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BENEVENTO E LA SUA PROVINCIA |
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Sviluppo Storico ed Economico -Trasformazione dei Traffici di Alfredo Zazo da: "Studio per la valorizzazione agricola, lo sviluppo industriale e turistico della provincia di Benevento" a cura del Comune, Provincia, Camera Commercio e Ente per il Turismo di Benevento - Istituto di Rilevazioni Statistiche e di ricerca economica del Prof. Fausto Pitignani - Roma. ABETE - Roma, 1968 |
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Benevento: un palinsesto di memorie di Gianni Vergineo |
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DALL'ANTICHITA' AL PERIODO LONGOBARDO La Provincia di Benevento voluta da Giuseppe Garibaldi agli inizi del compimento dell'unità nazionale, ebbe la sua sanzione col decreto del pro dittatore Giorgio Pallavicino, il 25 ottobre 1860. Un altro decreto, e questo del Luogotenente per le province meridionali Eugenio di Savoia, ne determinò il 17 febbraio 1861, la circoscrizione amministrativa che con Benevento capoluogo, comprende oggi 77 [78] Comuni distaccati dalle confinanti provincie di Foggia, Avellino e Caserta. Anche se la costituzione della provincia non è tradizionalmente unitaria, essa appartiene in gran parte per origine, al Sannio Caudino, uno dei rami di stirpe Sabellica che col Molise e l'Irpinia formano, con storica approssimazione l'antico Sannio. Le sue vicende e la stessa sua attività nel corso dei secoli, sono, pertanto, legate alle province di origine; sia dal punto di vista politico territoriale che da quello economico. Particolare aspetto, e da ben remota antichità, ha il capoluogo, città osco sannita, romana, bizantina, e in seguito capitale della Longobardia meridionale, possesso svevo, aragonese, borbonico e soprattutto pontificio, sino al 3 settembre 1860. Sorvolando sulle antichissime popolazioni i cui cospicui relitti di officine litiche e vascolari (Telese, Morcone, Apice, Cerreto Sannita, Guardia Sanframondi ecc.) attestano, per il periodo neolitico, una progredita civiltà e sulle oscure origini di successivi abitatori - ultimi gli Osci - entriamo nella storia vera e propria, col secolo V a.C., quando i Sanniti occupato il Matese, fecero di esso una barriera difensiva con le città poste ai quattro aditi del massiccio: Boviano, Venafro, Isernia, Alife e Telese. Scacciati del tutto gli Etruschi dopo la resa di Capua (438 a.C.) e di Cuma (421 a.C.), essi dilagarono fra il Volturno e il Vesuvio, dando alla regione il nome di Campania, cioè "terra del piano", tranne che non si voglia far derivare questo nome dalla preminente città di Capua. Nel IV secolo, le tribù sannite erano così stanziate: i Pentri, su i due versanti del Matese con capitale Boviano e con le principali città di Isernia, Venafro, Pietrabbondante, Trivento, Sepino, Aquilonia; i Caudini, su uno dei versanti del Taburno e nelle valli del Sabato e del Calore, con le città di Caudium, Maloenton e Telese; gli Irpini, di là del Taburno, nelle valli superiori dei due fiumi ora menzionati, con l'antica Abellinum, Conza, Eclano e Lacedonia. Nel cuore della Campania possedevano Pompei e facevano sentire la loro influenza su Napoli. Guerrieri valorosi, ma anche laboriosi agricoltori quando non si dedicavano alla pastorizia, i Sanniti trovarono nell'attuale provincia, agricoltori e pastori e forme primitive di artigianato e in Benevento, favorita dalla sua posizione topografica tra l'Apulia, la Campania e lo stesso Sannio, l'industria e il commercio della lana e più stretti rapporti con la Capitanata dalla quale la città aveva tratto il mito della sua fondazione attribuita all'eroe etòlo-argivo Diomede. Lo stesso nome "Maloenton" di etimo greco ("mallos", vello di pecora e per estensione, gregge, e "enton" suffisso collettivo) ci indica questa sua primitiva attività di centro di raccolta delle greggi e loro tosatura. La piana meridionale della primitiva città osca, piana solcata dalla confluenza del Sabato e del Calore, ben si confaceva alla sosta delle greggi che discendevano dall'Apulia e dai tratturi dell'Alto Sannio. Lo scrittore latino M. Terenzio Varrone (II sec.) ricorda a questo proposito nei suoi "Rerum rusticarum libri III", la transumanza delle greggi dall'Apulia al Sannio. Queste condizioni di vita dovettero alterarsi nella seconda metà del IV secolo, durante le guerre sannitiche con Roma (343-290 a.C.) i cui eserciti, non senza subire rovesci (è noto l'episodio delle Forche Caudine del 321 a.C.) imperversarono nel Sannio sino alla sua distruzione operata da Silla rell'82 a.C. La provincia di Benevento fu, pertanto, attraversata dalle legioni romane sino alla conclusione di quella lotta di predominio nell' Italia meridionale, una delle tappe dell'unificazione della Penisola. Nel 275 a.C. l'esercito di Mario Curio Dentato sconfiggeva l'epirota re Pirro presso Maleventum e fu in seguito a questo decisivo episodio che - a dire di Plinio e non di lui solo - alla Città venne mutato il già corrotto nome che sembrava malaugurante alla superstizione romana, in quello di Benevento. Divenuta nel 268 a.C. colonia latina, ben presto le esigenze militari che dominavano Roma nella costruzione delle sue grandi vie, portarono sulla direttrice di Benevento il percorso della Via Appia iniziata probabilmente nel 310 a.C. e che già si allungava per 132 miglia da Roma a Capua. Chiamata dal poeta latino Stazio e non senza ragione, "regina viarum", raggiunse la Città al 156° milliario e venne poi prolungata attraversando anche la attuale provincia, per raggiungere Aeclanum, Venusia, Tarentum e infine, Brundisium. Da quella via che entrava in Benevento sul ponte chiamato Leproso, probabilmente per l'esistenza nel Medio Evo di un ospizio per lebbrosi sorto in quei pressi, la Città ebbe i primi apporti della sua prosperità economica. Un "emporium" i cui resti furono in gran parte distrutti dalla guerra nel 1943, e che correva per circa seicento metri normalmente all'asse della via Appia, attraversato da corridoi sui quali si aprivano numerosi cellari, donde il nome di Cellarulo dato alla contrada, era destinato a contenere e a smerciare le abbondanti derrate. Ad esso vicino, il "forum venale", pubblico mercato di affari e di vendite specialmente granarie. Nessun dubbio che il territorio di Benevento e i suoi immediati dintorni fossero ricchi del prezioso frumento e quindi del suo commercio, se ci rifacciamo a un episodio della guerra annibalica: l'invio di Annone, luogotenente di Annibale, a fare razzia di grano nei dintorni della Città e soprattutto all'istituzione nella terza colonia beneventana, la colonia "Julia Concordia Augusta Felix Beneventum", di due particolari magistrature, quella dei pretori e degli edili giusdicenti, col compito, fra l'altro, di derimere le contestazioni nascenti dai negozi di cereali, fulcro dello Stato. Una lapide dedicata a L. Staio Maniliano, ricorda il culto professato alla dea Cerere e i donativi distribuiti al popolo in vesti e danaro, durante una festività cereale. Da uno storiografo locale, vissuto nel XVII secolo, sappiamo poi, che l'uso di festeggiare l'abbondanza del raccolto, perdurava al suo tempo (come perdurava il "fescennino" durante la vendemmia) sicché il popolo si recava il lunedì "in albis" in una chiesa dove esistevano ancora i resti dell'antico tempio consacrato alla dea, per invocare da Dio "la felicità dell'anno e la futura fertilità della messe, per poi con banchettare". Agevolarono la crescente prosperità della Città, oltre la via Latina, e Traiana senza contare le loro diramazioni, fra cui la Frentano-Traiana, quella che raggiungeva Sepino e l'Alto Sannio, la "strada antica maiore" come più tardi fu chiamata la deviazione dell 'Appia che raggiungeva Abellinum tagliando la via Domiziana, la via Aquilia che attraversava il così detto stretto di Barba ("per angustias Valvae"), la Popilia che nasceva da Salerno. Sulla via Egnatia, doveva innestarsi la seconda più importante via per Benevento, la Via Traiana, dovuta al genio politico e militare del grande imperatore che volle avvalersi di essa per l'attuazione del suo programmi di governo: rendere più agevole e spedito il percorso verso Brindisi, per rneglio avvicinare l'Oriente all'espansione di Roma. Con la costruzione della Via Traiana che sappiamo compiuta tra il 109 e 110 d.C., Benevento raggiurà nel periodo romano, il culmine della sua floridezza economica e sociale. L'Arco eretto all'"optimus princeps" a capo della via, tra il 114 e 117 "il più insigne documento dell'antichità e della scultura traianea, il più perfetto esemplare della serie gloriosa di quei monumenti tutti romani che sono gli archi trionfali", ricorda quell'evento tanto notevole per la vita cittadina. Uno dei suoi pannelli, rappresenta la "institutio alimentaria" benemerenza dell'Impero nel soccorrere i fanciulli e venire in aiuto degli agricoltori. Non lontana dall'Arco, l'espansione edilizia della Città in quel II secolo, fino allora contenuta quasi tutta nella sua zona meridionale. La "Regio viae novae" dovette, pertanto, accrescersi di botteghe e di "cauponae" e divenire frequentata per l'incremento dei viaggiatori che da Roma si dirigevano a Brindisi o da questa città approdavano per recarsi a Roma. La costruzione del Teatro, compiuta fra il 198 e il 210 da Marco Aurelio Antonino (l'edifizio fu rimesso in luce nel 1938) appare quindi anche connesso a quell'incremento viatorio, se fu frequentato non solo dal popolo, ma da militari, magistrati, funzionari, che movevano verso i porti dell'Epiro e per la via Egnatia, a Salonicco. Benevento si abbellì di terme, di acquedotti, di una scuola gladiatoria (il sodalizio dei "cultores dei Herculi"), di uno "studium orchestòpales", cioè di una scuola di ballo pantomimo per le rappresentazioni teatrali, di pubblici edifizi e di tempii e fra questi ultimi, lo splendido Iseo (ce ne rendono consapevoli le numerose sculture ora nel Museo Provinciale) che dedicato alla Gran Madre e al dio Serapide per volere di Domiziano (81-96 d.C.), vide questo culto asiatico - divenuto internazionale - praticato particolarmente dai viri che provenivano dall'Oriente. Ben poco conosciamo della vita di altri centri urbani in questo periodo. Montesarchio fece parte della Colonia beneventana e posta sull'Appia, fu ed è nodo stradale notevole verso la Valle Caudina. Il nome è probabilmente derivato dalle fortificazioni erette sull'imminente collina (Mons arcis) se terremo presenti le sue iscrizioni romane che ricordano "patronei turreis". S. Agata dei Goti - o meglio la incerta distrutta città sorta nei suoi pressi - dovette nel periodo sannita avere scambi commerciali con città italiote, se non si è tratti in inganno come per Montesarchio, dal ricco e prezioso deposito di vasi attici rinvenuto in quel territorio nel XVIII secolo e recentemente. Circello, abitata dai Liguri Bebiani (dal nome del console M. Baebio Tanfilo) colà dedotti nel 178 a.C., perché ostili a Roma durante la guerra annibalica, fu municipio di una certa importanza; le sue iscrizioni, infatti, ricordano terme, edifici con portici e un collegio, quello dei Dentrophori che troviamo anche a Napoli. Nel III secolo, fra la decadenza dell'Italia meridionale, se facciamo eccezione di Napoli, Taranto e Reggio, Benevento conservò pur sempre la sua floridezza, accresciuta dalla presenza di letterati, di officine scrittorie, di associazioni (fra esse, quella dei medici e dei commercianti: i "mercuriales", come in Roma - un pannello dell'Arco già ricordato, è dedicato ai "negotiatores" accolti dall'Imperatore). Dalle epigrafi salvate dalle vicende dei tempi, balzano i nomi di cittadini singolarmente benemeriti, magistrati, consolari, e un libraio editore stipendiato dalla Città. Nel 369 d.C. un "immane" terremoto si abbatteva su di essa. Il "corrector Campaniae" Simmaco, nel visitare la sconvolta città, poté riferire che più della sui grandezza, aveva ammirata quella degli abitanti, pii, amanti delle lettere, ammirevoli per costume ed elargitori del proprio per rifare i danni comuni. É l'ultimo notevole episodio della Benevento romana. La gloria e la potenza di Roma impallidivano sempre più e non sappiamo se nel 455 d.C. i Vandali che irruppero nella Campania, desolassero l'attuale provincia. In seguito, non mancarono nel Sannio acquartieramenti barbarici di Eruli e di Goti (la loro sede in S. Agata dei Goti ha lasciato questo appellativo alla città), con la inevitabile confisca delle terre da parte degli invasori. Si a così la decadenza di Benevento. Ostacolati o chiusi i grandi transiti dell'Oriente che avevano favorita la sua ascesa, interrotte le strade interne della Penisola, vide sempre più contrarsi la sua vita economica. La seconda guerra greco-gotica (535-555) lasciava dopo venti anni di stermini, desolato e spopolato il Mezzogiorno d'Italia e le poche disposizioni emanate da Bisanzio per alleviare la spaventosa crisi si rivelarono del tutto insuffucienti. E non sappiamo neppure se venne riattivato il grande mercato di Benevento che prosperava ai confini del suo territorio certamente nel periodo dell'Impero e dove affluivano i prodotti delle confinanti provincie, quel nivum forum (oggi Forno nuovo) posto alla confluenza del Calore e del Tammaro sulla via Traiana verso l'Apulia e fornito di grano, biade, legname e bestiame. Unica traccia di attività ci viene menzionata da una lapide dedicata a Tullidio Argolico che diresse con zelo una officina d'armi sorta nella città dopo la distruzione delle officine militari di Cremona, Concorda, Mantova, Ticino e Lucca. Ed ecco un'altra invasione che doveva dare un nuovo volto alla decaduta città e mutarne il destino. Nel 568 i Longobardi guidati da Alboino e partiti dalla Pannonia, valicavano nelle Alpi Giulie il passo del Predil, raggiungendo Cividale, l'antico Forum Iulii. Tra il 569 e il 570, l'orda di Zottone penetrava nel Sannio. La conquista della zona beneventana dové apparire al longobardo invasore in tutta la sua importanza. La situazione topografica del capoluogo fra le fertili terre della Puglia e della Campania, la stessa natura montuosa del suolo strategicamente adatto ad una difesa contro i Bizantini che presidiavano Napoli e le coste pugliesi; queste e altre ragioni, favorirono ben presto la creazione del Ducato longobardo meridionale. Compiuta l'occupazione del Sannio, Zottone fece di Benevento la capitale del nuovo Stato che in venti anni di regno dilatò con sempre nuove conquiste. Il territorio venne diviso in gastaldati e sappiamo il nome di due di essi: Telese e Morcone. Una città, Pontelandolfo, venne fondata nell'ambito della provincia e il "vicus Fremondi" fortificato, prenderà poi il nome di Guardia Sanframondi. Nel 591 Zottone lasciava al suo successore, il duca Arechi I, nobile longobardo di Cividale, un vasto territorio che comprendeva il Sannio, quasi tutta la Lucania e parte della Campania, della Puglia e del Bruzio. Questi possessi furono ancora allargati con l'attività guerriera di Arechi che intorno al 640 conquistò anche - preda ambita - Salerno. Con Salerno, il Ducato di Benevento risolveva un grande problema non solo politico, ma commerciale, potendo così sfruttare il solo porto della Campania sul quale era allora possibile contare. Le successive conquiste del duca Romoaldo estesero il dominio longobardo, con l'occupazione di Taranto e Brindisi, sulla penisola salentina e fu di questo periodo, la conversione definitiva degli invasori al cattolicesimo, abiurando essi l'arianesimo e le superstiti forme di idolatria connesse a riti barbarici, che daranno origine alla ben nota leggenda delle streghe. L'uniformità del culto apportò notevoli conseguenze, influendo con la sopravvenuta maggiore solidarietà tra vincitori e vinti e con i suoi riflessi economici fiscali, nell'ambito sociale. Nel 702 il Ducato di Benevento raggiungeva l'estremo confine nord delle sue conquiste, la storica linea del Garigliano. Gli avvenimenti che seguirono saranno ora particolarmente dominati da due grandi impulsi politici: da una parte la Chiesa che si oppone alle ulteriori espansioni dei Longobardi e dall'altra, lo stesso Ducato che mira a conservare la sua autonomia, difendendola dalle ingerenze del regno longobardo di Pavia. In questo conflitto giocano altri interessi: il Ducato di Spoleto, l'Impero bizantino che mira pur sempre alla riconquista dell'Italia e infine, i Franchi alleati della Chiesa. Fra alterne vicende, la pace raggiunta venne di nuovo rotta dal re di Pavia, Desiderio che, nell'estremo conflitto con i Franchi, venne definitivamente sconfitto (774). Fu allora che il duca di Benevento, Arechi II, che aveva sposato la figlia di Desiderio, Adelperga (sorella della più nota Ermengarda ripudiata da Carlo Magno) si eresse a rappresentante della "gens longobarda"; elevò Benevento a principato, mutò il berretto ducale nella corona, introdusse nella Corte carie e dignità bizantine, protesse gli studi e le arti. A lui si deve, fra l'altro, l'aver portato a termine la costruzione della celebre chiesa di S. Sofia in Benevento che arricchì di beni. E fu per volere di Adelperga che Paolo Diacono scrisse quella "Historia Romana", alla quale fece seguito la storia del popolo longobardo. Saggio politico, egli seppe destreggiarsi nella difficile situazione in cui era venuto a trovarsi il dominio longobardo meridionale, pur costretto al vassallaggio del potente re dei Franchi e futuro imperatore Carlo Magno. Vassallaggio che non impedì i suoi rapporti con l'Impero bizantino, non solo politici, ma commerciali. E sappiamo che dall'Oriente si importarono stoffe di porpora, tele tessute a ricami orientali, vasi di argento e d'oro cesellati e ornati di pietre preziose e così via. In Benevento in quel periodo non mancarono industrie: manufatti di ferro, di rame, di cuoio, di vimini, arte del legno e della creta lavorata. In fiore l'oreficeria fin dal IX secolo, se il principe Radelchi era solito visitare in Benevento le botteghe degli orafi, come ce ne fa certi il "Chronicon Salernitanum". Un altro cronista longobardo coevo, Erchemperto, non manca a sua volta di ricordare il florido mercato annonario del suo tempo ed è anche noto quanto il trattato dell'836 fra Napoli e Benevento essendo principe Sicardo, abbia favorito il commercio napoletano nell'ambito del Principato. Benevento, pertanto, mantiene ancora un certo primato nel campo economico e lo manterrà finché dura la sua espansione conquistatrice e finchè sorgono città rivali e concorrenti. Fra queste, Salerno che il suo porto rende già prospera e che sarà favorita anche dalle interne dissensioni che minano la capitale per l'irrequieto individualismo dell'aristocrazia, ambizioni di gastaldi, lotte per la successione al trono. Si arriverà fatalmente al frazionamento statale. Salerno si distacca da Benevento (849) e in seguito Capua: tre principati in lotta tra loro. Benevento va sempre più verso il suo declino. Nel''891 è assediata dai Greci e dopo un'aspra resistenza è costretta ad arrendersi mentre serpeggia per tutta la Campania la riscossa bizantina, dopo le conquiste di Niceforo Foca e l'imposto protettorato a Salerno. Il ricupero bizantino di Benevento fu contrassegnato da una dura e fiscale oppressione accompagnata da disastri tellurici, inondazioni e invasioni di locuste che devastarono larghi tratti di territorio. La reazione non tardò e Benevento aprì le sue porte a Guido IV, duca di Spoleto, e poi ad Atenolfo, conte di Capua che, unendo i due Stati (900), dette origine a una dinastia che doveva durare 177 anni. Tra quei dinasti, notevole figura, Pandolfo Capodiferro che riuscì ad unificare l'antico Principato longobardo; non duratura ricostruzione se, alla sua morte, esso venne nuovamente tripartito. Gli avvenimenti che seguirono sono aduggiati dal rinnovarsi di lotte disgregatrici, da nuovi tentativi bizantini, dall'ostilità o dalla ingerenza dell'Impero, dall'intervento dei Saraceni che, fra l'altro, fecero di Telese il centro delle loro scorrerie, raggiungendo nel Molise città notevoli, quali Venafro, Sepino, Isernia, Boiano e il celebre monastero di S. Vincenzo al Volturno. Il declino sociale ed economico della provincia non mancò. Vero contenuto di dignità e di fiera tradizione rimase nel solo capoluogo quando dové difendere la sua libertà dai sopraggiunti Normanni, che si inseriscono nel frammentarismo dell'Italia meridionale, elemento inizialmente disgregatore, ma unificatore in seguito e creatore della compattezza unitaria del Regno meridionale. E fu durante la lotta contro questi audaci e valorosi guerrieri, che Benevento, isolata e continuamente minacciata, si rivolse per aiuto e protezione alla Chiesa divenuta ostile ai violenti e sacrileghi conquistatori ed accolse fra le sue mura papa Leone IX dopo quella sconfitta di Civita, che già segnava la nascita del Regno di Napoli. Nel 1074 cadeva in combattimento contro gli odiati Normanni di Roberto Guiscardo, l'erede presuntivo al trono di Benevento, Pandolfo, e qualche anno dopo (1077) senza più eredi, moriva il padre Landolfo VI, che aveva già prestato omaggio al pontefice, il fiero Gregorio VII, al quale non sfuggi l'occasione propizia per insignorirsi di fatto della decaduta capitale longobarda. Finiva così, dopo cinque secoli di vita, la Longobardia meridionale. |
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BENEVENTO PONTIFICIA |
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I paesi che oggi costituiscono la provincia di Benevento, all'infuori del capoluogo, che rimarrà con alcuni villaggi non sempre pacifico possesso della Chiesa, vennero, col dominio normanno, assegnati alle varie contee, e iniziarono la loro vita nell'ambito unitario del nuovo Stato. Vasta contea fu quella di Ariano, che abbracciò il maggior numero di centri dell'attuale provincia di Benevento; la seguirono in ordine decrescente, le contee di Civitate (Capitanata), di Caserta, di Molise e di Boiano. Tocco (oggi Tocco Caudio) che aveva valorosamente sostenuto nel 1135 l'assalto dello stesso re Ruggero II, divenne città regia e sede vescovile; altri Comuni ebbero particolari infeudazioni. La pressione fiscale normanna gravò in un primo tempo sui possessi privati beneventani situati nel Regno e continui furono i conflitti con i confinanti baroni che tentavano di usurpare il già limitato territorio pontificio pontificio, il quale finì per avere con i suoi pochi casali, una circonferenza di 36 miglia e una superficie di 40 mila moggi. Ce ne rende consapevole il (Chronicon) del notaio beneventano Falcone. Ma la Città, anche se priva del suo prestigio di capitale, non ebbe il tramonto della sua storia. Fin dagli inizi della dominazione della Chiesa, la sua orgogliosa autonomia l'aveva resa ribelle al nuovo regime e non rari tumulti e sanguinose violenze contro i rettori pontifici sono ricordati dagli annali del tempo. Sullo scorcio del XII secolo già un vivo risveglio si annunziava nel campo della cultura e dell'arte, in quello giuridico e sociale (gli Statuti cittadini ebbero la loro sanzione nel 1202), espressione non solamente di quel movimento di rinascita che si diffonde in tutta la Penisola, ma di risveglio operoso di una popolazione che si affranca col suo lavoro dall'immobilitàeconomica che aveva contrassegnato il suo recente passato. Non mancano, pertanto, sicuri indizi di questa sua attività. La colonia ebraica che sembra abbia avuta stabile esistenza in Benevento nel secolo IX, dà esperti tessitori e tintori di stoffe e prosperano pur sempre le botteghe degli Amalfitani. I Picalotti di Amalfi che in Napoli avevano con gli Scalensi e i Ravellensi la loro "ruga", ebbero in Benevento i loro rappresentanti che nel 1186 chiesero e ottennero da Urbano III, richiamandosi alle precedenti concessioni di Lucio III, privilegi di foro e di traffico. E furono gli Amalfitani ad apprestare, quando in Benevento venne papa Callisto II (1120), vesti di seta, drappi preziosi e turiboli d'oro che nel fastoso corteggio spandevano soavi profumi orientali. Particolari privilegi godevano anche i "mercatores" di Benevento. Nel 1119, in un sinodo provinciale, l'arcivescovo di Benevento, Landolfo, sanciva la scomunica per coloro che impedivano il traffico dei mercanti. Disposizioni di Alessandro III (1169) vennero incontro ai forestieri, togliendo ad essi l'impedimento di testare quando privi di atto di ultima volontà fossero colpiti da malattia mortale. Nel 1255 Alessandro IV durante la successione di Federico II di Svevia, farà nuove concessioni ai beneventani che si dedicavano al commercio, consentendo loro di trafficare liberamente e dovunque nel Regno di Napoli, senza essere assoggettati a dazio o gravezza alcuna. E si sa che dopo l'occupazione della Città da parte dell'Imperatore (1241) e, in seguito, di Manfredi di Svevia, scambi commerciali soprattutto di grano, vennero praticati con la Puglia e con Venezia. Ma fu dopo la battaglia di Benevento (1266) che la Città ebbe la sua seconda rifioritura economica dai tempi di Traiano. I danni causati dalle bestiali violenze e dallo scempio del saccheggio operato dalle vittoriose milizie francesi di Carlo d'Angiò nella città pontificia, vennero, sia pure indirettamente e per finì esclusivamente politici, mitigati dal re angioino, quando, pur continuando a favorire Venezia per i suoi ambiziosi disegni in Oriente, aprì e agevolò il traffico nell'Italia meridionale ai banchieri e ai mercanti della Toscana dove, come capo del partito guelfo, la sua autorità era dominatrice. Sappiamo, pertanto, che trafficanti in buona parte fiorentini, sostarono a Benevento pur sempre favorita dalla sua situazione topografica, anche quando lo stesso Carlo d'Angiò fece aprire una strada per Ariano ed Avellino per deviare il traffico e così isolare la città pontificia. Sullo scorcio del 1200, rappresentanti di note società mercantili come quella dei Bardi e dei Bonaccorsi, ebberò stabile sede nella città e vi fu certamente anche Matteo Villani "mercator et socius de societate Bonaccursorum de Florentia", come da un documento del tempo. I mercanti "tuscani" si dedicarono non solo all'industria e al commercio della lana e dei tessuti, ma anche all'incetta e all'esportazione del grano. Artigiani non solo beneventani, ma anche delle vicine province, affluirono a Benevento che ben presto mutò il suo aspetto favorendo l'ascensione sociale di una borghesia mercantile che se forestiera, ottenuta la cittadinanza, prese stabile dimora nella Città, dove acquistò beni e strinse rapporti di parentela con le antiche famiglie locali. Con l'industria della lana e dei tessuti, che dette un notevole contributo alla specializzazione, continuavano nel XIV secolo le industrie locali di cui si è fatto cenno e fiorente in questo periodo, anche quella del cuoio. A questa attività manifatturiera e mercantile, si accompagnava quella professionale che i documenti del tempo ci rivelano notevole e che contribuì anch'essa a trasformare la compagine sociale: medici, "speciales" - e fra i medici anche una donna - notai (fra questi "Falcus notarius et scriba Sacri Palatii Beneventani", autore del menzionato "Chronicon"), giudici, "iurati". Fra i giudici, il celebre Roffredo Epifanio, già professore nell'università di Bologna e consigliere di Federico II di Svevia. Non sorprende, pertanto, se questa così attiva classe sociale, richiedesse nuove "libertà" che non fossero quelle sancite dall'ormai secolare ordinamento dei suoi Statuti e si opponesse sempre più fermamente all'autorità sovente arbitraria e fiscale dei Rettori pontifici, rappresentanti di un governo lontano e che, perché tale, poteva apparire estraneo al rinnovarsi consapevole della vita sociale. Ma i tentativi erano stati frustrati da Matino IV e il suo drastico provvedimento, che abolì, di rimando, la magistratura consolare, accrebbe il malcontento che nel 1316 sfociò in un grave tumulto. L'erezione del Castrum iniziata per volere di Giovanni XXII cinque anni dopo, fu dettata appunto dalla considerazione di dare una sicura dimora ai Rettori pontificii e difenderli in tal modo dalla "superbia" dei cittadini. Quel castello - oggi chiamato Rocca dei Rettori - fu testimone di notevoli eventi e non poche volte riflesse quanto avveniva nel Regno, in un periodo oltremodo burrascoso che principia con l'assassinio di Andrea d'Ungheria, marito di Giovanna I d'Angiò, e l'arrivo in Benevento e nel Regno del fratello del defunto re, Ludovico, la cui presenza non mancò di apportare danni alla Città e alla Provincia: un quartiere di Benevento fu incendiato e il 7 settembre 1348, Apice, assediata dalle forze del secondo marito di Giovanni, Luigi di Taranto, venne saccheggiata e data alle fiamme, mentre dal canto loro gli Ungheresi saccheggiavano Arpaia nella loro marcia verso Napoli. Il malandrinaggio endemico del Regno, raggiungeva, intanto, il suo culmine, favorito dagli stessi feudatari dei dintorni - fra essi il conte di S. Angelo dei Lombardi, Giovanni Nicola de Jonville - e finanche da qualche abate feudatario. Si profilava una delle più gravi crisi della Chiesa, quello scisma di Occidente che vide il Regno di Sicilia favorevole all'antipapa Clemente VII. Benevento che in questo periodo (1378) si era mostrata ostile al legittimo pontefice Urbano VI, fu governata da funzionari angiomi che non mancarono di fare le loro vendette contro gli avversari dell'antipapa ed espulsero l'arcivescovo Ugone Guidardi. Con le lotte che poi imperverseranno fra i pretendenti al trono di Sicilia, durazzeschi e angioini, non senza gravi ripercussioni nella città pontificia, con l'avvicendarsi di instabili governi e domini, con la distruzione di beni e l'anemia degli esili, si chiude in Benevento il XIV secolo e con esso la florida vita economica di un cinquantennio. Nella Provincia assistiamo all'esodo di abitanti per sfuggire non solo ai pericoli delle guerre, ma anche alle gravezze fiscali: terre divenute vacue e incolte, decadenza di feudi, malaria e desolazione un po' dovunque. Telese vide discendere la sua popolazione, che aveva raggiunto circa trecento famiglie, a soli sedici abitanti, "propter intemperiem aeris... et pestes alias subsecutas". Nel 1400 Benevento e la sua provincia attraversarono nuove vicende nella lotta impegnatasi tra il re di Napoli, Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona che, occupata la città (1440), ne ottenne da Eugenio IV il vicariato. Col successore di Alfonso, Ferrante I, altra guerra contro il pretendente Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, e in Benevento, provocati dai fautori angiomi, torbidi che si mutarono in vere lotte civili (fazioni della "rosa rossa e della rosa bianca"; "parte di sopra e di bascio"). Il 13 agosto 1482, una congiura favoriva, sia pure per breve tempo, la "capitolazione" della Città nelle mani di Ferrante che non mancò di concedere ai cittadini privilegi e grazie. La ribellione della città dell'Aquila (1485), incitata per convulso spirito di conquista da Innocenzo VIII, e le sue trame con i baroni del Regno, trascinarono il pontefice a una sconsigliata guerra contro Ferrante, che pur si ripercosse nella Città e nella sua provincia. Non vi era più pace nell'Italia meridionale. L'avvento al trono di Carlo VIII (1483) aveva infatti dato nuovo impulso alle pretese francesi sul Regno. Il 3 settembre 1494 quel re varcava il confine franco-savoiardo ; il 31 dicembre giungeva a Roma e di là moveva su Napoli che gli aprì le porte. Alfonso II d'Aragona abdicò al trono e il figlio Ferrandino passo ben presto alla vittoriosa riscossa durante la quale egli disperse in Benevento la fazione favorevole ai francesi. E questa, ingrossate le schiere di uno dei fautori di Carlo VIII, Antonello Sanseverino principe di Salerno, assalì e devastò Apice; gravi danni alle sue fabbriche di cuoio ebbe poi a soffrire Guardia Sanframondi. Morto precocemente Ferrandino e successo a lui lo zio Federico, questi non mancò, concedendo esenzioni fiscali, di venire incontro al desolato paese impoverito di abitanti per numerosi fuggiaschi. Danni ebbero pure Morcone e Cusano Mutri dove esistevano fabbriche di pannilana e così Cerretto Sannita che aveva esperti tintori fin dal periodo romano, come si rileva da un'iscrizione del tempo. Le conseguenze del patto di Granata tra il re di Francia Luigi XII e Ferdinando il Cattolico (11 novembre 1500) sulla progettata spartizione del Regno di Napoli, sfiorarono ancora la vita economica di Benevento per il gran numero di rifugiati che vi accorsero. Ma l'episodio non alterò sostanzialmente il suo commercio granario che - al dire del suo governatore, il fiorentino Luca Maso degli Albizzi - conservò la sua stabilità, sì da poter fornire 400 tomoli di grano la settimana, purché "con lo denaio in mano". Non così favorevole lo spirito pubblico agitato dalle fazioni e dalla tracotanza ribelle dei nobili locali, uno dei quali, Ettore Sabariano, osò con una schiera di armati penetrare nel Castrum, assalire e uccidere il governatore, il ravennate Andreone degli Artusini. Poco dopo, altro nobile fuoruscito, Paolo Scantacerro, ardì a sua volta, con centoventi armati, scalare le mura della Città, uccidere, saccheggiare, per poi allontanarsi indisturbato. A questo e ad altri episodi del genere, posero freno meno i vari commissari apostolici che si susseguirono, e più esterni avvenimenti. Le conseguenze della Lega Santa contro Carlo V, Lega che aveva avuto tra i principali artefici Clemente VII, provocò l'arrivo in Benevento (1528) di settemila soldati spagnuoli, i quali - ci dice un contemporaneo - per due mesi "devoraverunt omnem substantiam, comedentes et bibentes gratis"; episodio che si rinnovò nel 1557 quando il viceré di Napoli, duca d'Alba, occupò la Città durante la guerra provocata dall'acceso antispagnolismo di Paolo IV Carafa contro Filippo II. Requisizioni, spogli, fusione di campane per farne pezzi di artiglieria, violenze private, ne scaturirono. L'odio antispagnolo finì col dominare la Città se un suo governatore, Traiano Boccalini, poté (1597) capeggiare una massa tumultuante per una spedizione di rappresaglia contro un nobile regnicolo possessore di beni ai confini del territorio beneventano. Col viceregno spagnuolo dovevano, pertanto, avere inizio i primi gravi dissidi e i primi gravi ostacoli all'attività commerciale della città pontificia. Da tempo immemorabile, afferma il Borgia nelle sue "Memorie istoriche della pontificia città di Benevento", Napoli ritraeva da quest'ultima notevoli vantaggi, "poiché i grani comprati m Puglia e altrove, si riducevano in farina in Benevento dove, per la copia dei mulini posti sulle sue acque perenni dei fiumi Sabato e Calore, venivano con ogni presenza macinati". Ma i viceré mossi sovente da ragioni politiche, accusavano i mercanti beneventani di monopolizzare il grano delle più fertili contrade del Regno e specialmente della Puglia e del Valfortore e di dominare in tal modo il mercato di Napoli. Controversia che negli anni di scarso raccolto o di carestia, dava origine a drastici bandi che colpivano ogni attività che colpivano ogni attività economica della Città, alla quale non solo era vietato di incettare e commerciare il grano, ma di ricevere materie prime dal Regno, con conseguenze facili a prevedersi, senza contare il danno che veniva causato alla Dogana pontificia. Si giunse perfino non solo a trarre in arresto, ma sottoporre a tortura i pertinati trafficanti di Benevento. Il governo pontificio si difendeva comminando aspre censure che solennemente venivano lette e affisse in piazza S. Pietro e in piazza Campo dei fiori in Roma e "ad valvas seu portas Cathedralis Beneventi". Poi intervenivano il Nunzio Apostolico in Napoli, gli approcci diplomatici, le deferenti giustificazioni formali del viceré e, infine, l'assoluzione dalle censure inflitte non al viceré, ma ai malcapitati funzionari che, avendo eseguiti i suoi ordini, erano costretti a recarsi a Roma "ad pedes". E va detto infine, anticipando i tempi, che l'annoso contrasto che ebbe nel secolo XVIII come protagonista il benemerito arcivescovo Vincenzo Maria Orsini, poi papa Benedetto XIII, strenuo difensore degli interessi della Città, durò anche se attenuato, sino al 1853. Quell'anno, Ferdinando II Borbone, proibì l'esportazione all'estero dei grani, delle avene e degli orzi, ed estero era considerato il Ducato di Benevento. Il dissidio che ne scaturì si concluse con un'intesa: si permise l'esportazione, ma a condizione che il Governo pontificio non esigesse dazi sul commercio del Regno. Fu l'ultimo episodio del plurisecolare contrasto commerciale fra Napoli e Benevento. La relativa pace che discese sulla Città e sulla sua provincia all'alba del 1600, permise a Benevento una ripresa della sua vita cittadina: sorse il palazzo del Comune, nuovi edifici e strade accrebbero il decoro della città e non mancò un certo incremento agricolo. Interruppe questa ascesa, la pestilenza del 1630, le conseguenze dell'eruzione vesuviana che apportò gravi danni alle campagne e soprattutto quella rivoluzione, detta di Masaniello (1647), che dilagò nella provincia, dove violenze, saccheggi popolari e vendette baronali si avvicendarono, colpendo particolarmente Montesarchio, Buonalbergo, Reino, Guardia Sanframondi, Castelvetere Valfortore, S. Marco dei Cavoti, mentre Benevento era continuamente minacciata dagli insorti e pressata perché alimentasse con le sue scorte granarie l'affamato popolo di Napoli. La dura situazione economica che ne derivò, fu accresciuta dalla nuova, paurosa pestilenza del 1656, che ridusse a soli 3628 abitanti la popolazione che prima del contagio ne contava 14 mila e alla quale seguì il disastroso terremoto del 1688 e l'altro del 1702, che abbatterono gran parte della Città e "spianarono" Fragreto l'Abate, Apice, Castelpoto, Paduli, Pontelandolfo, Reino, Tocco e Vitulano. Cronache contemporanee narrano la desolazione del capoluogo e della provincia: cessazione di ogni commercio, terre lasciate incolte per mancanza di braccia, paurosa miseria. Lunga fu la convalescenza della rinascita (a questa contribuì l'opera insonne dell'arciversco Orsini) agevolata dalla tranquillità bellica, anche se il nuovo Regno di Napoli, fondato da Carlo di Borbone, non fece cessare le tradizionali contese di carattere economico e giurisdizionale col possesso pontificio. Una sommossa popolare si ebbe nel 1741 causata dalla carestia e la Città per tre mesi fu in balia dei "lazzari" locali, debellati infine, dal prudente e abile atteggiamento del governatore del tempo, quell'Ottavio Antonio Bayardi, noto per il ponderoso "Prodromo delle antichità di Ercolano ". La lotta anticurialista ingaggiata contro Clemente XIII dalle regnanti Case borboniche di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli, lotta che si doveva concludere con la soppressione della Compagnia di Gesù (1773), portò nel 1768 all'occupazione di Benevento da parte delle truppe di Ferdinando IV Borbone. La Città vide allora rinnovarsi se non la vita economica (la coltivazione del tabacco divenne regalia del Sovrano), la sua vita politica, con l'abolizione di medievali privilegi, col riordinamento di leggi amministrative e fiscali, repressione energica del malandrinaggio, più imparziale giustizia, un certo incremento della pubblica istruzione. In seguito, Ferdinando IV ordinò la costruzione di una nuova strada che da Napoli passava per Benevento e che fece parte di quel complesso viario che agevolò il cammino verso la Puglia, la Basilicata e la Calabria. Con prammatica del 22 luglio 1778, venne iniziata la grande strada rotabile che da Napoli e da Maddaloni, attraversando nell'attuale provincia di Benevento, Solopaca, Guardia Sanframondi, Pontelandolfo, Morcone, raggiungeva nel Molise Sepino e Campobasso. Ma il lungo periodo di tempo che fu necessario per portarla a compimento, dovuto anche all'opposizione di qualche barone che vedeva lesi i suoi diritti di pedaggio, allontanò per circa un quarantennio, fino alla tappa di Campobasso (1820), i vantaggi del traffico. Decadevano, intanto, le industrie del cuoio in Guardia Sanframondi. Il fondaco di Foggia dove affluiva specialmente il cuoiame della Dalmazia e dell'Albania, si chiudeva nel 1735 perché non più redditizio. Quella del cuoio era stata una delle poche industrie della Provincia e il nome della Città era così accreditato che nei documenti è sovente menzionata come "Guardia delle sole" e menzionata ancora per i suoi "Capitoli sulle industrie" col caratteristico dazio sulla mortella necessaria alla concia delle pelli. Anche in Guardia Sanframondi vi erano ostilità e rapacità baronali e fiscalismo dello stesso Comune in lotta col ceto dei mercanti, che difendeva ad oltranza l'impiego dei suoi capitali sia dalle esigenze feudali che da quelle cittadine. Ma fu soprattutto la concorrenza delle fabbriche di Maddaloni sugli inizi del secolo XIX che portò alla progressiva estinzione di un'industria che nel 1623 aveva creato un Monte di Pietà governato dalle stesse leggi dell'omonimo Monte di Napoli, un'industria che nel suo più florido periodo di vita, contava 37 concerie e centinaia di addetti alla lavorazione. La stessa decadenza per Cerreto Sannita che aveva - e certamente fin dal 1500 - lanifici, gualchiere, tintorie, sui quali sappiamo che il feudatario del tempo, Giovanni Tommaso Carafa, pretendeva lo "ius" proibitivo. A questa Industria partecipava non solo il ceto dei mercanti vero e proprio, ma anche quello dei professionisti, avvocati, medici, notai. Industrie sussidiarie erano anche in fiore: forbici, per la tosatura e per la cimatura, "scarde" per pettinare la lana, conocchie e fusi per il lavoro femminile. La prepotenza feudale provocò nel XVIII secolo brutali episodi da parte dei così detti mazzieri" o "flagellanti", specie di bravi assoldati dal barone contro il ceto dei mercanti che difendevano la libertà della loro arte e con essa i loro averi. Liti rovinose iniziarono la decadenza dell'industria. I panni che si esportavano specialmente nella Campania, in Capitanata, in Puglia, nel Molise, in Abruzzo, nel Lazio, cominciarono a perdere i pregi che li caratterizzavano; la vendita cominciò a contrarsi, mentre le leggi sull'affrancazione e la censuazione del Tavoliere di Puglia, facevano diminuire il numero degli armenti e quindi la materia prima. Antichissima era la tradizione della pastorizia in Cerreto Sannita e sappiamo che "padronali di pecore" possedevano nel XVI secolo finanche seimila capi di ovini e numerose giumente si da non trovare sufficienti spazi per i pascoli. Alle rovinose epidemie di bestiame del 1744, 1763, 1766 e 1768, si aggiusero altre cause che influirono sulla decadenza dell'industria locale: la mancata sosta viatoria in Cerreto, dopo la costruzione della consolare Sannitica alla quale si è accennato, ma anche qui, la concorrenza di lanifici sorti nel centro e nel nord della Penisola, con moderni mezzi e quindi più proficui nella confezione della stoffa, nei suoi pregi e nel minore prezzo. La decadenza colpiva anche altre località della provincia di assai minore produzione: Morcone, Cusano Mutri, S. Lorenzo Maggiore. Anche la ceramica cerretese che con i Giustiniani e il Marchitto produsse nel 1600 e nel 1700 noti e apprezzati esemplari (vedi le raccolte del Museo Provinciale di Benevento e la raccolta Biondi), abbandonò il suo centro di produzione nel 1760, quando Nicola Giustiniani volle introdurre in Napoli quella sua fabbrica che fece fortuna se nel 1833 contava ancora undici Officine con sessanta maestri e centoventi aiutanti. Ma nel 1847 l'industria gravata da un debito di 12 mila ducati, contraeva i suoi prodotti e una supplica rivolta a Ferdinando II Borbone non ebbe esito alcuno. Quando in Francia da tempo era vittoriosa la Rivoluzione, in Benevento e nella sua provincia statica e inerte poteva apparire la vita sociale, anche se a tratti smossa dagli avvenimenti incalzanti d'Oltralpe. Persisteva l'inveterata piaga dei "fidati", cioè coloro che si rifugiavano nel capoluogo per motivi politici e per i più frequenti reati comuni, protetti dall'immunità ecclesiastica, difesa energicamente da Roma. Vecchio male, che nel 1733 dettò a Bartolomeo Intieri un'aspra pagina su Benevento. Dopo la parentesi borbonica, divisa ritornò 1'amministrazione della giustizia tra il Foro ordinario retto dal Vicario temporale del Governatore e i Fori speciali della Curia arcivescovile, dell'Ordine gerosolimitano, dell'abate di S. Sofia e infine, del Comune per determinati reati. Esenti dal foro ordinario, privilegiate categorie: militari, ecclesiastici, patentati di abbazie e di feudi. Corrotta la sbirraglia e corrotti sovente i pubblici funzionari, indebitata anche se non sempre colpevole l'amministrazione civica soggetta a continue inchieste, insufficienti per l'accresciuta popolazione le limitate risorse della Città. Il tentativo di Benedetto XIII (1727) di alleviare la crescente disoccupazione introducendo in Benevento la antica arte della lana e con essa, quella della seta, naufragò del tutto col venir meno dei mezzi previsti. Peggiore la vita di buon numero di quelle università oggi nell'ambito della provincia: gravezze ordinarie e straordinarie, privilegi e arbitrii di signori, asservimento della giustizia, angarie e perangarie baronali, lotte impari anche se tenaci contro le pretese feudali. In s. Leucio del Sannio, di giurisdizione pontificia, gli abitanti esasperati dalla miseria, minacciano di abbandonare il paese e di emigrare nel Regno; uguale minaccia da parte degli abitanti di Guardia Sanframondi per protesta contro le esose esazioni baronali; violenze bestiali in Cerreto Sannita da parte del feudatario per avere i cittadini in un pubblico parlamento deliberata un'azione legale contro le sue pretese. Azioni legali che spesso assumono il carattere di ultima difesa della popolazione ridotta all'estremo delle sue risorse, in Tocco Caudio, Cusano Mutri, S. Croce del Sannio, Baselice, S. Agata dei Goti e così via, mentre in Fragneto l'Abate, feudo della Badia di S. Sofia, il popolo esasperato assale l'abitazione del governatore che a stento scampa all'eccidio. Anche se allo scoppiare della Rivoluzione francese mancò una coscienza locale innovatrice che troviamo soltanto in un assai limitato gruppo di intellettuali e di operosi borghesi che avevano fino allora difeso sé, ma anche il popolo dai soprusi e dalle iniquità feudali, non mancò certo l'esasperato spirito pubblico contro un malgoverno autoritario e fiscale. Ma dopo la calata degli eserciti francesi in Italia, le idee e gli ideali della Francia cominciano ad affermarsi, dando vita a quel nucleo democratico che sarà il lievito da cui trarranno alimento aspirazioni e rivendicazioni cittadine sino al 1860: lotta ai residui privilegi nobiliari ed ecclesiastici, affermazioni antimunicipaliste e costituzionali e, infine, sentimento nazionale unitario. |
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BENEVENTO E IL REGNO DI NAPOLI |
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Dopo l'occupazione francese di Roma (10 febbraio 1798), Ferdinando IV Borbone ritenne necessario presidiare Benevento (19 aprile 1798) la cui "democratizzazione" poteva ben essere pericolosa alla sicurezza del Regno. Ma dopo l'effimero successo della spedizione di Roma, battuto il suo esercito dalla riscossa francese e costretto a rifugiarsi in Sicilia, la Città innalzò ben presto l'albero della libertà, governandosi con gli ordinamenti repubblicani (14 gennaio - 26 maggio 1799). Caduta tragicamente la Repubblica Napoletana, Benevento fu occupata dalle masse realiste. Un regio Visitatore iniziò ben presto le sue inquisizioni che si conclusero col carcere o con l'esilio del fiore dell'ingegno e dell'operosità locale: architetti, medici, avvocati, sacerdoti, uomini di lettere, di scienza. Reazione che non mancò nella provincia, specialmente nei quattro centri nevralgici per oppressione feudale o per attività cittadina: Cerreto Sannita, Guardia Sanframondi, Fragneto l'Abate e Pontelandolfo, Apice, Montesarchio, S. Agata dei Goti, Vitulano, Morcone, S. Nicola Manfredi soffrirono non solo l'inquisizione di Stato, ma la violenza di bande isolate composte da facinorosi componenti le disciolte masse sanfediste che gareggiarono nelle ruberie e nell'offesa all'onore. Benevento rioccupata da Ferdinando IV, ritornò nel pieno possesso della S. Sede nel 1802, ma quattro anni dopo, il 16 giugno 1806, divenuta gran feudo dell'Impero, veniva concessa da Napoleone a Carlo Maurizio Talleyrand, il quale mandò a governarla l'intelligente alsaziano Louis de Beer, benemerito nel campo dell'amministrazione, della giustizia e della pubblica istruzione da lui profondamente rinnovate. Dopo la prima caduta di Napoleone e la conclusa alleanza offensiva e difensiva con l'Austria, il nuovo re di Napoli, Gioacchino Murat, occupò a sua volta Benevento nel febbraio del 1814. E' noto il fervore innovatore del suo regno ed è noto l'interesse del Re per il problema agricolo, divenuto complesso dopo l'abolizione della Feudalità (2 agosto 1806) e le leggi di eversione e ripartizione delle terre demaniali. Tra le varie disposizioni emanate per conoscere le condizioni delle varie provincie sotto l'aspetto economico e sociale, è di basilare importanza l'inchiesta predisposta nel 1811 e che va sotto il nome di "Statistica del Regno di Napoli". Dai risultati di quella inchiesta e per ciò che riguarda la provincia di Benevento, possiamo constatare il grande abbandono in cui vivevano i centri urbani, specialmente quelli che nel 1861 saranno distaccati dal Molise: metodi antiquati di agricoltura, pigrizia di contadiname, incuria nell'incrementare e migliorare gli alberi fruttiferi, indolenza e negligenza negli stessi raccolti e così via. In Circello il frumento si raccoglieva "misto al lòglio, zizzania e veccia" e il pane, di conseguenza, era di qualità pessima anche per la mancata giusta fermentazione. In molti paesi, del resto, il pane di frumento era usato con parsimonia, sostituito dal frumentone o dal "mischio" (frumento e frumentone); diffuso l'uso della polenta condita soltanto col sale e a volte col mosto e con l'aceto, in sostituzione degli erbaggi quando questi difettavano o quando mancava l'olio per condirli. La carne raramente usata se non dai benestanti; i contadini la mangiavano soltanto nelle festività o quando l'animale moriva per cause accidentali e la carne era venduta a prezzi molto bassi; il pesce era quello dei torrenti e dei fiumi della zona (Fortore, Tammaro, Tammarecchia, ecc.). In generale le abitazioni terranee erano umide e malsane e nell'unica stanza era assai comune la promiscuità con le bestie (somaro, maiale, capra, polli). In Baselice, parte della popolazione viveva in grotte scavate nel tufo, soffrendone l'igiene e la sanità. L'illuminazione era affidata ad una lucerna ad olio e quando l'olio faceva difetto, al grasso liquefatto di maiale. L'abitato raramente aveva strade lastricate; del tutto o quasi del tutto trascurata la nettezza pubblica; immondezzai e rifiuti di animali davano mostra di sé nelle strade fangose e maleodoranti, anche perché le stalle venivano ripulite abitualmente una volta l'anno. Non tutti i comuni avevano i cimiteri e spesso nelle chiese dove i cadaveri venivano sepolti, l'aria era contaminata dal lezzo delle sepolture. Restie alcune popolazioni a praticare la vaccinazione antivaiolosa; in Pontelandolfo gli abitanti addirittura l'"aborrivano". Scarso o inesistente il commercio in un regime di quasi autarchia; si viveva dei propri prodotti, i vestiti erano ricavati dalla lana degli armenti della zona; in generale le donne avevano il loro telaio e le stoffe venivano fatte gualcare, sodare e tingere a Cerreto Sannita o a Morcone dove nel 1811 erano attivi due soli lanifici. Ma il panno colà prodotto era "grossolano e fatto in parte di lana maggiorina, mezza lana e cardatura e detto dal volgo pelucca, perché durava poco". L'inchiesta rilevava sovente l'indolenza dei cittadini, ma non si mancò di far notare che "la povertà ne abbatteva lo spirito". Troppe vicende erano passate su quei rozzi abituri che nel 1824 in una sua visita al Molise, l'erede al trono di Napoli, il futuro Francesco I Borbone, aveva definiti "orridi". Villaggi semi abbandonati - egli annotava in un suo diario - coloni che facevano pietà per lo stato deplorabile in cui erano per "ogni genere", case sporche rozzamente costruite e senza intanaco; strade disselciate, difficoltà di comunicazioni, mancanza di ponti, campagne bisognose di bonifica, forme primitive di agricoltura. Il tormentato Mezzogiorno aveva a lungo provate le devastazioni e le violenze della guerra e ad esse accompagnate, disastri tellurici ed epidemie, come si è avuto modo di accennare; troppi secoli di soggezione e di abusi feudali aveva patiti e non ancora poteva ritrovare in se stesso, dignità e operosità di esistenza. Ma il malcontento - si ripete - fermentava negli animi e quando dopo la torbida Restaurazione del 1815, che aveva richiamato il vecchio mondo borbonico, scoppiò e si dilatò rapido il moto del 1820, anche i diseredati dell'intera Provincia dettero il loro contributo alla causa della rivoluzione acconto a quella borghesia intellettuale e terriera la quale all'ideale di una libertà costituzionale, non scompagnava nell'attuazione dell'auspicato regime, una più sicura garanzia e una maggiore difesa dei propri beni. Questo fine che non solo non coincideva, ma contrastava con le aspirazioni della massa, si rivestì nel capoluogo di una sua particolare aspirazione, l'annessione della Città pontificia al Regno costituzionale di Napoli, unione che avrebbe apportato libertà economica, partecipazione a un più largo tenore di vita, più respiro sociale, sollievo alla incalzante miseria. La rivoluzione di Benevento del 5 luglio 1820 ebbe questo programma e lo mantenne con coraggio e fede anche quando, per evitare complicazioni diplomatiche e quindi - ma vanamente - l'intervento austriaco, il Parlamento Napoletano si rifiutò di accogliere l'istanza dei beneventani che quell'annessione chiedevano. La Santa Alleanza stroncava la rivoluzione napoletana in quel marzo del 1821 e se la reazione borbonica non fu sanguinosa come nel 1799, migliaia di esuli si sparsero un po' dovunque, nello Stato Pontificio, in Francia, nella Spagna, in Inghilterra, in Tunisia, in Grecia, a Malta, a Corfù, in Egitto, spettacolo miserando, mentre per i più compromessi si riempivano gli ergastoli e si popolavano le isole di relegazione, Ponza, Ustica, Pantelleria, senza contare un numero imprecisato di destituiti dai pubblici uffici. Quarantasei comuni dell'attuale provincia di Benevento, furono maggiormente colpiti e centri nevralgici furono Montesarchio, Paduli, S. Giorgio la Molari e S. Marco dei Cavoti. In Benevento la reazione papale fu assai mite, ma non fece anche questa volta, diminuire il fermento popolare sorretto pur sempre dal disagio economico che si appesantiva sempre più sull'isolata Città pontificia. Il male epidemico della fame, come lo definì in quel tempo il cardinale segretario di Stato, Tommaso Bernetti, era davvero tale in Benevento dove su 17 mila abitanti ben settemila languivano nella miseria, come da rapporto ufficiale. Altre cause di malessere furono in seguito, le convenzioni fra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, "per cui vennero cedute le regalie dei sali e tabacchi, dei nitri e delle polveri, nonché la tassa sulla Posta" privando la città soprattutto, di una sua industria, la libera coltivazione e la concia del tabacco. Non restava a Benevento che la diminuita senseria e macinazione del grano e il trasporto della farina nel Regno e una anche limitata esportazione di ortaggi non certo compensata dall'importazione anche di generi di prima necessità. Ben quattrocento famiglie, ogni anno, emigravano in Puglia per la mietitura. Non sorprende, pertanto, l'oculata vigilanza della polizia papale e borbonica sull'irrequieto Ducato, né il sorgere di nuove sette e fra esse, quella dei "Liberali decisi" con programma repubblicano, organizzata in Benevento da Gennaro Lopez di Baselice e neppure sorprendono le misure prese da quella Delegazione Apostolica nel 1830 in seguito alla caduta di Carlo X e il sorgere in Francia di una monarchia costituzionale e liberale con Luigi Filippo d'Orléans. Gli avvenimenti europei e in particolare dell'Italia centrale, dovevano aumentare la "baldanza" dei novatori e preoccupare per conseguenza, la nobiltà e i benestanti locali che ora, in antitesi ai motivi rivoluzionari del 1820, appaiono timorosi della "dilagante anarchia". Ma il 1830 passò senza gravi turbamenti. Benevento non agi e le mancò il modo, legata come era all'atteggiamento politico di Napoli dove erano state stroncate l'insurrezione carbonara in Abruzzo e l'inane sommossa di Palermo. Nel 1840 il Governo napoletano dava un nuovo giro di vite al commercio della Città, obbligando i beneventani a munirsi del "visto" napoletano sulle "carte di passaggio" non senza pagamento della relativa tassa, per poter entrare e uscire dal Regno, vero provvedimento di rappresaglia dopo il naufragio delle trattative iniziate nel 1838 per il concambio di Benevento con altro territorio napoletano al confine. L'episodio ha un certo interesse perché tra i protagonisti che si adoperarono a mantenere integro il possesso pontificio, vi fu il Delegato apostolico di Benevento, Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII. Sullo scorcio del 1847, edito in Roma, vedeva la luce un opuscolo dettato da Carlo Torre che nel 1860 sarà governatore della Provincia, poi prefetto e infine, senatore del Regno d'Italia. In esso, il Torre si faceva coraggioso espositore dei bisogni della Città ridotta - egli scriveva - "all'estremo limite della miseria", denunziava la corruttela della giustizia, la deficiente istruzione pubblica, la depauperata agricoltura, il languente commercio ostacolato dal vicino Regno e, infine, i residui feudali della civica amministrazione a capo della quale permaneva il ceto nobile decaduto nelle fortune e incapace di esprimere un'attività rinnovatrice. Concludeva: "Benevento è parte del Reame di Napoli: usi, costumi, dialetto, moneta, pesi, tutto ha comune con esso; la natura stessa ha designato le sue linee stradali... La storia l'ha sentenziata all'isolamento, mentre è parte di un altro tutto...". Voce non isolata, se sullo scorcio di quell'anno, il Delegato Apostolico informando Roma, delle continue ostilità del Regno intese ad isolare sempre più la città pontificia, non mancava di segnalare la propensione ad un'unione con Napoli e il discredito in cui era caduto il Governo, foriero di turbamenti politici. Non si sbagliava. Trame settarie si erano già intessute col Comitato ultra liberale di Napoli e riunioni settarie si tenevano nella città, fingendo "conversazioni" e alle quali partecipavano accesi esponenti democratici, quali Giovanni Andrea Romeo, che dovrà capitanare il moto insurrezionale di Reggio Calabria e Giuseppe Dardano che la magistratura borbonica dovrà definire "nello studio dei sovvertimenti a niuno secondo". Il programma "unionista" ritornava fondamentale in quel circolo politico i cui aderenti con l'appellativo spagnuolo di "progressisti" si prefiggevano inoltre, "opposizione alla reazione governativa e progresso delle libertà civili e politiche ". A ravvivare l'atmosfera di facili entusiasmi caratteristica del 1848, sopraggiunsero i primi avvenimenti politici del Regno e il crescente entusiasmo per PioIX "redentore d'Italia", si da indurre un altero patrizio beneventano, ma anche di nobili e generosi sentimenti, Salvatore Sabariani, a organizzare una sommossa con programma unionista che doveva scoppiare la domenica delle Palme del 1848. Ma la notte del 15 aprile, la polizia pontificia assaliva la sua abitazione e il Sabariani dopo una disperata resistenza si arrese. Seguì un convulso periodo di agitazioni fra moderati e progressisti, lotte disgregatrici interrotte dall'appello per la prima guerra di indipendenza alla quale Benevento partecipò con i suoi volontari e fra essi quel Federico Torre (1815-1892), umanista, storico, militare insigne e benemerito nell'eroica difesa di Vicenza. Le delusioni politiche si fecero ben presto sentire con l'allocuzione pontificia del 29 aprile 1848 e col successivo armistizio di Salasco e infine con la cupa conclusione della prima fase della guerra e le incomposte agitazioni di Roma. E queste non mancarono di influire sullo spirito pubblico in Benevento dove la popolazione viveva sfiduciata per la situazione economica rimasta immutata, per la mancata soluzione dei più urgenti problemi cittadini, per l'insorgere del brigantaggio, che si fece sentire nelle campagne, sfiducia che si aggravò con l'epilogo della guerra. Il 9 febbraio 1849 Roma aveva proclamata la decadenza della S. Sede e richiamata in vita la Repubblica Romana. Il governo borbonico chiuse allora con le sue truppe la linea di confine del territorio beneventano spezzando ogni contatto con Roma e soffocando ogni residuo di attività cittadina. Il 6 luglio di quell'anno, giungeva nella Città il generale pontificio Carlo Zucchi e scioglieva - ultimo simbolo di libertà - la guardia civica ripristinando ordine e istituzioni del passato, non senza suscitare malumori e proteste. Malumore che parve dileguarsi, quando il 1 novembre 1849 da Portici, Pio IX volle recarsi a Benevento, accolto - afferma un contemporaneo - festosamente. Ma, dileguato l'entusiasmo popolare, più aspre e incontenibili si rivelarono le "miserrime" condizioni della Città. Dallo scorcio del 1849, una dura reazione si era fatta sentire nel Regno di Napoli e pertanto, nell'attuale provincia di Benevento. Nel 1851 il processo dell'"Unità d'Italia" si era chiuso con la condanna all'ergastolo, fra gli altri, di Nicola Nisco da S. Giorgio del Sannio, fervente patriota e storiografo, e di Felice Barilla di Moiano e l'altro di Montesarchio aveva colpiti ben 69 liberali e fra essi Nicola Palomba epigoro di un'eroica famiglia di liberali. Ma le trame settarie non disanimate dalla repressione, si riannodavano e ad esse non mancò di partecipare la Città, anche se emissari borbonici ne spiavano e riferivano gli andamenti. Grande fervore spiegò fin dal 1857 Giuseppe Demarco da Paupisi, nella Valle Caudina, ascrivendo al "Comitato dell'Ordine" numerosi patrioti e creando ben 24 centri insurrezionali nelle provincie di Benevento, Avellino, Caserta e Campobasso. Sullo scorcio del 1858 il beneventano mazziniano e difensore di Roma nel 1849, Salvatore Rampone, insofferente di indugi, costituiva nella Delegazione di Benevento quel Comitato d'Azione che porterà al trionfo la causa della rivoluzione. Presi accordi col Demarco, la legione dei "Cacciatori Irpini" da questi organizzata, entrava in azione il 2 settembre 1860 e dopo avere abbattuti gli stemmi borbonici in Paupisi e Torrecuso, marciava su Benevento dove per opera del Rampone e di Domenico Mutarelli, era già in efficienza una "Compagnia Beneventana" alla quale si unirono anche i disertori della locale guarnigione papale. Il 3 settembre, l'ultimo Delegato Apostolico lasciava la sua residenza, quel Castrum eretto da Giovanni XXII "contra superbiam Beneventanorum". Finiva così, dopo otto secoli, la contrastata dominazione pontificia di Benevento. |
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BENEVENTO PROVINCIA ITALIANA |
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La Provincia - si è accennato - partecipò non senza fervore agli ideali politici a mano a mano divenuti nazionali unitari. NeI 1848 da Montesarchio un appello del liberale Nicola Palomba, già ricordato, aveva proclamato - anticipando le aspirazioni unitarie del Piemonte - l'unione della grande famiglia italiana in un solo Stato. Dopo la reazione borbonica del 15 maggio, da S. Giorgio del Sannio, Nicola Nisco volle organizzare una marcia su Napoli per ridare al popolo la "conculcata libertà" e la Valle Caudina accorse al suo appello. Fu il Vitulanese, come si è detto, il centro della riscossa e i "Cacciatori Irpini" cooperarono all'unificazione nazionale anche sedando le reazioni borboniche nella Provincia di Principato Ultra. In seguito altre reazioni non mancarono, manifestazioni pur sempre del faticoso consolidarsi dell'unità nazionale, ritardata anche dal brigantaggio, complesso fenomeno politico-sociale che imperversò nella Provincia fin dal luglio 1861 e portò ai dolorosi episodi di Pontelandolfo e Casalduni (7-14 agosto 1861) dove la reazione filo borbonica trucidò bestialmente 45 militari piemontesi e dove la rappresaglia del generale Cialdini non fu meno spietata. Nel 1863, pacificati gli animi, la Provincia doveva iniziare la sua ricostruzione, affrontando gravi ed annosi problemi. Questi non furono certo trascurati, ma molte e complesse erano le difficoltà e complesse sono ancora oggi a un secolo di distanza [siamo nel 1968 e questa affermazione è valida ancora oggi nel 2000], se si considera che un paese (Tocco Caudio) posto in bilico su un masso tufaceo continuamente corroso, attende il suo crollo; se qualche altro, accoglie in grotte e pagliai i suoi abitanti come rilevò fin dal 1811 l'inchiesta murattiana e se infine, si considera l'abbandono continuo della terra, l'emigrazione, l'analfabetisno, la miseria - per tacere d'altro - secolare retaggio di un lontano, duro passato. Duro passato che non ha però mutato l'originario stampo della popolazione la quale ha sempre saputo risorgere da sé, bene o male, dai danni sofferti, dignitosa e fiera pur sempre nella sua povertà, nei suoi sacrifici, nelle sue idealità nazionali e che chiede solo che provvide leggi la mettano sulla via del suo sicuro divenire. Fra gli annosi problemi della nuova Provincia, quello dell'istruzione pubblica fu subito affrontato con l'apertura delle prime scuole primarie e anche di scuole serali per gli operai e gli artigiani (1862). Un coraggioso "sventramento" abbatté decrepite case della via principale del capoluogo rettificandola dove fu possibile. Venne creato un cimitero, usandosi ancora seppellire i defunti nelle chiese e curata l'igiene pubblica. Nel 1866 si iniziava la costruzione della linea ferroviaria che allacciò Benevento alla Puglia e alla Campania e i lavori ebbero termine quattro anni dopo, nel 1870 (linea Napoli-Benevento-Foggia). Nel 1869-1902 altre linee ferroviarie collegarono Benevento con Avellino e Salerno e queste ultime con assai minore efficienza. Altra linea ferroviaria, infine, unì Benevento a Campobasao (1881-1882). Le linee ferroviarie delle quali si è fatto cenno, anche se non di rapido traffico, apportarono qualche giovamento. Nel 1909 si inaugurava l'utile linea ferroviaria privata e ora sovvenzionata, Napoli-Cancello Berevento, prima a vapore e poi recentemente elettrificata che unì Benevento alla Valle Caudina. Grande impulso venne dato alla Città tra il 1926 e il 1939, quando sorse un nuovo quartiere cittadino (Rione della Libertà); si costruirono nuove ampie strade e nuovi edifizi (Camera di Commercio, Liceo-Ginnasio, ecc.), si iniziò l'isolamento ora compiuto, dell'Arco di Traiano; si restituì alla luce il Teatro Romano, risanando fra l'altro, dal punto di vista igienico ed edilizio, una abbandonata area cittadina; si guardò alla cultura e all'arte, risollevandole dal torpore. Anche nella provincia pulsò meno debole la vita sociale anche se nulla o ben poco, si possa menzionare di rilevante. La guerra interruppe l'ascesa di Benevento che bombardata e saccheggiata (agosto-ottobre 1943) contò oltre duemila morti civili e vide colpite il 65% delle sue abitazioni e distrutti insigni monumenti, fra i quali il Duomo (XII sec.), se si eccettui una parte della facciata. Oggi Benevento è ben lontana dalla sua antica floridezza e gravi problemi urgono anche per la sua provincia i cui abitanti posti per la loro metà in zone montuose (37 comuni) e su strade sovente impervie, hanno bisogno del respiro della via e del traffico, del maggiore sviluppo della meccanizzazione e soprattutto di vaste opere di bonifica e di sistemazione (bacino del Fortore, valle Telesina, piana del medio Calore) per una ripresa agricola veramente produttiva. |
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