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L'ESERCITO di Autori Vari |
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L'ESERCITO di Antonio Ciano |
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I BERSAGLIERI E LA LOTTA AL BRIGANTAGGIO di Autori Vari |
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I MALI DELLA LEVA - LA LEGGE PICA di Luisa Sangiuolo |
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La "LEGGE PICA" - Fucilazioni - Lavori Forzati - ecc. - di Ludovico Greco |
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UNIFORMI DELL'ESERCITO REGOLARE Intorno al 1860 |
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L'ESERCITO Autori Vari |
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da:"DIARIO D'ITALIA" due secoli di storia giorno per giorno, Il Giornale, 1994 |
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Uno dei problemi più urgenti del nuovo Stato italiano fu la creazione di un apparato militare capace di garantire non solo la difesa del territorio, ma anche il mantenimento dell'ordine pubblico. L'assenza di un corpo di Polizia e le dimensioni ridotte dell'arma dei Carabinieri obbligarono infatti l'Esercito ad assumere un ruolo importante anche nel mantenimento dell'ordine interno, soprattutto di fronte al brigantaggio dilagante nel Meridione. L'organizzazione militare del regno riprodusse con poche modifiche gli ordinamenti militari piemontesi fissati dalle riforme di Cavour e La Marmora nel 1854-1857. Nel 1859-1860 alle cinque divisioni del Regno di Sardegna si aggiunsero tre divisioni lombarde, due toscane, tre emiliane e una mista, per un totale di circa 180 000 uomini. Più complesso fu l'assorbimento dell'esercito borbonico: solo 2300 ufficiali borbonici che assicuravano fedeltà al nuovo Stato furono accolti nell'Esercito italiano (su 3600 domande di ammissione) e solo 20.000 soldati, circa un terzo degli effettivi, risposero alla chiamata di leva. I reparti garibaldini non furono invece accolti nell'esercito regolare; la proposta, sostenuta in Parlamento da Garibaldi, di formare una "guardia nazionale mobile" aperta a tutti i cittadini, realizzazione dell'idea democratica della nazione armata, fu respinta, e il timore che si costituisse un'alternativa armata all'esercito regolare, senza le garanzie di controllo rappresentate dalla lunga ferma (cinque anni) e dall'apparato coercitivo della caserma, prevalse sull'esigenza di chiamare a raccolta tutte le energie del paese. Alla vigilia della III guerra di indipendenza, i soldati e gli ufficiali piemontesi costituivano quasi i due terzi dell'Esercito italiano, composto da circa 250.000 soldati in servizio attivo, su di una leva potenziale di oltre 500.000 uomini. |
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L'ESERCITO di Antonio Ciano |
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da "I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD" , Edizione GRANDMELO', Roma, 1996 |
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[ ] Il 30 giugno del 1861, i bandi sul servizio di leva vennero sostituiti da un decreto legge che poi venne rivisto il 22 agosto e che peggiorò il primo rendendo quindi la situazione insostenibile. La legge borbonica sulla leva era mite ed accomodante; la Sicilia ne era esente. Il continente abbisognava di 12 mila uomini ogni anno, molte erano le esenzioni: tra l'altro bastava pagare 240 ducati allo Stato e la leva era tolta. La Legge di Ferdinando II del 1834 esentava i figli unici, i figli di vedovi, gli ammogliati, i sostenitori di famiglia, i diaconi, i seminaristi; una famiglia con tanti figli ne dava solo uno per fare il soldato e a domanda si poteva essere esenti per grazia sovrana. La legge piemontese distruggeva le famiglie e la loro economia. Tutti i figli maschi erano obbligati a prestare servizio militare e spesso mandati al nord a prendere istruzioni per poi andare a sparare contro i loro fratelli del sud.[ ] |
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LOTTA AL BRIGANTAGGIO "Corpo dei Bersaglieri" |
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di Autori Vari "Bersaglieri Epopea dei Fanti Piumati, da La Marmora ai Commandos" Vol. I, C.G.E. spa, Milano, 1979 |
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La vittoria di Gaeta aveva decretato la fine della dominazione borbonica su Napoli e su tutta l'Italia meridionale. Ma la nuova situazione poneva al nascente regno d'Italia un'infinità di problemi. Primo fra tutti quello del brigantaggio. Ma anche di guerriglia vera e propria, alimentata costantemente dalle speranze di ritorno dei Borboni sul trono di Napoli e alla quale presero parte parecchie migliaia di uomini. In parte autentici delinquenti evasi o liberati, nel caos generale della disfatta, dalle galere; in parte da soldati sbandati dell'esercito borbonico che si raccoglievano in bande armate per rapinare e sequestrare ricchi possidenti esigendo, per il loro liberazione, cospicui riscatti. Le prime avvisaglie di questo nuovo problema si ebbero mentre ancora era in corso la discesa verso il Sud dell'esercito italiano. Le colonne di Vittorio Emanuele avevano appena passato il Tronto e già giungeva notizia che soldati borbonici sbandati, dei reparti che Garibaldi aveva d'autorità disciolto, si erano raggruppati e compivano scorrerie nei villaggi seminando terrore e morte. A combattere contro questa gente furono mandati i Bersaglieri, ritenuti i più adatti sia per lo spirito sia per il loro tipo di addestramento a fronteggiare un nemico così difficile, imprendibile. I battaglioni 9°, 21°, e 27° furono incaricati di fronteggiare queste prime bande di formazione prevalentemente politica. Un primo, duro scontro, si ebbe a San Vittorino, poco lontano dall'Aquila, e altri a Fiammingano e Civitella. Di fronte al ramificarsi del fenomeno il governo prese adeguante contromisure. Il corpo dei Bersaglieri fu portato da 27 a 36 battaglioni e questi reparti di nuova formazione parteciparono alla guerriglia meridionale dilagante intanto pericolosamente in tutta la Basilicata, come in Puglia e nella Terra di Lavoro. C'erano, fra questi latitanti, uomini di notevole prestigio personale rimasti nella leggenda, capipopolo più o meno in buona fede, che una certa reazione borbonica era pronta a strumentalizzare ai suoi fini. Uno di questi era Carmine Crocco Donatelli, forse il più celebre di tutti i briganti del Sud, che ebbe ai suoi ordini, nei momenti di maggior fulgore, oltre tremila uomini. Su Crocco si puntò l'attenzione del generale spagnolo, Borjes, sbarcato sulle coste calabresi nel settembre 1861 con il proposito di guidare la restaurazione. Borjes si unì alla banda di un ex galeotto, Mittica, e riuscì ad aggregare alla formazione altre bande di malviventi, fra cui il celebre Ninco Nanco e, per l'appunto Crocco. Quest'ultimo si era autoproclamato generale e scorazzava per i villaggi. Catturato, scrisse un'interessante autobiografia. Ecco un brano che descrive l'assalto a Venosa di puglia: "Sapevo che la città (8.000 abitanti) era preparata a difesa e che in aiuto alla guardia civica erano giunti i militi di Palazzo San Gervasio. Ma sapevo altresì che in paese la mia venuta era attesa da molte persone, e che queste non erano tutte del popolo, ma in buona parte signori. A mezza via fui informato che la milizia civica, allarmata dalla forza che era ai miei ordini, aveva deciso di chiudere le porte, asserragliare le vie, portandosi ad occupare il castello. Giunto in vicinanza della città, ripartii la mia forza in diversi gruppi a cadauno dei quali assegnai un settore di attacco; mentre ero occupato in tale operazione, vidi sventolare dall'alto delle chiese alcune banderuole bianche, segnale a me ben noto, per cui ordinai l'attacco. Ma fu un attacco incruento, poiché scavalcate le mura mi vennero aperte le porte senza colpo ferire, ed entrai coi miei occupando subito la piazza principale di dove mossi per assalire il castello. Dalle grida di gioia e di furore dei miei, a cui faceva eco l'acclamazione popolare, la difesa comprese tosto essere vano ogni suo sforzo; pochi colpi di fucile sparati contro le mura ebbero il merito di ottenere una resa a discrezione, sotto promessa di lasciar a tutti la vita. Venosa era mia e in men che non si dica io ricevevo le congratulazioni dei maggiorenti, mentre a migliaia affluivano a me le suppliche di ogni genere e specie. Prima mia cura fu di spalancare le carceri, nominare un consiglio reggente e pubblicare il nome delle persone che dovevano aver rispettate la proprietà e la vita, pena la morte ai trasgressori. Dal 10 al 14 (aprile 1861 n.d.r.) io rimasi coi miei in Venosa spogliando, depredando, imponendo taglie, distruggendo uomini e case, facendo man bassa su tutti coloro che erano nemici della reazione". Questa era la situazione che i bersaglieri dovevano fronteggiare. Vari capibanda astuti e coraggiosi, decisi a tutto, al comando di disperati altrettanto decisi perché non avevano nulla da perdere, e che per di più conoscevano perfettamente le boscaglie, le montagne impervie della Basilicata o le forre e le gravine che solcavano la Terra di Lavoro e la Puglia. Nel maggio 1861 il 14° battaglione, comandato dal capitano Zanoni, si distinse in un durissimo combattimento a Lenola. Nell'agosto successivo fu il 20°, del capitano Calcagnini, a disperdere alcune bande asserragliate a Somma Vesuviana. Nella Sila le operazioni erano rese più complesse dal rischio presentato dagli impenetrabili e selvaggi boschi dove mai nessun soldato, nemmeno delle milizie borboniche, aveva mai osato entrare. Erano, quei boschi, il rifugio ideale dei malviventi. Il compito di snidarli fu affidato al maggiore Ferdinando Rossi e al suo 32° battaglione. Ogni bersagliere prese con sé viveri per tre giorni e poi, a drappelli, il battaglione perlustrò metro per metro una delle zone più inaccessibili. La banda che ricercavano venne scovata a Garigliano e costretta ad arrendersi. Il ricco bottino che aveva accumulato venne restituito immediatamente ai legittimi proprietari. Sul finire del 1861 a impensierire maggiormente il comando italiano erano le imprese dello spagnolo Borjés al comando delle bande di Nino Nanco e di Donato. Sulle sue tracce fu mandato il 28° battaglione comandato dal maggiore Franchini. Borjés aveva con sé un gruppo di spagnoli che l'avevano seguito nell'impresa credendo di rinnovare con lui, e sul lato opposto dello schieramento, le gesta che avevano reso famoso Garibaldi. Il gruppo, via via assottigliandosi per le diserzioni, dopo aver imperversato pericolosamente in Calabria, si era spostato in Basilicata e, quindi, in Terra di Lavoro. Intenzione dello spagnolo era raggiungere la frontiera pontificia e riparare a Roma dove sarebbe andato a riferire a Francesco II sempre protetto dal Papa. I bersaglieri di Franchini non gli davano tregua e finalmente riuscivano a entrare in contatto con la banda l'8 dicembre 1861. Ecco il testo integrale del rapporto redatto dallo stesso maggiore Franchini: "Erano circa le 10 antimeridiane allorché io giunsi alla cascina Mastroddi, ma nulla mi dava indizi che essa fosse occupata dai briganti, quando una cinquantina di metri circa da quel luogo, vedo alla parte opposta fuggire un uomo armato. Mi metto alla carriera (al galoppo con il cavallo n.d.r.), lo raggiungo e gli chiudo la strada. I miei bersaglieri si lanciano alla corsa dietro di me. Ma il malfattore; vistasi impedita la fuga, mi mette la bocca della sua carabina sul petto e scatta. Manca il fuoco, lo miro alla mia volta colla pistola e ho la medesima sorte. Ma non falli il colpo sulla testa che lo stese a terra. I bersaglieri si aggrupparono intorno a me ed a colpi di baionetta uccidono quanti trovano fuori (cinque). Altri circondano la cascina. Ma i briganti, avvisati, fanno fuoco dalle finestre e mi feriscono due bersaglieri. S'impegna un vivo combattimento ed i briganti si difendono accanitamente. Infine, dopo mezz'ora di fuoco, intimo loro la resa, minacciando di incendiare la casa. Ostinatamente, rifiutano ed io volendo risparmiare quanto più potevo la vita ai miei bravi bersaglieri, già faceva appiccare il fuoco alla cascina, quando i briganti si arrendevano a discrezione. Ventitré carabine, 3 sciabole, 17 cavalli, moltissime carte interessanti cadevano in mio potere, tre bandiere tricolori colla croce di Savoia, forse per servire d'inganno, non chè lo stesso generale Borjés ed altri suoi compagni che tutti traducevo meco a Tagliacozzo, assieme ai cinque morti, e che facevo fucilare alle ore 4 pomeridiane, ad esempio dei tristi che avversano il governo del re ed il Risorgimento della nostra Patria". Sulla morte di Borjés esiste una dettagliata relazione raccolta da Marc Monnier: "Quando fu preso, alla cascina Mastroddi, non volle rendere la spada che a Franchini; e quando lo vide gli disse: 'Bene, giovane maggiore!' (ma Franchini, è opportuno precisarlo, scagliò con disprezzo l'arma per terra esclamando: "Non accetto la spada di un bandito!" n.d.r.). "I prigionieri", prosegue la relazione, "furono legati a due a due e condotti a Tagliacozzo. Durante il tragitto Borjés .. Disse a varie riprese: 'Bella truppa i bersaglieri!' Con la cattura di Borjés si concludeva l'anno 1861. Ma il brigantaggio era ben lungi dall'essere debellato. I bersaglieri dovettero rimanere altri due anni nella zona, impegnati esclusivamente in questa dura e difficile lotta. Gli episodi di eroismo, e anche di magnanimità, non si contano. Nella Terra di Lavoro, battuta ovunque dai bersaglieri, la banda del malvivente Crescenzio si costituì spontaneamente al capitano Arri. Deposte le armi, diciotto briganti chiesero al capitano di poter andare a passare a casa loro l'imminente festa di Natale. La richiesta fu accolta, purché i briganti ritornassero a Nola il giorno dopo Natale. Dettero tutti la loro parola al capitano Arri, e la mantennero. Nella Sila rimase per circa due anni il 25° battaglione, comandato dal maggiore Pinelli, che si era acquartierato nel villaggio di Camigliate. Una notte d'estate del 1863 i bersaglieri furono informati che nella giornata stessa la banda di Pietro Monaco era sbucata sulla passeggiata della cittadina di Acri e aveva catturato molti benestanti, compreso il barone Falcone e il vescovo di Tropea. Il maggiore Pinelli partiva alla testa di varie pattuglie per battere i boschi della Sila. Gli uomini si erano disposti a ventaglio e avanzavano cautamente, allontanandosi sempre di più l'uno dall'altro. Ad un certo punto, era ormai notte fonda, il bersagliere Ronchetti, di Milano, si ritrovò solo e sperduto, senza più contatto con i compagni. Aspettò l'alba per orientarsi meglio per il ritorno, e per puro caso scorse, in una radura riparata, l'intera banda Monaco che circondava i propri ostaggi, legati e sdraiati a terra. Anziché dare l'allarme agli altri, che d'altronde non avrebbe saputo rintracciare, e consapevole dell'estrema mobilità di quelle bande, Ronchetti giocò il tutto per tutto. Urlando a squarciagola "Avanti bersaglieri!" si lanciò di corsa verso la radura sparando con la sua carabina. Al solo evocare il nome dei bersaglieri l'intera banda fuggi a gambe levate, lasciando sul posto alcuni dei sequestrati, che ritornarono in paese accompagnati dal coraggioso bersagliere. Ronchetti ricevette per quell'azione solitaria la medaglia d'argento. Un altro episodio di valore singolo ebbe quale protagonista il bersagliere Botta, dell'11° battaglione. Il reparto era entrato in contatto con le bande di Nino Nanco e di Crocco nei pressi di Ruvo di Puglia. Ad un certo punto i briganti in fuga avevano raggiunto l'Ofanto e l'avevano attraversato mettendosi in salvo sulla sponda opposta. Alcuni banditi ritardatari venivano raggiunti mentre a cavallo tentavano di attraversare il torrente in piena. Tutti venivano uccisi salvo uno che, più avanti degli altri, era riuscito a sfuggire alle pistolettate. Allora il bersagliere Botta si spogliò seminudo e, armato solo della baionetta tenuta tra i denti, si tuffò, raggiunse sulla sponda opposta il bandito e, disarcionatolo, ingaggiò con lui un furibondo corpo a corpo riuscendo ad ucciderlo. Quindi si caricò il cadavere sulle spalle e lo trasportò nuovamente attraverso il torrente dove lo aspettavano i commilitoni plaudenti. L'intero Corpo dei bersaglieri dette un apporto decisivo a ristabilire la quiete nelle sconvolte provincie dell'Italia meridionale. Vi fu un momento in cui dei 36 battaglioni, ben 24 erano mobilitati contro i briganti. I risultati raggiunti rapidamente furono, in conclusione, più che soddisfacenti. |
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I MALI DELLA LEVA LA LEGGE PICA |
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di Luisa Sangiuolo "Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880" De Martino, Benevento, 1975 |
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27 ottobre 1860: nello storico incontro di Teano (1) Garibaldi consegna l'Italia meridionale a Vittorio Emanuele. Il Re, premurato dal Cavour, dopo l'invasione delle Marche e dell'Umbria (2) da parte dei generali Fanti e Cialdini, dopo la sconfitta dei papalini a Castelfidardo (3) e la presa di Ancona (4), viene a togliere a Garibaldi il comando dei volontari e a rivendicare a sé l'iniziativa della conquista d'Italia. Un'Europa esterrefatta ha seguito il successo del partito d'azione attraverso l'impresa dei mille; l'Inghilterra desiderosa di sminuire il prestigio della Francia sul continente, se n'è compiaciuta. Cavour per opportunità politica lascia fare; il suo Re non può permettersi di diventare impopolare tra i futuri sudditi; via, si tratta pur sempre della conquista di un Regno! In effetti ha cercato di impedire in mille modi (5) la spedizione dei mille, facendo sorvegliare Garibaldi ed ostacolando il suo sbarco in Calabria . La burocrazia sabauda si mette subito all'opera per smobilitare l'esercito garibaldino; il ministro della guerra Fanti minaccia addirittura le dimissioni se le operazioni non si concludono in via breve, nei mesi di novembre-dicembre 1860. Solamente un piccolo numero di ufficiali può essere inquadrato nell'esercito regolare, gode di tale beneficio il colonnello Giuseppe De Marco nella provincia di Benevento, gli altri sono mandati a casa; se hanno i documenti in regola ricavano un compenso in danaro, altrimenti nessun riconoscimento (6). I garibaldini chiedono di arruolarsi come carabinieri o Guardie Nazionali. La risposta negativa per buona parte è determinata dall'atteggiamento intransigente di Francesco De Sanctis che, quale governatore di Avellino, li ha presi in uggia dal settembre scorso. "Ho trovato qui [ad Avellino] delle colonne insurrezionali addette al mantenimento dell'ordine e che per la loro indisciplina hanno accresciuto il disordine. Partite queste per Benevento secondo gli ordini del Dittatore, ho dovuto di urgenza per supplirvi, organizzare prontamente una forza sotto il nome di Carabinieri Nazionali che ora potrebbe prendere il nome di Guardia cittadina" (7). Essi devono essere sicuri per onestà e fede politica (8). Al De Sanctis, non pare che i garibaldini abbiano dato prova bastevole e sicura di lealismo monarchico. (Vittorio Emanuele è d'accordo). C'è però bisogno di soldati per mantenere l'ordine pubblico e frenare il brigantaggio. I Generali piemontesi si dicono propensi a ricevere nei ranghi gli ex soldati borbonici, ma questi vincolati dal giuramento fatto a Francesco II o chiedono la pensione anticipata, o si mettono in aspettativa, o dichiarano per iscritto di essere disposti unicamente al servizio sedentario. I garibaldini del meridione, confortati da questo esempio di non collaborazionismo, disgustati per il trattamento riservato al loro generale costretto ad andare in esilio a Caprera il 9 novembre 1860, prendono la via dei monti e si fanno briganti. La situazione interna diviene preoccupante; Vittorio Emanuele ha bisogno di almeno 70.000 uomini, pertanto con decreto del 20 dicembre successivo chiama alle armi i soldati di leva delle classi 1857, 1858, 1859, 1860, rinnovando la ferma borbonica di 8 anni obbligando a servire nell'esercito i giovani dai 18 ai 25 anni (9). Le famiglie contadine sono alla disperazione; il nuovo re, nel bando non contempla nessuna eccezione. C'è da meravigliarsi se rimpiangono i Borboni? Ferdinando II con la legge del 1834 concedeva l'esenzione dal servizio militare ai figli unici e agli ammogliati, accontentandosi che le famiglie con due o tre figli dessero un soldato e le più numerose, due. Permetteva il cambio militare in ragione di 240 ducati; Vittorio Emanuele che è avido di danaro, ne chiede ora 729. Dove trovare tutti questi soldi? Non c'è quindi da stupirsi se i contadini del Sud, esasperati dall'esosa richiesta, si diano alla macchia e rispondano all'altra chiamata alle armi, quella di Francesco II. I briganti aumentano considerevolmente di numero; la leva proclamata con metodi draconiani non dà il gettito sperato. Silvio Spaventa segretario generale del Dicastero dell'Interno e Polizia, il 25 aprile 1861 ricorre alle Guardie Nazionali (10) per arginare la rivolta contadina. Il risultato è deludente. Come al solito nei piccoli centri, si va a caccia delle cariche; i più si accaparrano la carica di ufficiali; pochi risultano i soldati. Dove sono le armi? non ci sono. Quando si danno, sono razionate con estrema parsimonia. Le cartucce non vanno sprecate; un colpo deve uccidere un brigante, come se questi sia disposto graziosamente al bersaglio, pazientemente ad attendere che la Guardia Nazionale prenda la mira. Insomma, Vittorio Emanuele vuole o non provvedere le Guardie Nazionali di fucili e munizioni? No. Nutre per le Guardie Nazionali la identica diffidenza mostrata per i garibaldini spediti a casa. Di questo passo, ogni considerazione diventa superflua. Vittorio Emanuele vuole che i briganti o favoreggiatori siano fucilati e i soldati piemontesi eseguano fedelmente l'ordine reale. Se si astengono dal dare il colpo di grazia ai feriti, è solamente per sadismo, per vederli morire in carcere senza l'assistenza del medico, tra le atroci sofferenze causate dal tetano (11). Saccheggiano ed incendiano interi villaggi, mentre i deputati dell'Italia meridionale se ne stanno inerti e passivi. Gli eletti, si scuotono dalla loro indifferenza una prima volta, allorché l'on. Marzio Francesco Proto duca di Maddaloni, nella tornata del 20 novembre 1861 denuncia le atrocità della repressione ed invoca una inchiesta parlamentare (12). Si commuovono finalmente quando il 2 dicembre successivo l'on. Giuseppe Ferrari radicale, rievoca la distruzione di Pontelandolfo e Casalduni. "...Intendo la vostra voce, signori, l'immortale voce di tutti i burocrati italiani, non si poteva fare diversamente". Il coraggioso deputato milanese lascia capire che le rappresaglie militari contro gli inermi non hanno mai sortito buon esito; la popolazione civile è più che mai disposta a dare aiuto ai briganti, a collaborare. Il governo moderato tuttavia non mostra alcun cedimento; approva che su larga scala sia praticato l'arresto dei parenti dei briganti fino al terzo grado. Lo scopo è quello di indurre i loro congiunti a presentarsi. Di fronte al ricatto morale, ai genitori anziani che languono in prigione e alle mogli in attesa di un figlio, molti briganti cedono. Si presentano ai sottoprefetti e ai giudici di mandamento più disposti alla benevolenza e alla comprensione; gli incauti che si consegnano ai comandanti militari, vanno incontro alla fucilazione. La distruzione di Pontelandolfo e Casalduni, presa dall'on. Ferrari a simbolo di "più di ottanta paesi, taglieggiati, sconvolti, insanguinati, abbandonati al saccheggio" nell'Italia meridionale in nome di Vittorio Emanuele, diventa argomento di discussione tra i parlamentari. Gli uomini di governo e di opposizione non riescono a dimenticare le sue parole "... Dopo la distruzione di Pontelandolfo e Casalduni, non vi parlerò di alcuna altra città meridionale, perché ho troppo rispetto per il vostro dolore e troppo ne sono partecipe". I tentativi di metterlo a tacere o risultano fiacchi o suscitano scalpore, come quello di Marco Minghetti "...del campo della sicurezza pubblica il Governo ha il compito di reprimere, non di prevenire, la prevenzione è compito dei governi assoluti, non dei governi liberi". Per tutto un anno, Ferrari continua implacabile a ripetere che il brigantaggio è una specie di guerra civile. Si parla troppo dell'argomento, per metterlo a tacere. Il 16 dicembre 1862, viene di conseguenza nominata la commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio; essa è composta dai deputati Saffi, Sirtori, Romeo, Castagnola, Ciccone, Argentino, Bixio e Massari quale relatore. Si dà il via ai lavori preparatori. Nella serie delle proposte, si inserisce la relazione distinta in misure preventive e repressive che il Deputato Mosca presenta ai componenti della Commissione. Destinata a rimanere segreta, la relazione è largamente divulgata a Benevento e nelle limitrofe zone di Terra di Lavoro, dal sindaco di S. Pietro Infine Ercole Baimondi, già maggiore garibaldino (13). I rimedi preventivi sono: sociali politici amministrativi. Quale rimedio sociale si prospetta la divisione dei beni ex feudali; i fondi del demanio e delle manomorte devono essere dichiarati enfiteutici in modo da permettere ai contadini di riscattare le terre in venti anni, all'interesse del 5 %. Se i beni del demanio si mettono in vendita a precipizio, daranno un prodotto minore in valore capitale; gli speculatori ricchi acquisteranno le proprietà e lo Stato vedrà vanificato il proposito di frenare la rivoluzione sociale. Casse di prestito agrario devono dare soldi a modico interesse ai contadini al fine di iniziare le coltivazioni a tempo giusto e con i mezzi necessari. Per evitare soprusi, è bene nominare quali Commissari Governativi i giudici di mandamento; nessuno meglio di loro può far rispettare la legge e garantirne la esecutività; per accelerare i tempi non è fuor luogo che nella loro opera siano affiancati da Commissari Municipali di nomina prefettizia. I rimedi politici poggiano sulla fine del clientelismo. Se al vertice della piramide si pratica la disonestà, è inutile pretendere l'onestà dall'apparato burocratico. Baimondi con puntualizzanti commenti alla proposta Mosca, vorrebbe che i prefetti dichiarassero nulle le nomine dei funzionari municipali e degli ufficiali delle Guardie Nazionali di tendenze retrive, da non rieleggere per un triennio in conformità dell'antico principio romano circa la incapacità di rielezione dei colpiti da sentenza censoria. Tra i rimedi amministrativi raccomanda la eliminazione dei contratti di appalto tipo monopolio improntati a lungaggini di esecuzione. Per quanto attiene le misure repressive del brigantaggio, i delegati di Pubblica Sicurezza non sempre sono all'altezza del compito. Alcuni politici propongono di affidare l'incarico di tutori dell'ordine ai giudici di mandamento. Non è il caso. O sono troppo giovani e mancano di esperienza, o sono troppo anziani, rimasti al primo gradino della magistratura per scarse capacità; nell'uno e nell'altro caso hanno troppo da fare negli uffici per sobbarcarsi a quest'altro obbligo. E' preferibile perciò conservare in servizio i delegati, spostando quelli provinciali e circondariali nei mandamenti e quelli mandamentali presso Prefetti e Sottoprefetti. In questo modo ci saranno funzionari efficienti nei mandamenti, gli altri meno brillanti garantiranno un buon servizio perché manovrati direttamente dai Prefetti e Sottoprefetti. Le invasioni dei comuni sono diventate più rare nel 1862; giova pertanto stanziare i distaccamenti di truppa più nei casali dove i briganti vanno a fornirsi di viveri e di armi, che nei paesi. Se la truppa vuole difendere adeguatamente le due province di Benevento e Terra di Lavoro, è opportuno che sorvegli i contrafforti delle montagne ed entrambe le sponde dei fiumi al confine. Non serve tutelare bene una zona e lasciare allo scoperto l'altra appartenente alla provincia viciniore; per i briganti è addirittura un gioco da bambini aggirare l'ostacolo e mettersi in salvo. Baimondi è uomo d'armi e non può fare a meno di osservare che "la mala distribuzione dei distaccamenti e la mai scelta sede del comando e la troppo ristretta autonomia di questi pei fatto de' quarti battaglioni che si vollero impiegare a tal servizio, ingenerò gare e confusioni ed allontanò dallo scopo i faticosi sforzi dell'esercito, come si vide non seria talvolta la destinazione dell'arma, trovando su per le montagne i grossi e pesanti granatieri mentre passeggiano per Napoli i vispi e svelti bersagliere, e così la cavalleria ove si vorrebbe fanteria, e viceversa" (14). Il frequente avvicendamento dei distaccamenti provoca molti danni; i comandanti perdono tempo a conoscere le località. Di qui l'inefficienza delle operazioni, cui si può porre riparo mobilizzando le Guardie Nazionali del posto in ragione di un terzo della forza militare; esse conoscono i luoghi e fanno risparmiare all'erario le spese di trasporto di interi battaglioni che, per essere spostati di continuo e affidati ora al comando di un capo militare ora di un altro, diventano indisciplinati ed incontrollabili. Si esagera troppo con le fucilazioni, non di rado, capita che i militari uccidano pacifici contadini, scambiandoli per briganti. Ecco perché è necessario obbligare i sindaci a rilasciare fogli di riconoscimento a tutti gli amministrati, con connotati precisi che non diano luogo ad equivoci. Le autorità con apposite ordinanze, fanno divieto per un periodo di tempo non breve ai pastori e contadini di accedere in montagna o zone collinari infestate dai briganti, in quanto li ritengono i naturali loro favoreggiatori, disposti a fornirli di munizioni e viveri. La pastorizia e l'agricoltura soffrono gravi danni; il malumore è grande. Mentre si avvia in modo globale il discorso sul brigantaggio, arriva al Prefetto Sigismondi a Benevento una capziosa circolare del Ministro Peruzzi, datata Torino 1 gennaio 1863. Il Prefetto deve obbligare tutti i comuni e i privati a sottoscrivere consistenti offerte in danaro a favore delle vittime del brigantaggio "per consolare le sventure domestiche e premiare gli atti di coraggio" Il clero della provincia, in massa, si rifiuta di sottoscrivere. In particolare, quello cerretese dotto ed evoluto, replica seccamente che sotto la maschera della previdenza sociale, si cela l'incentivo alla guerra fratricida (15). E' presumibile che altre circolari e disposizioni dello stesso ministro, siano in arrivo per invogliare i cittadini dietro compenso, a denunciare veri o presunti briganti. Non è difficile che vengano messe forti taglie sui capi, per legalizzare una spietata caccia all'uomo. Ricordino i cerretesi che la religione, proibisce lo spargimento di sangue. Il clero del circondano di Benevento e di S. Bartolomeo in Galdo, pur non rilasciando dichiarazioni ufficiali, si mostra parimenti irremovibile. La popolazione in nome della religione, si rifiuta di contribuire (16). Il ministro Peruzzi, con la circolare 7 febbraio e con le istruzioni del 1° marzo, svela chiaramente il significato che intendeva dare agli "atti di coraggio". Gli arresti su delazione di pochi malvagi, non si contano. I cittadini di umili condizioni (non i proprietari terrieri), a centinaia vanno in prigione insieme con i parroci. Non si lamentano per la loro condizione, chiusi in fiero riserbo. Un muro di silenzio si leva tra le autorità e l'opinione pubblica; i militari ne sono scossi; ignorati dai paesani, sentono pesare su di sé il marchio di soldati di occupazione. La Commissione d'inchiesta, ultimati i lavori, riferisce alla camera dei deputati nelle sedute segrete del 3, 4, 5 maggio 1863. Nel corso della sua indagine, ha raccolto elementi più che positivi di dissenso da parte dei politici, funzionari statali ed alti ufficiali delle varie armi. Il relatore on. Massari quando legge la sua relazione, non ne fa alcun accenno, né illustra le proposte presentate alla Commissione per le quotizzazioni dei beni demaniali, né spiega che la mancata repressione del brigantaggio deriva dal contrasto tra autorità civili e militari. Alcuni deputati capeggiati da Nino Bixio, osservando che le leggi ordinarie non sono sufficienti a riportare l'ordine nel paese, avanzano la proposta perché sia approvata una legge eccezionale. L'on. Giuseppe Pica rappresentante la provincia di Aquila, propone la sospensione. Gli occorre un pò di tempo, per raccogliere le firme di 41 deputati della destra in appoggio al progetto che va elaborando (17). I deputati della sinistra cercano di bloccare la sua iniziativa, proponendo che la Camera sieda in permanenza fino alla conclusione del dibattito, di suscitare consensi per la proposta Menabrea di uno stanziamento di 20 milioni nel Sud, per la realizzazione di opere pubbliche. Conclusione: viene respinta la proposta Menabrea. I deputati di destra hanno calcolato giusto; è tempo d'estate e gli onorevoli sono ansiosi di andare in vacanza, pronti ad approvare qualsiasi progetto. Giusto in tempo, per il 15 agosto 1863 . la legge Pica viene approvata come emendamento al progetto sospeso della Commissione d'inchiesta. In applicazione della legge Pica, i briganti di Benevento, sono deferiti al Tribunale Militare di Guerra in Caserta. I giudici comminano pene severissime. Con estrema disinvoltura, condannano a morte chi si presenta volontariamente o chi è imputato di reati comuni e non di brigantaggio. Danno l'ergastolo alle donne colpevoli di essere mogli di briganti; assegnano dai dieci ai quindici anni ai bambini, rei di avere avuto il padre fuorilegge. Questi esempi, convincono i briganti a rimanere tali. Preferiscono morire combattendo nello scontro frontale con le truppe, anziché fucilati nella schiena da un plotone d'esecuzione.
NOTE 1.Il generale Federico Menabrea nelle sue Memorie, racconta invece che l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele è avvenuto a Caiazzo. 2. Invasione delle Marche e dell'Umbria: il settembre 1860. 3. Il Lamoricière generale della truppa papalina fu sconfitto a Castelfidardo il 18 settembre 1860. Vittorio Emanuele aveva convinto Napoleone III a consentirgli il passaggio attraverso lo Stato Pontificio, per proteggere lo Stato della Chiesa contro l'avanzata garibaldina. Si veda con quale risultato! 4. Ancona è assediata dalla flotta piemontese comandata dal Persano; capitola il 29 settembre 1860. 5. Solo Francesco Crispi esortò Garibaldi alla conquista del Meridione. Sua unica preoccupazione le condizioni del mare - Io vi garantisco il mare -gli disse Garibaldi il 2 maggio 1860. Ed io - rispose Crispi - vi garantisco la terra. 6. Franco Molfese - Lo scioglimento dell'esercito meridionale garibaldino in Nuova Rivista storica, 1960, n. 1. 7. Archivio di Stato Napoli - Ministero Polizia - Fascio 1078 - Intendenza del Principato Ulteriore - Primo ufficio, n. 4083, Avellino, li Ottobre 1860. Francesco De Sanctis al Ministero di Polizia Napoli. 8. Archivio di Stato Napoli - Ministero Polizia - Fascio 1078 - Lettera del Governatore di Avellino ai sindaci e ai capitani della Guardia Nazionale del primo distretto. Intendenza di Principato Ulteriore. Primo ufficio, terzo carico, Avellino, 24 settembre 1860. 9. Giacinto De Sivo - Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste, 1868, pagg. 444-445. 10. La costituzione delle Guardie Nazionali, risale al 1806; fu voluta dalla borghesia napoletana per soffocare la reazione borbonica dei lazzari contro il sistema napoleonico. Ferdinando II le dette nel 1833 un nuovo ordinamento, consentendo l'arruolamento agli uomini dai 21 ai 50 anni che fossero di comprovata fede monarchica. Garibaldi, come era logico, con decreto 17 settembre 1860, escluse dalle Guardie Nazionali i filo-borbonici e i simpatizzanti in genere del potere assolutistico. 11. Marzio Francesco Proto - La verità sopra gli uomini e le cose del Regno d'Italia, Napoli, 1862. 12. La presidenza della Camera dei Deputati respinse la richiesta dell' on. Proto perchè la sua mozione fosse messa in discussione. 13. Ercole Raimondi - dà alle stampe a S. Pietrinfine di Terra di Lavoro il 31 dicembre 1862 un commento alla proposta Mosca dal titolo "Provvedimenti pel brigantaggio 14. Ibidem, pag. 13. 15. Franco Molfese - Storia del brigantaggio dopo l'unità, Milano, Feltrinelli, 1964 e 1966, parte II: Attacco e liquidazione del brigantaggio. 16. Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento - Documenti inediti brigantaggio 1863 - Il prefetto Sigismondi sollecitò più volte i sindaci dei comuni della provincia per indurre i cittadini al pagamento dei contributi. 17. Tra gli altri, dettero la loro adesione Bonghi, Sella, Boggio, De Cesare, Nisco, Barracco, Castagnola, Massari. |
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La "Legge Pica" - Fucilazioni - Lavori Forzati - Domicilio Coatto - |
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di Ludovico Greco "Piemontisi, Briganti e Maccaroni" - Guida Editore, NAPOLI, 1975 |
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L'agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il "brigantaggio". Praticamente l'autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora piu' acre e feroce di quanto non fosse stata un allora la legge Pica (dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica), rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa" e, dall'opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell'art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino "veniva distolto dai suoi giudici naturali" per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata "col ferro e col fuoco!". Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all'inverosimile. |
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