate, perché esse sole possono fornire l'indicazione dei mezzi più sicuri e più efficaci a ricondurre le cose nelle condizioni regolari. La prima domanda che spontanea sorgeva nell'animo nostro era la seguente: il brigantaggio, che da tre anni contrista le provincie continentali del mezzodì dell'Italia, è conseguenza esclusiva del cangiamento politico avvenuto nel 1860, oppure questo cangiamento è stato soltanto un'occasione, dalla quale lo sviluppamento del brigantaggio è stato determinato? Negli ordini politici e sociali, come nel fisico, non basta riconoscere le cause prossime ed immediate dei fenomeni, ma è di uopo accennare se a queste cause si colleghino altre, senza le quali l'azione delle cause prossime ed immediate o non potrebbe svolgersi affatto, oppure raggiungerebbe proporzioni minime e di poca entità. Certo è cosa evidente che in tutte le crisi politiche il principio di autorità soggiace a gravi scosse, i vincoli sociali si rallentano, le ragioni intrinseche di sicurezza e di tranquillità scapitano di molto nel loro rigore; e quindi è naturale che avvengono gravi disordini, e che la sicurezza pubblica, segnatamente, sia profondamente turbata. Certo le provincie napoletane hanno soggiaciuto nel 1860 ad una crisi di questo genere, e torna agevole il comprendere come in seguito a ciò siasi manifestato il brigantaggio. Ma basta forse la sola crisi politica a rendere ragione e dell'intensità del male e delle proporzioni che ha raggiunte e della ostinazione con cui resiste ai mezzi adoperati per combatterlo e guarirlo? A persuadervi che restringendo a quella poc'anzi enunciata le cause del brigantaggio si cadrebbe in errore, basterà una sola considerazione. Gl'influssi della crisi politica non potevano essere e non sono stati diversi nelle diverse provincie dell'ex-reame Napolitano: se dunque in ogni caso la loro azione è stata identica, gli effetti avrebbero pure dovuto essere i medesimi in ognuna di quelle provincie, e queste avrebbero perciò dovuto essere allo stesso grado infestate dal brigantaggio. La conclusione è strettamente logica: ma il fatto la contraddice, poiché è in dubitato che mentre in alcune provincie il brigantaggio ha infierito ed ha raggiunto terribili proporzioni, come, a cagione d'esempio, in Capitanata ed in Basilicata; in altre, come le Calabrie, o non ha allignato affatto o tutto al più si è ristretto in angusti limiti. Per rendere ragione di questo contrasto è dunque mestieri supporre o che la crisi politica non abbia avuto nessun influsso in alcune provincie e molto in altre, oppure che le rispettive condizioni di quelle provincie, non essendo identiche, gli effetti della crisi siano stati diversi. La prima di queste ipotesi non regge all'esame: il rivolgimento politico essendo unico, nella sua essenza e nella sua origine, non poteva non tramandare i suoi influssi alla stessa guisa e con la medesima efficacia in tutte le località, e quindi sarebbe all'intutto gratuito ed assurdo il supporre e l'asserire che questi influssi si manifestassero e fossero attivissimi a Foggia ed a Potenza, latenti od inerti a Catanzaro ed a Reggio. La ragione del divario va dunque ricercata altrove e propriamente nella diversità delle condizioni delle varie provincie. Ond'è che dall'evidenza dei fatti noi siamo stati costretti a domandarci se per avventura non esistessero cause generali ed essenziali che contribuiscono a rendere in alcune località, meglio che in altre, più agevole, più pronto, più terribile lo sviluppo del brigantaggio e frappongono più gagliardi ostacoli alla sua estirpazione. La risposta a questa domanda ci è stata largamente fornita e dalla osservazione dei fatti e dalle ricordanze istoriche, e dalle opinioni di molte fra le persone che all'uopo abbiamo interrogate, e di quelle che spontaneamente ci hanno partecipato per iscritto il loro parere. Quelle osservazioni, quelle ricordanze, quelle opinioni, ci hanno condotto a conchiudere che il brigantaggio ha una sua precipua ragione di essere in alcune cause, che non sono quelle che a prima giunta si scorgono, e che pur troppo non sono, nè le meno efficaci, nè le meno essenziali. A bene esprimere il nostro concetto diremo che il brigantaggio, se ha pigliato le mosse nel 1860, come già nel 1806, ed in altre occasioni, dal mutamento politico, ripete però la sua origine intrinseca da una condizione di cose preesistente a quel mutamento, e che i nostri liberi istituti debbono assolutamente distruggere e cangiare. Molto acconciamente e stato detto e ripetuto essere il brigantaggio il fenomeno, il sistema di un male profondo ed antico: questo paragone desunto dall'arte medica, regge pienamente, ed alla stessa guisa che nell'organismo umano, le malattie derivano da cause immediate, e da cause predisponenti; la malattia sociale, di cui il brigantaggio è il fenomeno, è originata anche essa dallo stesso duplice ordine di cause. Il contadino non ha nessun vincolo che lo astringa alla terra. La sua condizione è quella del vero nullatenente, e quand'anche la mercede del suo lavoro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe miglioramento. Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proletarii di campagna è scarso; ma là dove si pratica la grande coltivazione, sia nell'interesse del proprietario, sia in quello del fittaiolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso. Tolgasi ad esempio la Capitanata. Ivi la proprietà è raccolta in pochissime mani : la stessa denominazione di proprietari anzi è inesatta; perché in verità essi non sono che censuari e veri vassalli del Tavoliere di Puglia; dove il numero de' proletari è grandissimo. A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto di popolazione, addimandato col nome di ferrazzani, che non possiede assolutamente nulla e che vive di rapina. Nella sola città di Foggia i terrazzarii assommano ad alcune migliaia. Grande coltura: nessuno colono: e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la vita. I terrazzani e i cafoni, ci diceva il direttore del demanio e tasse della provincia di Foggia, hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i cani. Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale, ponendola a confronto con vita stentata e misera che egli è condannato a menare, non inferisce di certo, dal paragone, conseguenze propizie all'ordine sociale. Il contrasto è terribile, e non è a meravigliare se, nel maggior numero dei casi, il fascino della tentazione al male oprare sia irresistibile. I cattivi consigli della miseria non temprati dall'istruzione e dalla educazione, non infrenati da quella religione grossolana che si predica alle moltitudini, avvalorati dallo spettacolo del cattivo esempio, prevalgono presso quegli infelici, e l'abito a delinquere diventa seconda natura. La fioca voce del senso morale è soffocata, ed il furto; anziché destare ripugnanza, appare mezzo facile e legittimo di sussistenza è di guadagno, ond'è che sorgendo dall'occasione l'impulso al brigantaggio, le sue fila non indugiano ad essere ingrossate. Su 373 briganti, che si trovavano il giorno 15 aprile prossimo passato nelle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto dei così detti braccianti. Là invece dove, le relazioni tra il proprietario ed il contadino sono migliori, là dove questi non è in condizione nomade ed è legato alla terra in qualsivoglia modo, ivi il brigantaggio può, manifestandosi, allettare i facinorosi, che non mancano in nessuna parte del mondo, ma non può gettare radici profonde, ed è con maggiore agevolezza distrutto. Nella provincia di Reggio di Calabria difatti, dove la condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti. Nelle altre due Calabrie, la provincia di Catanzaro e quella di Cosenza, le relazioni tra contadini e proprietari sono cordiali, e quindi allorchè questi invocano l'aiuto di quelli per difendere la proprietà e la sicurezza, sono certi di conseguirlo. Nelle provincie dove lo stato economico e la condizione sociale dei campagnuoli sono assai infelici il brigantaggio si diffonde rapidamente si rinnova di continuo, ha una vita tenacissima, mentre in quello dove quello stato è più tollerabile, dove quella condizione è comparativamente migliore, il brigantaggio suol essere frutto d'importazione, nè può, manifestandosi, oltrepassare certi limiti; e quando sia stato una volta disfatto, non risorge con tanta facilità. Quante e quante volte le bande di Caruso e di Crocco in Capitanata e Basilicata sono state sbaragliate e decimate, e talvolta pur quasi interamente distrutte, e frattanto sono sempre risorte. In Terra di Lavoro invece la banda di Cipriano La Gala tenne la campagna per molto tempo, ma alla fine fu incontrata dalla truppa e completamente distrutta. D'allora in poi, abbenché il capo-banda sia ancor vivo e non fatto prigioniero, della banda non si è più inteso parlare. In provincia di Bari è succeduto un caso identico. Una banda di masnadieri, guidata da un tal Pasquale Romano di Gioia, ex-sergente borbonico, contristava con ogni maniera di rapine e di uccisioni quelle amene ed ubertose contrade; nei primi di gennaio scorso i cavalleggieri di Saluzzo, comandati dal valoroso capitano Bollasco, e secondati dalla coraggiosa guardia nazionale di Gioia, assalirono l'infame banda, ne uccisero il capo e la distrussero, d'allora in poi il tenimento di Gioia è libero e sicuro. Il circondano di Sora in Terra di Lavoro è limitrofo al territorio pontificio, e quindi esposto tutto dì alle incursioni delle bande brigantesche che tranquillamente e con tutti gli agi immaginabili si organizzano in quel territorio; frattanto il brigantaggio è ivi affatto transitorio e non trapassa i limiti della importazione. E perché? Perché la condizione del contadino è migliore che altrove, perché il paese è assai industrioso e commerciante, perché i lavori della strada ferrata hanno adoperate molte braccia e cagionato l'aumento dei salarii. La banda di Chiavone era reclutata tra i contadini più miseri della selva di Sora, e della vicina valle Roveto. Nel Molise la condizione del contadino non è prospera, così pure nella Basilicata, dove in aggiunta sono vive assai le controversie per le usurpazioni dei beni demaniali. Nel circondano di Avezzano, in provincia di Aquila, i contadini vanno a lavorare nel vicino agro romano, e guadagnano onestamente la vita. Quel circondano, pari a quello di Sora, è limitrofo al territorio pontificio, ed ivi pure il brigantaggio è conseguenza d'importazione. In generale ciò si avvera in tutto l'Abruzzo Aquilano, perché in esso pochi sono i contadini i quali non abbiano qualche vincolo alla terra. Nell'Abruzzo Teramano, il tatto, del quale accenniamo, risulta con molta evidenza in quella provincia fu l'ultimo asilo delle truppe borboniche, nella fortezza di Civitella del Tronto, la quale si arrese dopo la caduta di Gaeta; non mancava adunque il fomite del brigantaggio: pertanto la provincia fu preservata dal flagello a motivo, senz'alcun dubbio, della mitezza e del patriottismo dei suoi abitanti, ma anche perché lo stato economico dei contadini non è cattivo. Il contrapposto che risulta dalla diversità delle condizioni sociali ed economiche è evidente; nol solo esso sorge facendo il confronto fra le diverse provincie, ma è visibile anche senza uscir dai confini di una stessa provincia, valga ad esempio l'Abruzzo Chietino. Nel circondano di Chieti è stabilita tra il proprietario ed il contadino una specie di società, mediante la quale questo si obbliga a prestare la propria opera, e l'altro il fondo od il capitale. Il profitto è ripartito in determinate proporzioni, le quali variano a seconda della fertilità del terreno. Il contadino perciò non è un semplice bracciante che per salario lavora la terra, ma è invece legato a questa, partecipa agl'interessi del proprietario. Nel circondario di Chieti il brigantaggio è stato importato ma non vi ha mai gettato radici. In un altro circondano della stessa provincia, in quello di Vasto, la sorte del contadino non è così lieta: si avvicina a quella del contadino di Campobasso e di Foggia; ed il circondano di Vasto è stato una delle contrade abruzzesi dove più il brigantaggio ha imperversato; nè ha incominciato a declinare se non quando, attivandosi i lavori della strada ferrata, la povera gente ha potuto accorgersi che il valore della mano d'opera era di molto cresciuto, è che il lavoro può procacciare un guadagno onesto, sicuro e copioso. In, alcune località, il contrapposto è visibile entro i limiti dello stesso mandamento. Nella medesima provincia di Chieti, sono nel medesimo mandamento Bomba e Montazzoli: a Bomba la sorte del contadino non è cattiva; a Montazzoli, si avvera 1'opposto. Il numero dei briganti nel primo paese è scarsissimo; nel secondo è rilevante. Ma vi è ancora di più. Il mutare delle condizioni sociali ed economiche nella stessa località, attenua, se pure, non distrugge completamente, la predisposizione al brigantaggio. Un onorevole senatore di Capitanata ci narrava il fatto seguente. Durante il decennio dell'occupazione francese, Orsara fu uno dei paesi che offri maggior numero di briganti. Il governo borbonico stimò opportuno di dividere i beni demaniali di quella terra tra coloro che possedevano un capitale di '20 carlini in giù. Il concorso fu numerosissimo: ognuno poté comperare una mezza versura di terreno (deu jugeri) ed una intera, allorché la qualità dei terreni era assai cattiva. Mutate in tal guisa le condizioni sociali ed economiche, Orsara ha fornito uno scarsissimo contingente all'attuale brigantaggio: in questi tempi, cotesto contingente riducevasi a due. La condizione di cose, della quale siamo venuti fin qui discorrendo, ci sembra porgere in modo non equivoco la nozione di una delle cause, che con maggiore efficacia generano fatalmente in alcune provincie meridionali la funesta predisposizione al brigantaggio. Il sistema feudale spento dal progredire della civiltà e dalle prescrizioni delle leggi ha lasciato una eredità che non è ancora totalmente distrutta; sono reliquie d'ingiustizie secolari che aspettano ancora ad essere annientate. I baroni non sono più, ma la tradizione dei loro soprusi e delle loro prepotenze non è ancora cancellata, ed in parecchie località, che abbiamo nominate, l'attuale proprietario non cessa di rappresentare agli occhi del contadino l'antico signore feudale. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere, nè prosperità; sa che il prodotto della terra, innaffiata dai suoi sudori, non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria, e l'istinto della vendetta sorge spontaneo nell'animo suo. L'occasione si presenta; egli non se la lascia sfuggire; si a brigante; richiede, vale a dire, alla forza quel benessere, quella prosperità che la forza gli vieta di conseguire, ed agli onesti e mal ricompensati sudori del lavoro preferisce i disagi fruttiferi della vita del brigante. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria, contro antiche e secolari ingiustizie. Ma forse la causa predisponente al brigantaggio, che risulta dalla infelice condizione sociale, dalla miseria, dalla povertà, non possederebbe la terribile efficacia, che in realtà possiede e manifesta, se non fosse potentemente coadiuvata da un'altra causa dello stesso genere, vale a dire dal sistema borbonico. La sola miseria non sortirebbe effetti cotanto perniciosi, se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò, ed ha lasciati nelle provincie napolitane. Questi mali sono l'ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata; e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia. Gli uomini che a migliaia nel periodo di soli sessant'anni il governo borbonico ha scannato sui patiboli, o fatto dolorare negli ergastoli, nelle galere, negli esigli, non furono le vittime più infelici; la scure del carnefice, il capestro, non furono i maggiori, nè i più crudeli tormenti di supplizio usati dai Borboni, i quali a tutta possa si adoperarono a commettere il più nefando dei parricidii, quello di togliere ad un intero popolo la coscienza del giusto e dell'onesto. Ferdinando II segnatamente arrecò, nella proterva impresa, un'operosità ed un ingegno veramente infernale. Del tribunale della giustizia umana, come di quello della giustizia divina, aveva fatto il sacrario della denuncia e della menzogna; aveva confusa l'onorata assisa del soldato con quella del delatore e dello scherano; glorificava ed onorava il delitto, puniva come infamia la virtù e l'eroismo; famelico di dominio assoluto, poco gli premeva di regnare su di un deserto, purché regnasse; poco gli premeva che i puntelli del suo trono fossero l'iniquità, la frode, la venalità, purché si vedesse sopra; ed il suo regno lungo e funesto fu un brigantaggio permanente contro il più sacro diritto di proprietà, quello dell'onestà: contro la più preziosa prerogativa della vita delle nazioni, la morale. La stessa voce irresistibile dell'istinto, che lo avvertiva come la sua dinastia potesse reggersi per qualche tempo, ma non regnare per sempre nell'estremo lembo d'Italia, non lo distoglieva dall'esiziale assunto, ma sempre più ve lo infervorava: regnare, e non potendo più regnare, lasciare al governo civile, che prevedeva dovesse succedere a quello della sua dinastia, un cadavere; questo era il suo scopo. Ai principii del 1849, Ferdinando II diceva all'ex-ministro principe Dentice, ora defunto: "Se io debbo lasciare il regno, legherò ai miei successori cinquant'anni di anarchia". Non gli fu dato raggiungerlo, perché l'intelligenza napolitana oppose al perverso disegno un'incrollabile resistenza; e fu vittoriosa. Ma l'apostolato della immoralità e della ingiustizia, fatto dall'alto dì un trono, non poteva non far risentire i suoi effetti sulle povere plebi; ed oggi, alla luce della libertà, se ne scorgono le amare conseguenze. Ce lo hanno detto e ripetuto tanti onorevoli ed autorevoli uomini; questo popolo non ha il sentimento della giustizia, non ha fiducia in essa, non ci crede. Qual meraviglia se, per tanto volgere di anni, quel popolo ha veduto il prete confondere le attribuzioni del suo santo ministero con quelle del delatore, il magistrato trafficare la giustizia, il soldato far da carnefice? Qual meraviglia se plebi misere ed infelici ed educate a questa guisa accorrono oggi ad ingrossare le file dei briganti? Qual meraviglia se nel periodo di trasformazione, dal passaggio cioè del dominio assoluto della forza brutale all'impero pacifico della libertà e delle leggi quelle povere plebi chieggiono alla violenza e alla ribellione contro la società il ristoro ai lunghi anni, alle eterne ingiustizie, quel ristoro che non sarebbe in grado di ottenere dal lavoro e dalla libertà? Qualunque sia la natura delle popolazioni, ultimo, esse tali divengono, quali il sistema governativo lo rende. E ben misera e sventurata deve essere la condizione di una classe della società, quando preferisce, alla quiete della vita ordinaria i patimenti, le concitazioni, i continui timori e pericoli della vita brigantesca, cioè il non aver per casa che, grotte e boschi, non trovare asilo che nelle rupi inaccessibili e nelle valli profonde, i1 dover dubitare di tutti, il pensarsi circondato di tradimenti e d'imboscate, vivere di assassinii e morir sui patiboli o sbranati nelle selve qualche volta da chi l'insegue, spesso dai propri compagni, e maledetto sempre dalla società e, dai danneggiati. Chi non ha un palmo d terra che è suo, chi è nudo d tutto, e serve sempre al ricco proprietario e lui vede straricchire col raccogliere i frutti del suo sudore, mal ricompensato, anzi sforzato dai cattivi trattamenti, non può avere amor di patria, non sentimento di rispetto verso la società. Molti delitti quindi, più che umana tristizia, traggono origine da cattivi governi, da sistemi immorali, da manco di giustizia e di preveggenza in chi ha nelle mani le sorti di milioni di uomini …… […]da: "Il Brigante Michele Caruso Ricerche di Abele De Blasio" Stab. Tipografico, Napoli, 1910 e tratto a sua volta da: Oddo: "ll Brigantaggio e l' Italia dopo la dittatura Garibaldi" - Milano 1866. |
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