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IL BRIGANTAGGIO |
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di FRANCESCO PAPPALARDO da: "CRISTIANITA'" n. 222, 1993 |
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Il 6 agosto 1993, nel quadro del convegno su La contrarrevolución legitimista (1688-1876), organizzato dall’Università Complutense di Madrid a San Lorenzo de El Escorial, Francesco Pappalardo ha tenuto una relazione su Il brigantaggio.
Nel Grande Dizionario della Lingua italiana, alla voce brigantaggio si legge: "L’insieme delle azioni delittuose (contro le proprietà private e le persone) compiute da bande di briganti, a mano armata" (1). Brigante è colui "[...] che vive fuori legge e alla macchia (spesso in bande organizzate) compiendo rapine a mano armata e taglieggiando le persone e la proprietà privata; bandito"; sul piano storico brigante è anche il soldato, generalmente appartenente a "piccole compagnie di ventura", e il partigiano: "Da brigare, "mettersi nella lotta, combattere""; se questo termine "[...] anticamente significava un soldato a piedi", ora designa "gli assassini, i fuorusciti ed i nemici dell’ordine pubblico" (2). Nella storia della parola, dunque, "[...] si possono individuare due momenti distinti: il significato antico sostanzialmente positivo, e quello più recente, che, sorto da una degradazione del precedente, assunse sempre più quella connotazione di "fuorilegge", che oggi prevale. Per il Lissoni questo senso moderno [...] sarebbe proprio del francese brigant (e, quindi, da rifuggire), come lo è il derivato brigantaggio, dal francese brigandage, fin dal 1410" (3). Infine, il termine brigante ha acquistato anche un significato ideologico ed è stato adoperato per indicare in senso spregiativo quanti si sono opposti con le armi alla Rivoluzione: il "[...] nome di briganti è stato dato per esempio ai Vandeani realisti durante la Rivoluzione francese" (4); Giuseppe Boerio, autore di un Dizionario del dialetto veneziano, stampato a Venezia nel 1829, conferma per l’Italia l’uso del neologismo semantico: "Con tale nome erano comunemente chiamati nell’anno 1809 coloro che nelle varie nostre provincie si sollevarono" (5) contro l’esercito rivoluzionario francese. In questa sede uso il termine brigantaggio per designare la reazione armata delle popolazioni italiane contro il nuovo ordine rivoluzionario, in contrapposizione alla parola banditismo, che indica la "[...] ribellione di piccoli gruppi armati intesi a colpire nella loro ricchezza le classi agiate senza la prospettiva di rivolgimenti politici" (6). Il banditismo è la manifestazione di una patologia sociale diffusa nei tempi e nei luoghi più diversi. Nell’ambito della civiltà occidentale caratterizza l’epoca medievale e moderna, ma non può essere liquidato sempre come un fenomeno di semplice delinquenza. Le convulsioni sociali nell’Europa del secolo XVII, che hanno fatto parlare di una sorta di epoca delle rivolte, sono molto spesso un sintomo dell’incapacità dello Stato moderno di svolgere una efficace funzione mediatrice fra i vari ceti sociali, soprattutto nella prima fase della sua formazione. In particolare, l’aumento rilevante della pressione fiscale, che caratterizza quel periodo, colpisce l’intera gamma della società e della vita economica ed è la causa scatenante delle grandi rivolte del Seicento. Nel contesto europeo il Mezzogiorno d’Italia non presenta la serie di sommosse contadine che accompagnò la diffusione della riforma protestante ed è toccato in misura ridotta dall’ondata di agitazioni popolari che caratterizzano altri Stati nel secolo XVII. L’unica rivolta degna di rilievo è quella capeggiata da Tommaso Aniello, detto Masaniello, nel 1647, con la quale però la popolazione non intendeva "[...] chiedere né ottenere la soppressione del regime feudale, ma solo il suo contenimento entro i limiti della legalità, della tradizione e dell’equità" (7). Il banditismo in senso stretto è stroncato dalla grande azione svolta dal vicerè, marchese del Carpio, fra il 1683 e il 1687 (8). Nel secolo XVIII, la protesta popolare si inasprisce in seguito al graduale stravolgimento dei rapporti di proprietà nelle campagne, ma "[...] la lotta per la terra — ammette uno storico di ispirazione marxista — è condotta esclusivamente in nome del rispetto degli usi civici tradizionali e della difesa del demanio" (9). Infatti, l’abbandono delle campagne da parte della nobiltà da un lato favorisce l’ascesa di amministratori rapaci e di nuovi proprietari terrieri, che portano con sé la durezza e la fiscalità proprie del capitalismo liberale; dall’altro lato provoca la rottura di quel contatto esistenziale, di quella omogeneità culturale, di quella solidarietà fra signori e contadini che erano state le caratteristiche fondanti dell’antico regime. La reazione popolare, sul finire del secolo, non è perciò anti-feudale e neppure anti-aristocratica — se non dove la nobiltà era venuta meno alla sua funzione di mediazione e di comando —, ma rivolta contro la nuova mentalità rivoluzionaria, che imponeva un’economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami esistenti fra i diversi ceti della nazione e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese. L’inquinamento storiografico Nonostante il giansenismo e l’assolutismo illuminato, con i suoi corollari regalistici e livellatori, le armate giacobine e napoleoniche, che pretendono di agire per il bene del popolo, per la sua libertà e per il suo benessere, incontrano soltanto ostilità nella penisola italiana. "Singolare ed imbarazzante paradosso, contro il quale ha sbattuto più volte la faccia sia la storiografia liberal-progressista sia la storiografia marxista, cui venivano meno gli abituali schemi interpretativi" (10). Gli storici liberali, rappresentati innanzitutto da Vincenzo Cuoco e Pietro Colletta, tendono a ricondurre il fallimento della Rivoluzione a un cumulo di errori e di circostanze avverse, così da salvaguardare il ruolo dirigente dell’"intellettuale" e il suo diritto a ergersi come rappresentante della nazione. Benedetto Croce, inoltre, riduce in larga misura la storia del Mezzogiorno alla storia della sua classe intellettuale, giungendo a idealizzare i giacobini come nuova aristocrazia, "[...] quella reale, dell’intelletto e dell’animo" (11). Antonio Gramsci — che utilizza lo stesso procedimento logico — si rammarica dell’assenza "momentanea" di un’avanguardia intellettuale, cioè di un partito leninista che non era stato ancora fondato, e propone una interpretazione delle insorgenze in chiave di lotta di classe fra contadini e borghesia. Questa impostazione cerca di accreditare l’idea di una conflittualità sociale molto diffusa in tutta la penisola, che abbia sempre gli stessi caratteri in presenza di popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse, situate in contesti geo-economici non uniformi e con le più varie tradizioni. Una spiegazione del tutto insufficiente è offerta anche dalla storiografia nazionalistica, che vede nelle insorgenze soltanto preziose affermazioni di valori nazionali e patriottici e, quindi, una reazione allo straniero invasore e non ai princìpi rivoluzionari, i quali — essa afferma — avrebbero ricevuto migliore accoglienza se presentati in altro modo e in altra circostanza. La matrice religiosa delle insorgenze risulta così sbiadita e la resistenza armata di interi popoli, che in Italia e in Europa si batterono in difesa della loro fede e delle loro tradizioni — soprattutto dove si era conservata la compattezza organica della nazione cristiana — è ancora oggi ignorata da molti o ricordata con disprezzo. "Tutto questo che è dignità, fierezza, spirito di sacrificio — scrive Niccolò Rodolico, autore di orientamento liberale — è stato considerato, specialmente per l’Italia meridionale, fanatismo e brigantaggio" (12). Queste considerazioni valgono in particolare per l’insorgenza meridionale che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà delle vicende e per la presenza di un piccolo nucleo dirigente che seppe coordinare la generosa reazione popolare (13). Nel 1799, i "lazzari" napoletani e i contadini delle province si rivelano ben lungi dall’essere una massa amorfa, avvezza a passare con facile rassegnazione da un padrone all’altro, e le loro gesta vanno a costituire la splendida epopea della Santa Fede, "[...] che ebbe nell’eroico cardinale Fabrizio Ruffo il suo condottiero e in sant’Alfonso Maria de’ Liguori il suo preparatore remoto ma profondo, nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion de Montfort preparò la Vandea" (14). Quando i francesi ritornano, nel 1806, si verificano nuove e numerose sollevazioni popolari in diversi Stati italiani. Nelle province napoletane le bande, guidate da popolani, borghesi e anche sacerdoti, raccolgono impiegati, soldati sbandati, contadini e pastori, la cui lotta assume i caratteri della resistenza contro-rivoluzionaria, ma tale valoroso comportamento è definito sbrigativamente "brigantaggio" dagli invasori e il termine è tramandato da una mendace storiografia (15). La Rivoluzione italiana, dopo la Restaurazione del 1815 e un successivo periodo di tregua necessario per riordinare le fila e porsi sotto la protezione della monarchia sabauda, compie un nuovo passaggio negli anni 1859 e 1860 con la conquista di quasi tutti gli Stati della penisola da parte del regno di Sardegna, che porta a termine il disegno sovversivo fallito mezzo secolo prima. "La nazione italiana, prima una nella fede e nella diversità, viene unita nell’errore, cui si accompagna l’imposizione spesso crudele di una uniformità che è piuttosto rivoluzionaria che piemontese. Cadono tutte le Case regnanti, vengono disperse tutte le classi dirigenti che hanno servito la Cristianità a diverso titolo fin nelle terre più lontane, le differenze regionali e storiche sono bandite, la religione e i suoi ministri perseguitati" (16). Non mancano resistenze e reazioni all’unificazione forzata, ma soltanto nel regno delle Due Sicilie la lotta armata contro l’invasore assume proporzioni straordinarie. Tuttavia, anche questo doloroso periodo della storia della nazione italiana è censurato e deformato da oltre un secolo. Infatti, alla "[...] fase del silenzio patriottico o della rimozione che dura fino alla caduta del fascismo", ha fatto seguito un’analoga "[...] fase di silenzio, dovuto alla necessità della costituzione di una nuova Italia repubblicana" (17). La storiografia di ispirazione liberale ha tramandato una nozione ormai screditata della resistenza popolare come manifestazione di criminalità comune e come esito della sobillazione reazionaria, abile a sfruttare mali endemici e secolari del Mezzogiorno. È la tesi di Francesco Saverio Nitti (18), che trae alimento dalle Relazioni della commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio, e di Giustino Fortunato, secondo il quale nell’Italia Meridionale il brigantaggio postunitario non era stato un "[...] tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico [...], frutto di secolare abbrutimento, di miseria e di ignoranza delle nostre plebi meridionali" (19). Espressione emblematica del fastidio di trattare un argomento così ignobile è la posizione di Gino Doria, che considera il brigantaggio solo un episodio "da espellere" dalla storia d’Italia "e da relegare nelle cronache criminali" (20). Benedetto Croce considerava il brigantaggio una conseguenza del vuoto di potere seguito al crollo della monarchia borbonica e concludeva che non si poteva parlare di una Vandea italiana perché non si erano visti sul terreno operativo gentiluomini e difensori della causa legittimistica come in Francia (21). Soltanto ora che l’edificio unitario sembra completato si concede che "[...] un giudizio storico superiore e la pietas dell’umanità civile e delle memorie napoletane" portino a riconoscere "le ragioni e le pene di tutti i contendenti", ben specificando, però, che la "[...] ragione di una storia superiore condannava, comunque, il brigantaggio alla sconfitta radicale", dal momento che "[...] la storia — nel senso più pregnante e positivo dell’espressione — era dalla parte" delle "[...] coscienze più alte e severe del movimento nazionale italiano" (22). La pietas, dunque, soltanto come atteggiamento liquidatorio e di mera commiserazione. Su un altro versante, ugualmente deformante, si pongono quanti partono dalle considerazioni di Antonio Gramsci sulla "questione meridionale" per proporre una lettura del brigantaggio come manifestazione della lotta di classe, identificando nella guerra per bande una forma di lotta armata condotta in prima persona dalle masse contadine contro le classi dominanti. La versione più articolata e problematica di questa interpretazione è offerta da Franco Molfese, secondo il quale è difficile negare al brigantaggio il carattere di un movimento di classe. In esso appaiono combinati "[...] sia la protesta armata contro gli eccessi repressivi delle forze statali e contro i gravami imposti dallo Stato unitario (la coscrizione), sia l’uso della violenza armata per vendicare le sopraffazioni e i tradimenti di "galantuomini" e, soprattutto, per estorcere ai proprietari una aliquota della rendita agricola, negata sistematicamente" (23). Franco Molfese in seguito ha mitigato le sue affermazioni, distaccandosi da quelle "[...] correnti politiche e ideologiche piuttosto confuse di estrema sinistra giovanile che attribuiscono al brigantaggio un contenuto anticapitalistico o, comunque, antiborghese maggiore di quanto ebbe realmente" (24). Infatti, una simile analisi "[...] parte dalla convinzione di una antistorica "vocazione" rivoluzionaria del "proletariato" italiano, perennemente tradita. [...] Inoltre la mitizzazione dei capibanda quali leader contadini presuppone una coscienza e una autonomia nei singoli e nella "classe", nonché una diffusa consapevolezza di massa che in realtà non potevano avere" (25). Tuttavia, l’opinione ancora oggi più diffusa presso il grande pubblico è quella secondo cui "[...] alla base della rivolta dei contadini è un movente economico-sociale che non è certamente compreso da chi vuole servirsi per fini politici di povera gente vilipesa e oppressa" (26). Un’interpretazione esauriente del complesso fenomeno del brigantaggio deve partire dalla considerazione che l’opposizione armata fu soltanto uno degli aspetti della resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali, che presentò contorni più vasti e profondi di quelli che avevano caratterizzato le insorgenze dell’età napoleonica. Negli anni successivi al 1860, la resistenza si presenta con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l’emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de’ Sivo, che difesero con lo scritto i calpestati diritti di una monarchia da sempre riconosciuta dal consesso delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale (27). La resistenza armata fu però il fenomeno più evidente, che coinvolse non soltanto il mondo contadino ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano, come risulta dagli atti dei tribunali militari e dai processi celebrati a Napoli dalle corti civili. Il cosiddetto partito borbonico, sulla cui reale influenza non è stato ancora tentato un bilancio definitivo, non raggiunse l’obbiettivo fondamentale di riportare la dinastia legittima sul trono, ma riuscì per anni ad aggregare quasi tutte le componenti sociali intorno a un sentimento patriottico e nazionale. Nei primi anni il motivo legittimistico fu dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici e popolo, furono tali da richiamare alla mente l’epopea vandeana. Questa continuità contro-rivoluzionaria non è affatto simbolica, ove si consideri che a capeggiare gli insorgenti "[...] il fior fiore della nobiltà lealistica europea discese dalle brume dei propri castelli nel fuoco di una lotta senza quartiere "per il trono e l’altare", "per la fede e la gloria"", come era scritto su uno dei pannelli della mostra su Brigantaggio, lealismo e repressione, organizzata a Napoli nel 1984 (28). Il conte Henri de Cathelineau — discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea —, il barone Teodoro Klitsche de La Grange, il conte Edwin di Kalckreuth, il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour, il conte Theodule de Christen, i catalani José Bojres, che fu definito "l’anti-Garibaldi", e Rafael Tristany, furono artefici di memorabili imprese e fecero a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia. Con queste considerazioni non si intende sottovalutare il carattere anche sociale delle insurrezioni. L’eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della Chiesa durante l’età napoleonica, che avevano trasformato l’assetto della società e dato origine alla questione demaniale, ebbero una parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata (29), ma questo aspetto non basta da solo a spiegare l’intensità, l’estensione sociale, l’ampiezza territoriale e la durata del brigantaggio. L’attribuzione di un prevalente carattere sociale alla resistenza antiunitaria è causata sia da pregiudizi ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o a negare la componente politica del fenomeno, sia dalla diffusione e dalla persistenza del mito della oggettiva potenzialità rivoluzionaria delle sommosse contadine, secondo le tesi del sociologo inglese Eric Hobsbawn. Questa impostazione è caratterizzata da una generale incomprensione e negazione della cultura delle popolazioni italiane, e ciò vale in particolare per la componente religiosa, che ne rappresentava l’anima. L’elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d’epoca, così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi — benché spesso scacciati dalle loro sedi — sostengono efficacemente l’insurrezione, stampando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede. L’autorevole La Civiltà Cattolica esprime ripetutamente il suo appoggio a quello che era ritenuto uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale. Il brigantaggio, dunque, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due mentalità, fra due differenti impostazioni culturali — che ha indotto l’antropologo Carlo Tullio Altan a parlare di "reazione di rigetto della società meridionale nei confronti di una realtà storica diversa" e di "uno scontro di civiltà" (30) —, ma soprattutto ha rappresentato l’espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l’ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con "la difesa di Roma a opera degli zuavi", per "combattere la Rivoluzione con le armi" (31).La resistenza armata La resistenza popolare nel regno delle Due Sicilie ha inizio nel mese di agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia. Le prime sollevazioni hanno luogo in Basilicata e in Calabria, nella misura in cui gli avvenimenti deludono l’aspettativa di un rivolgimento che punisca gli usurpatori delle terre demaniali. L’occupazione delle aree la cui proprietà è contestata e la rivendicazione violenta degli usi civici soppressi assumono presto un significato politico. Le insorgenze sono particolarmente efficaci anche nelle province contigue alla zona di operazioni dell’esercito di Francesco II, dove reparti composti da soldati regolari e da volontari, guidati dal colonnello franco-tedesco, barone Teodoro Klitsche de La Grange, operano in funzione di appoggio e di coordinamento delle iniziative spontanee, restaurando le municipalità borboniche e insidiando le spalle e i fianchi delle formazioni nemiche. La tenace resistenza garibaldina sul fiume Volturno e l’invasione dello Stato pontificio e del regno delle Due Sicilie da parte dell’esercito sabaudo, in spregio delle più elementari norme di diritto internazionale, pongono fine alla prima fase delle operazioni difensive, caratterizzate da una certa unità di azione e di comando. Tuttavia, lo scoppio di una diffusa "reazione" in occasione del plebiscito del 21 ottobre, con il quale gli invasori cercano di legittimare la loro presenza, dà prova della vitalità della resistenza. Nei primi mesi del 1861, quando le ultime piazzeforti borboniche, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arrendono dopo un’eroica quanto sconosciuta resistenza, l’opposizione armata ha radici ben salde nel regno. La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano masse, migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un’altra bandiera, prigionieri di guerra incautamente rimessi in libertà dall’occupante, pastori, braccianti e montanari. Costoro, che combattono contro l’imposizione di una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose, furono bollati per sempre come briganti. Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno. Il controllo del territorio da parte degli unitari è sempre più precario e diventa concreta l’ipotesi di un collegamento di tutte le formazioni della resistenza, dalla Puglia alla frontiera pontificia, con uno schieramento che abbia al centro la valle dell’Ofanto, fra l’Irpinia e la Basilicata. Le formazioni più agguerrite, dotate anche di reparti di cavalleria, operano in Lucania, nella Capitanata e in Terra di Bari, condotte rispettivamente da Carmine Donatelli, detto Crocco, da Michele Caruso e dal sergente Pasquale Romano. A Napoli, l’ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agisce la propaganda dell’agguerrito comitato borbonico della città, che riesce a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di aprile è sventata una cospirazione antiunitaria e sono arrestate oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati dell’esercito napoletano. In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale sabaudo Enrico Cialdini, che innanzitutto costituisce un fronte unito contro la "reazione", arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e perseguitando il clero e i nobili legittimisti, che sono costretti a emigrare, lasciando la resistenza senza una guida politica. In una seconda fase, Enrico Cialdini ordina una serie di eccidi e di rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, che rappresentano una pagina tragica e fosca nella storia dello Stato unitario. In questo modo impedisce una sollevazione generale, ristabilisce in parte le comunicazioni e conserva il controllo dei centri abitati, decretando il saccheggio e la distruzione di quelli ribelli. Le forze militari impegnate nella repressione, costituite in quel periodo da circa ventiduemila uomini, raggiungono le cinquantamila unità nel mese di dicembre; nell’inverno 1862-1863 assommeranno a centocinquemila uomini, cioè i due quinti delle forze armate italiane del tempo. Il presidente del consiglio, Bettino Ricasoli, preoccupato per le ripercussioni all’estero della sanguinosa repressione, lancia una vigorosa offensiva diplomatica, volta a negare il carattere politico del brigantaggio. Nella polemica interviene La Civiltà Cattolica, che confuta le dichiarazioni del governo italiano: "Ma e la bandiera borbonica che i Sardi vedono spuntare sopra ogni vetta, non è ella un programma politico abbastanza visibile? E le grida di Viva Francesco II che i Sardi odono risuonar sì spesso, non sono elle un programma politico abbastanza udibile? "E le fratture sì frequenti dei busti di gesso del Re Sardo e del Garibaldi, che si fanno ovunque apparisce un brigante, e l’alzamento al loro luogo dei ritratti di Francesco II, non sono elle un programma politico abbastanza evidente? E lo sterminio che in ogni paese, dove sorge la reazione, si fa di tutto ciò che è liberale, piemontese o garibaldino non è egli un programma politico abbastanza palpabile?". Sul favore assicurato dalla Santa Sede ai partigiani borbonici, l’articolista osserva: "[...] chi non sa che il preteso regno italiano è in istato di manifesta guerra col regno di Napoli e collo Stato Pontificio? Chi non sa che è lecito ad ognuno il respingere la forza colla forza e l’ingiusta aggressione colla giusta difesa?" (32). Sono evidenti la debolezza e la poca credibilità del nuovo regno, i cui governanti non possono invocare neanche la volontà popolare per legittimare le annessioni. La strategia della resistenza borbonica mira, di conseguenza, a mostrare la fragilità del potere dell’usurpatore e a tenere desta l’attenzione degli Stati europei, nella speranza di imminenti sviluppi internazionali della questione italiana, che determinino un intervento armato dell’Austria o almeno diplomatico delle altre potenze conservatrici. Il problema più urgente è quello di dare una guida militare di valore alle schiere degli insorgenti, che possono creare serie preoccupazioni al nemico, ma non hanno né la capacità militare né il coordinamento necessario per rovesciare la situazione. Poiché i vertici dell’esercito borbonico si erano mostrati in generale esitanti nella lotta contro la Rivoluzione unitaria, Francesco II ritiene opportuno porre i suoi partigiani agli ordini di privati cittadini di fede legittimista. L’offensiva di Vittorio Emanuele II di Savoia contro lo Stato Pontificio aveva richiamato in Italia gran parte della nobiltà lealista europea. Quella campagna si era conclusa in maniera poco fortunata per i difensori della causa del Papa, ma si era creata subito dopo la possibilità di una rivincita sul fronte napoletano. Si forma quindi un’armata sovranazionale, nelle cui file militano francesi e belgi, austriaci e bavaresi, sassoni e irlandesi, oltre a numerosi carlisti spagnoli, il cui impegno diventa presto maggioritario. Proprio da queste formazioni uscì l’uomo che più di tutti fu vicino alla vittoria decisiva, il catalano José Bojres, generale dell’esercito carlista, esperto di guerriglia, volontario al servizio del Pontefice e quindi di Francesco II. Sulle orme del cardinale Fabrizio Ruffo, José Bojres sbarca con pochi compagni sulla costa ionica della Calabria, il 14 settembre 1861. Nonostante l’ambiguo comportamento di Carmine Crocco, comandante della più forte banda lucana, il generale riesce a imporre la sua autorità e organizza un forte schieramento partigiano, guidato da ufficiali legittimisti e da capi locali. Nei primi giorni di novembre gli armati, inquadrati in alcuni battaglioni di fanteria, tre squadroni di cavalleria e un reparto di gendarmeria, discendono improvvisamente dal massiccio boscoso del Vulture e danno inizio alla più memorabile avventura del brigantaggio postunitario. Le file degli insorgenti si ingrossano con rapidità grazie all’apporto della popolazione e per circa un mese la Basilicata è nelle mani dei partigiani, che restaurano le vecchie municipalità. José Bojres decide di dare l’assalto alla città capoluogo, Potenza, ma sorge un contrasto insanabile con Carmine Crocco. La conquista di Potenza consentirebbe la costituzione di un governo nazionale sul suolo patrio e potrebbe rappresentare l’inizio dell’insurrezione generale, preludio della guerra di secessione auspicata dalla maggior parte della popolazione. Tuttavia, una guerra condotta da un esercito regolare, segnerebbe la fine del regno di Carmine Crocco e il suo rientro nella vita quotidiana. Nel momento decisivo il capobanda decide di ritirare i suoi uomini e di porre fine alla vittoriosa operazione. José Bojres è costretto a prendere la via di Roma per consigliarsi con il re in esilio. Braccato dall’esercito nemico e dalla guardia nazionale, fra i rigori di una stagione inclemente, risale la penisola fino alla frontiera pontificia ma, sorpreso all’ultima tappa da un drappello di bersaglieri, è fucilato con diciassette compagni presso Tagliacozzo. In quei giorni, un altro generale carlista, il catalano Rafael Tristany, assume il comando delle bande operanti sui monti che dividono gli Abruzzi dallo Stato pontificio, in sostituzione del conte di Kalckreuth e del marchese de Namour, catturati e fucilati dagli italiani. Rafael Tristany lavora instancabilmente per riorganizzare le truppe, ma la feroce repressione condotta dall’esercito sabaudo fa terra bruciata intorno alle sue truppe. Nella primavera del 1863, dopo un anno di scaramucce poco incisive, è lanciata una grande offensiva concentrica, da tempo nei piani dei legittimisti, ma si esaurisce rapidamente; nel mese di giugno, Rafael Tristany è arrestato a Roma da soldati francesi (33). La fucilazione di José Bojres prima e l’arresto di Rafael Tristany poi, insieme con le menzionate difficoltà, causano una caduta dell’impegno politico, il quale, pure non spegnendosi, non raggiunse più i livelli iniziali. La resistenza, tuttavia, prosegue in vaste zone del reame, segno visibile della diffusa e persistente ostilità popolare nei confronti della Rivoluzione, e assume sempre più i caratteri della guerriglia: l’epicentro si sposta dai centri abitati alle campagne, ai boschi, alle montagne e la lotta si frammenta in una miriade di episodi. Nell’agosto del 1863, il Parlamento approva la legge Pica, detta così dal nome del proponente, che istituzionalizza la repressione. Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire "nel mucchio", per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila. Per la prima volta viene introdotto nel diritto pubblico italiano l’istituto del domicilio coatto, sul modello delle deportazioni bonapartistiche, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà. La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea una "industria" della delazione, che è una ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Cure particolari sono dedicate alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e, soprattutto, servizi giornalistici e fotografici. Le immagini dei combattenti, raffigurati in atteggiamento truce e con una fisionomia "inselvatichita", o miseramente allineati per terra, nudi e crivellati di pallottole, sono utilizzate come forza deterrente contro la popolazione o per segnalare in maniera apologetica la vittoria degli unitari e rappresentano i primi esempi di una moderna "informazione deformante". In questo modo è distrutto il cosiddetto "manutengolismo", cioè quel vasto movimento di sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresentò un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale. Nell’estate del 1863 è costituita un’unica zona militare, il cui comando è affidato al generale Emilio Pallavicini, conte di Priola, che attua la tattica della "persecuzione" incessante delle bande, mobilita la guardia nazionale, impone e ottiene la collaborazione delle autorità civili. L’offensiva contro il grande brigantaggio si articola in quattro fasi serrate, dall’autunno del 1863 all’autunno del 1864, al termine delle quali le grandi bande a cavallo sono distrutte e i migliori comandanti sono uccisi o imprigionati. Nonostante la sanguinosa repressione, la lotta armata conserva in numerose province il carattere policentrico e la virulenza dei primi anni; anzi, fra il 1866 e il 1868, mostra una generale recrudescenza. Tuttavia, l’estinzione del focolaio lucano, che disarticola i collegamenti della guerriglia, la falcidie dei capi locali e l’affievolirsi della speranza in una soluzione favorevole determinano una stanchezza generale. Nel 1866, Francesco II si rifiuta di incitare alla sollevazione il Mezzogiorno mentre l’esercito italiano combatteva nel Veneto contro l’impero austriaco. Consapevole della necessità di un appoggio esterno, che nessuna potenza europea sembrava disposta a offrirgli, il re vuole evitare che si ripetano le atrocità con cui erano state soffocate le insurrezioni precedenti. L’anno seguente, il sovrano scioglie il governo borbonico in esilio. Nel gennaio 1870, il governo italiano sopprime le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio. La resistenza non è ancora terminata, ma è venuto meno qualsiasi carattere di azione collettiva, si è affievolito l’appoggio popolare e la guerriglia degenera spesso in banditismo. Quando le bellicose energie sono esaurite, la secessione si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione "napoletana", che coinvolse alcuni milioni di persone. Gli ultimi combattenti si aggregano alle formazioni carliste, tornate in Spagna dopo l’abdicazione di don Juan e la successione del dinamico Carlos VII. Il numero dei napoletani è molto limitato, ma la loro presenza ha un significato emblematico: sotto la bandiera del legittimismo, carlisti spagnoli e borbonici napoletani combattono ancora contro i Savoia, sul trono spagnolo dal 1870, e contro la Rivoluzione. La resistenza antiunitaria non riuscì a ripetere il successo dell’armata della Santa Fede. In primo luogo, era mutata la situazione internazionale. Il fronte conservatore e la Santa Alleanza si erano dissolti con la guerra di Crimea: l’Inghilterra aveva sposato la causa rivoluzionaria e trascinato dietro di sé la Francia di Napoleone III, isolando l’impero austriaco. Anche i Borboni di Spagna fecero poco per aiutare il ramo dinastico napoletano, a causa della politica di compromesso seguita dal governo della Unión Liberal e per l’impossibilità di concertare un’azione comune con la Francia o con l’Austria, ambigua l’una, incerta e rinunciataria l’altra. In secondo luogo, gli insorgenti del 1799 combatterono contro un esercito impegnato su molteplici fronti e schierato sulla difensiva, mentre i combattenti del 1860-1870 si scontrarono frontalmente con lo Stato unitario, di cui non conoscevano i meccanismi e che potè concentrare per alcuni anni forze imponenti nel Mezzogiorno. L’esercito sabaudo non riuscì per lungo tempo a venire a capo della ostinata guerriglia condotta da un numero inferiore ed estremamente fluttuante di armati, ma la proclamazione dello stato d’assedio, la legislazione eccezionale, le atrocità, le stragi indiscriminate, il terrore, il tradimento prezzolato stroncarono la volontà di resistenza della popolazione. Infine, la reazione popolare, spontanea e generale, non fu autonoma, perché quasi ovunque mancò la guida di una classe dirigente valida e ben determinata. "Non ci fu un cardinale Ruffo", era scritto su uno dei pannelli della mostra napoletana sul brigantaggio, a conferma dell’assenza determinante di elementi locali dotati della tempra e dell’acume di colui che fu artefice della vittoria della Santa Fede.
NOTE (1) Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua italiana, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1962, vol. II, voce Brigantaggio, p. 375. (2) Ibid., voce Brigante, p. 376. (3) Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1979, vol. I, voce brigànte, p. 166. (4) Trésor de la langue française. Dictionnaire de la langue du XIX et du XX siècle (1789-1960) publié sous la direction de Paul IMBS, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, Parigi 1975, vol. IV, voce Brigand, p. 958. (5) M. Cortelazzo e P. Zolli, op. cit., p. 166. (6) Alfonso Scirocco, Briganti e potere nell’Ottocento in Italia: i modi della repressione, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, anno XLVIII, 1981, p. 81. (7) Giuseppe Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di Percy Allum, Laterza, Bari 1978, p. 131. (8) Il Mezzogiorno esce da due secoli di dominazione spagnola in condizioni ben lontane da quella immagine di miseria e di degrado che viene comunemente offerta. Fondamentale per la conoscenza della Napoli spagnola è ancora l’opera di Francisco Elías de Tejada y Spínola, Napoles Hispanico, 5 voll., Montejurra, Madrid e Siviglia, 1958-1964. (9) Rosario Villari, Mezzogiorno e contadini nell’età moderna, Laterza, Bari 1977, p. 137. (10) Marco Tangheroni, Prefazione a Francesco Mario Agnoli, Andreas Hofer, eroe cristiano, Res Editrice, Milano 1979, p. 8. (11) Benedetto Croce, Storia del regno di Napoli, Laterza, Bari 1980, p. 200. (12) Niccolò Rodolico, Il Popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale. 1798-1801, Le Monnier, Firenze 1926, p. XIII. (13) Cfr. il mio 1799: la crociata della Santa Fede, in Quaderni di "Cristianità", anno I, n. 3, inverno 1985, pp. 34-50. (14) Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 13. (15) "Era un termine questo nuovo nella lingua napoletana e lo aveva sempre ignorato il legislatore: a Napoli erano sempre stati indicati come banditi o fuorbanditi i fuori legge datisi alla campagna e come proditores, distinti dai primi, i ribelli scesi in armi contro il potere costituito" (Tommaso Pedio, L’insurrezione antifrancese in Basilicata nel 1806, in Archivio Storico Italiano, anno CXL, 1982, n. 514, disp. IV, p. 604). (16) G. Cantoni, op. cit., p. 14. (17) Sergio Riccio, L’opinione pubblica, in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, Gaetano Macchiaroli, Napoli 1984, p. 73. (18) Cfr. Francesco Saverio Nitti, Il brigantaggio durante il regime borbonico, in Idem, Gli scritti sulla questione meridionale. Saggi sulla storia del Mezzogiorno, emigrazione e lavoro, a cura di Armando Saitta, Edizione Nazionale delle opere di Francesco Saverio Nitti, Laterza, Bari 1958, vol. I, pp. 41 ss. (19) Giustino Fortunato, Lettera a Nello Rosselli, del 4-4-1927, in Idem, Carteggio. 1926-1932, Laterza, Bari 1980, pp. 14 ss. (20) Gino Doria, Per la storia del brigantaggio nelle province meridionali, in Archivio Storico per le Province Napoletane, nuova serie, anno XVII (1931), p. 388. (21) Cfr. B. Croce, Il romanticismo legittimistico e la caduta del regno di Napoli, in Idem, Uomini e cose della vecchia Italia, serie seconda, Laterza, Bari 1927, pp. 307-339. (22) G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, in Archivio Storico per le Provincie Napoletane, terza serie, anno XXII (1983), p. 15. (23) Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1979, p. 342. (24) Idem, Lo Stato unitario e il suo difficile debutto, in Storia della società italiana, vol. XVIII, Teti, Milano 1981, p. 94. (25) Ibidem. (26) Tommaso Pedio, Reazione e brigantaggio in Basilicata, in Archivio Storico per le Province Napoletane, terza serie, anno XXII (1983), p. 275. (27) "Sarebbe un’impresa assai ardua tentare una classificazione, sia pure sommaria, degli innumerevoli libri, opuscoli e libelli reazionari ed antiunitari che inondarono l’Italia nel decennio 1860-70" (Luisa Gasparini, Il pensiero politico antiunitario a Napoli dopo la Spedizione dei Mille. La Biblioteca politica di Francesco II, Società Tipografica Modenese, Modena 1953, p. 23). (28) Cfr. il testo del pannello, in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870, cit., p. 127; della mostra ho fatto stato nel mio "Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno. 1860-1870", in Cristianità, anno XIII, n. 117, gennaio 1985. In tema di lealismo, cfr. G. Cantoni, Lealismo e rivoluzione: Ideali contrapposti, in La Fedelissima Città di Gaeta nel Tramonto delle Due Sicilie. Convegno tradizionalista. 14 e 15 Febbraio 1992. Atti, Gaeta (Latina) 1993, pp. 55-60. (29) "E così, lungo il corso dell’800, si assistè a continue sollevazioni popolari, delle quali il significato politico più generale fu senza dubbio reazionario, specie nel ’60, ma tutte, direttamente o quasi, originate da cause demaniali" (Gaetano Cingari, Giustino Fortunato e il Mezzogiorno, Parenti, Firenze 1954, pp. 95-96). (30) Carlo Tullio Altan, Il brigantaggio post-unitario. Lotta di classe o conflitto di civiltà?, in AA.VV., Italia moderna. Immagini e storia di un’identità nazionale, vol. I, Banca Nazionale del Lavoro, Milano 1982, pp. 99-117. (31) G. Cantoni, op. cit., p. 16. (32) Giuseppe Oreglia di Santo Stefano S.J., Sopra la nota del Barone Ricasoli del 24 agosto 1861, in La Civiltà Cattolica, serie IV, vol. XI, 6-9-1861, pp. 686 e 691-692. (33) Non va trascurato il ruolo repressivo nei confronti della guerriglia legittimistica svolto dal corpo di spedizione francese a Roma, nonostante le accuse di connivenza lanciate con frequenza dalla stampa italiana. |
AUTORI VARI da: "DIARIO D'ITALIA due secoli di storia giorno per giorno" IL GIORNALE, 1994 |
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La grande insorgenza sociale che ebbe luogo fra il 1861 e il 1865, comunemente nota con la definizione di brigantaggio, affondava le sue radici in territori dove il banditismo individuale e la formazione di bande brigantesche avevano un carattere endemico. L'esistenza di un esercito di braccianti senza terra e l'esosità dei patti agrari portavano nei periodi di crisi economica e politica alla recrudescenza del fenomeno. La leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali aggravarono dopo il 1861 la crisi del Meridione, provocando una disperata guerriglia dei contadini contro il governo e i proprietari terrieri. Il dissolvimento dell'esercito borbonico (almeno 10.000 renitenti alla leva si dettero alla macchia) e il tentativo di Francesco II di Borbone di sfruttare il malcontento per orientarlo verso un progetto di restaurazione del Regno delle Due Sicilie, contribuirono nel 1861 a trasformare il brigantaggio in una vera guerra civile. La prima grande rivolta armata scoppiò in Basilicata nell'aprile del 1861 e si estese nell'estate all'Irpinia, al Sannio, al Molise, all'Abruzzo, alla Puglia e alla Capitanata. La repressione condotta dal generale Cialdini nell'estate del 1861 riuscì in parte a domare la rivolta, ma nell'autunno l'insorgenza si estese a quasi tutto il Meridione continentale. Centinaia di bande, condotte per lo più da ex soldati borbonici, terrorizzarono per alcuni anni con saccheggi e omicidi intere province. Ogni giorno pervenivano al comando militare di Napoli da 60 a 100 rapporti su fatti di brigantaggio. Lo Stato intervenne in forma puramente repressiva: nel 1861 i soldati impiegati al Sud salirono da 15.000 a 50.000; nel febbraio 1864 erano addirittura 116.000. Nella sola Basilicata dal 1861 al 1863 vi furono 1038 fucilati, 2413 uccisi negli scontri e 2768 arrestati. Una vasta ed efficace offensiva venne condotta fra il 1863 e il 1864, quando dopo l'approvazione delle leggi speciali contro il brigantaggio si celebrarono 3600 processi, con oltre 10.000 imputati. Secondo le autorità militari, fra il 1861 e il 1865 furono uccisi in combattimento o fucilati 5212 briganti, oltre 5000 furono arrestati e circa 3600 si costituirono. |
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PARLIAMO MALE DI GARIBALDI |
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di LUDOVICO GRECO da: "PIEMONTISI, BRIGANTI E MACCARONI" Guida editore, Napoli, 1975 |
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Solo da poco il Regno di Napoli e delle Due Sicilie è stato conquistato dal Piemonte. La spedizione dei Mille di Garibaldi ha compiuto l'unità d'Italia. Il Re di Napoli, Francesco II di Borbone, è fuggito prima a Gaeta, poi a Roma dove il Papa (Pio IX) lo ha ospitato a Palazzo Farnese e dove il Sovrano in esilio mantiene stretti contatti con i suoi partigiani, ancora innumerevoli nelle terre occupate e ancora non rassegnati alla sconfitta. L'arrivo dei piemontesi, che molti, anche delle classi popolari, avevano sperato come l'inizio di una più fortunata e civile condizione, ha gettato l'ex regno nella crisi e nel disordine. Soprattutto vivo il disagio nella classe rurale, l'immensa folla contadina che popola i campi e i boschi del Mezzogiorno. La spedizione garibaldina era stata accolta come uno sperato fatto rivoluzionario. Ma la sperata rivoluzione era diventata invece reazione. Dovunque quelli che avevano occupato le terre demaniali erano stati obbligati a restituirle e avevano subito pesanti castighi. Già il pregiudizio sociale che sempre era stato vivo (e lo è in parte tuttora) tra il Nord e il Sud d'Italia aveva portato a una tensione di rapporti tra i nuovi arrivati e gli abitanti dell'ex regno. Per i settentrionali, di carattere freddo e metodico, i più estemporanei e vivaci fratelli del sud erano dei buoni a nulla, dei fannulloni. Di qui incomprensioni, odii, rancori acuiti dalla grave crisi economica che, a seguito dell'Unità, aveva colpito il Mezzogiorno. Le popolazioni meridionali, che avevano entusiasticamente accolto Garibaldi e i suoi Mille, ed ai quali avevano facilitato la marcia da Palermo a Napoli, riscontravano ora le molte illusioni. Le parole e le promesse del Condottiero delle camicie rosse avevano annunciato una nuova giustizia sociale. Si può quindi immaginare l'amara e profonda delusione che provocarono i primi atti del nuovo governo piemontese. Attraverso le prime manifestazioni e i decreti della Luogotenenza i piemontesi apparvero agli occhi sbigottiti delle popolazioni meridionali come conquistatori e sfruttatori. Fra le tante ecco alcune imposizioni del nuovo governo.- Istituita la coscrizione obbligatoria, alla quale la più gran parte della gioventù non aderì (nelle sole provincie napoletane su 70.000 chiamati alle armi, se ne presentarono solo 20.000). - Aboliti i dazi doganali, con i quali il governo borbonico proteggeva le industrie e l'artigianato del Regno, inevitabile conseguenza dell'unione fatta con l'altra parte d'Italia. Ma il provvedimento, in quel momento intempestivo e non graduato nel tempo, aumentò la crisi nella quale era piombato il Mezzogiorno. I prezzi migliori del più modernamente industrializzato Nord, esercitarono una spietata concorrenza e travolsero in breve le attività del Sud, portando disoccupazione e miseria. Come ad esempio nell'artigianato della tessitura dove erano impegnate circa 350.000 operaie. - Tassato anche il popolo, che invece sotto i Borboni non pagava tasse, o in minima parte. - Aumentato il prezzo del sale e dei tabacchi. - Ristabilita ed aumentata la tassa sul macinato che Garibaldi aveva abolito. - Vendute le rendite pubbliche. - Trasferite al Nord le riserve auree del Banco di Napoli e degli altri massimi Istituti di credito. - Chiusura ed eliminazione della gran maggioranza dei conventi. - Vendita all'asta dei beni della Chiesa. (Vi si arricchirono i furbi che ostentavano fedeltà e devozione ai nuovi governanti, veri e propri carpetbaggers, speculatori pronti a tutti gli affari e a tutti i guadagni). Questo, e lo stato di soggezione in cui furono confinati vescovi e sacerdoti (taluni arrestati e deportati perché sospetti al nuovo governo) costituirono una aperta offesa al sentimento naturalmente cattolico delle masse del Sud. - Fatta una spietata epurazione nei pubblici uffici, dove furono immessi oltre ai patrioti fuoriusciti, soprattutto elementi piemontesi. Perfino in un brefotrofio, licenziate le balie locali, furono assunte alcune balie spedite da Torino. Ecco, appena accennati, i motivi di un malcontento che infine sarebbe sfociato in aperta ribellione su temi populisti e giustizialisti. Nei quali la cosidetta "reazione" borbonica, salvo che per taluni, sarebbe stata soltanto una etichetta di comodo, sussistendo infatti motivi e cause di più diretto e profondo interesse sociale. Dal 1861 all 1865 il Mezzogiorno fu, in verità, teatro di una vera e propria guerra civile, combattuta con scontri armati tra le due parti e che ebbe più vittime di quanto non ne avessero avute tutte insieme le guerre dell'indipendenza italiana ………. A questa "guerra meridionale" parteciparono - pertanto - soprattutto le masse contadine, quelle che più avevano sofferto dal nuovo stato, quelle che più avevano marcato la delusione di vedere respinta la loro realtà dalle nuove strutture. Il "brigantaggio", come sbrigativamente fu classificata la rivolta contadina, provocò la repressione militare: questa fu sanguinosa e crudele. Villaggi dati alle fiamme, esecuzioni sommarie, arresti in massa di civili, veri o presunti "favoreggiatori di briganti". Per cinque anni, a partire dal 1861, il Mezzogiorno fu teatro di questa guerra civile, condotta con spietata ferocia da ambo le parti. Fucilati, impiccati, arrestati, deportati. Gli stessi Bandi dei Comandi Militari sono significativamente simili a quelli tristemente noti dei nazisti nell'Italia occupata ……… Su questi avvenimenti è stato sempre steso un velo. A differenza di quanto è successo invece, già a pochi anni di distanza dagli avvenimenti, negli Stati Uniti. Dove la stampa prima e il cinematografo dopo e dopo ancora la TV, hanno trattato con aperta denuncia le guerre indiane (vedi "Soldato blu" e il più recente "Il piccolo grande uomo" [ si aggiunga anche "Balla coi lupi"]), la guerra di secessione e il marasma e la crisi che avevano seguito la resa del Sud. Finora il Risorgimento meridionale è stato trattato in maniera convenzionale e agiografica: da una parte i buoni, dall'altra i cattivi. Solo da pochi anni una storiografia più avvertita dei fenomeni sociali che hanno accompagnato la nascita della Nazione (fenomeni, taluni, ancora vivi e non risolti del tutto) ha cercato di far luce su questo tormentato periodo della vita italiana. Si tratta comunque di studi e di lavori che non sono andati oltre un ristretto cerchio di studiosi e di intellettuali. Le comunicazioni di massa non hanno trattato questo argomento o l'hanno trattato lo hanno fatto secondo gli schemi tradizionali (es. W l'Italia di Rossellini, 1860 di Blasetti ecc. ecc.) ricalcando il consueto clichè oleografico che abbiamo citato più sopra. Ma chi erano questi "briganti"? Contadini affamati e in rivolta? Oppure delinquenti, grassatori, rubatori di strada maestra? O piuttosto rivoluzionari e "guerriglieri", esponenti di un banditismo sociale che, in ogni parte del mondo, ha avuto i suoi protagonisti ed eroi, come Lampiao nelle pianure del Nordeste brasiliano, come Robin Hood nelle foreste di Sherwood? O combattenti di una guerra sociale, per la terra e per il pane? - Gesu' le brigande! Nei paesi del Mezzogiorno, soprattutto in quelli dove è la parte più povera e spoglia, il grido di allarme risuona ancora memorie ancestrali. I vecchi ricordano di aver sentito, dai loro vecchi, storie e racconti di briganti: un folk song in prosa (disadatta e vernacola prosa di villaggio) di Robin Hood delle foreste. Della Sila, e dell'Aspromonte o di Lagopesole. Qui, nel bosco, stette, con il suo quartier generale, il capobanda Carmine Donatelli Crocco, generale di S.M. Francesco II, Re delle Due Sicilie. Qui progettò, con lui, i piani per la conquista di Stigliano e Potenza, l'infelice Borjes…….. E proprio in Lucania, dove i briganti sono stati più di casa, il ricordo è ancora vivo. E poiché la emozione popolare è, alle volte, più sagace intenditrice dei fenomeni di carattere sociale che non la storia trascritta nei testi, il brigantaggio post unitario viene là ricordato come una epopea contadina. Si ricordi quanto - anche se brevemente - ne scrisse Carlo Levi nel suo "Cristo s'è fermato ad Eboli". Ed era legato, infatti, - il brigantaggio - alla fame di terra che aveva sempre travagliato la classe rurale del Mezzogiorno. Da servi della gleba a cafoni, pur nello scorrere dei secoli, le plebi meridionali cercavano un punto di appoggio sociale che l'establishment di allora gli aveva sempre rifiutato. Il brigantaggio, nelle sue varie successive manifestazioni, nasceva da precise condizioni e limiti imposti dal sistema sociale e non, come molta letteratura agiografica del nuovo stato unitario ha voluto far credere, da generici, bestiali impulsi delinquenziali. Ed è chiaro perché di volta in volta assumesse etichetta (più che impegno) di politica. In effetti la restaurazione del vecchio regime risvegliava la speranza (che d'altronde si rivelò già una volta - con la Santa Fede - utopistica) di rovesciare il rapporto tra servi e padroni, con un rilancio dei "tradizionali valori di sovranità, religiosità, e giustizia". Il Cardinale Ruffo, prima, e il Principe di Scilla sessant'anni dopo, seppero sfruttare questo esercito di reietti che popolava i campi e i boschi delle estreme propaggini della penisola. Già la Santa Fede più che le truppe regolari ebbe le "masse" dei briganti. Accanto a Pane di Grano, noto e feroce capobanda, si affiancarono tutti gli altri capi delle bande, come Mammone. (Il cui nome viene ancora invocato a spavento dei bambini discoli). Nel 1861 furono i figli e i nipoti di quegli stessi che avevano combattuto in Calabria, Lucania, al Ponte della Maddalena; contro la Repubblica e contro i francesi, a riprendere le armi. Ancora una volta era dimostrato che le masse, più che agli intellettuali e ai filosofi, obbediscono alle sollecitazioni di natura socioeconomica - (Spetta naturalmente a intellettuali e filosofi anticiparne o giustificarne eticamente i motivi, ma questo è un altro discorso). Poiché nell'Italia immediatamente post-unitaria la spedizione garibaldina era stata accolta, ripetiamo, come uno sperato fatto rivoluzionario: la rivincita dei "cafoni" sulle "giamberghe", dei poveri contro i ricchi, dei pezzenti e dei diseredati contro la classe dei "padroni". Non per nulla a Bronte, appena giunta la notizia dello sbarco di Marsala, i contadini avevano assalito le case dei "galantuomini" e avevano dato fuoco ai naturali strumenti dell'antico nemico: il Municipio e l'ufficio delle tasse. Né schierati sul sagrato riuscivano ad intendere perché Bixio avesse messo in fila, con fucili puntati, i suoi militi in camicia rossa e li facesse fucilare. La sperata rivoluzione diventava reazione, quindi. Ed ecco nascere allora un nuovo fatto rivoluzionario (il brigantaggio) pur se destinato a classificarsi come movimento di carattere reazionario. Il governo piemontese, sull'esempio di Bixio, si mostrò ugualmente spietato. Il numero dei fucilati sommariamente - e cioè senza giudizio o prove di colpevolezza - fu secondo taluni autori contemporanei - di almeno ventimila. E che la repressione fosse senza quartiere è dimostrato anche dal numero di detenuti che affollavano le galere dell'ex Regno. Citiamo da una rara pubblicazione dell'epoca ("Colpo d'occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell'anno 1862" senza data e senza luogo di pubblicazione) come "fin dal 1861 si trovavano incarcerati in tutte le prigioni del Regno di Napoli 47.700 individui e che in tale periodo annuale ne erano stati fucilati 15.665". Nella stessa pubblicazione è contenuto un lungo e minuzioso elenco: i nomi delle vittime e le circostanze della loro morte. - Sono i "briganti" o presunti tali e presunti "manutengoli" fucilati sommariamente dalle truppe piemontesi. Un racconto agghiacciante che richiama alla memoria gli episodi della recente Resistenza italiana. Né i piemontesi si mostrarono da meno che i nazisti nell'Italia occupata. I bandi di Cialdini, di Fumel, dei vari Comandanti militari, Governatori e Prefetti immancabilmente si chiudevano con l'annuncio di condanne a morte e fucilazioni sommarie. Né Marzabotto è stata inventata dalle SS germaniche. Non furono pochi i villaggi degli Abruzzi e della Basilicata, due regioni fieramente legittimiste, dati alle fiamme perché sospetti di connivenza con i briganti. E più di una volta - secondo l'anonimo autore del "Colpo d'occhio" - degli innocenti contadini sono condotti al supplizio perché "è indispensabile fucilare qualcuno per dare l'esempio". Gli stessi giornali piemontesi furono costretti, in più di una occasione, a mettere l'accento su "gli arbitri dell'autorità militare nel reggere le sorti delle provincie napolitane". Cosi' scrive la Stampa di Torino. E aggiunge: - "Il militare non intende altro codice che il suo, e non gli entra in capo che fuori di questo vi sieno altri codici del pari sacri, e di maggior rilievo per gli interessi sociali. Se gli si dice che Tizio è un birbante, perché starci tanto a pensar sopra? ei vi risponde. Fucilatelo su, e l'avrete levato di mezzo!!" Il giornale prosegue poi lamentando che sarebbe inutile una denuncia di tali fatti nel Parlamento "Parte per carità di Patria"; " parte perché è una vana cosa il dirlo " (Il corsivo è nel giornale - n.d.a.). Non desti meraviglia l'atteggiamento del giornale torinese. I giornali moderati settentrionali (in particolare la milanese "Perseveranza") insistevano sulla necessità di venire incontro alle esigenze della plebe contadina meridionale. Gran parte della stampa moderata si era spinta fino a chiedere che i proprietari meridionali rinunciassero al tradizionale egoismo e compissero il sacrificio di introdurre la mezzadria. A queste proposte reagiva, peraltro, la stessa stampa dei moderati napoletani, portavoce della borghesia agraria del Mezzogiorno! I moderati napoletani sottolineavano il disagio dei "galantuomini", danneggiati dal brigantaggio e eccessivamente oberati di tasse e sostenevano la necessità di una dura repressione militare. Impostazione che poteva forse giudicarsi propria da parte di una categoria colpita nella sua sicurezza e nei suoi interessi dalla guerra civile ma che sembra, invece, particolarmente incongrua se riferita all'atteggiamento dei giornali "democratici" del Settentrione che, almeno istituzionalmente, avrebbero dovuto essere "progressisti". Questi - ha notato acutamente Alfonso Scirocco nella sua relazione al Convegno sul brigantaggio meridionale che si è tenuta recentemente a Pietragalla, in Lucania - videro, della guerra che insanguinava il Mezzogiorno, soprattutto l'aspetto politico (e cioè la "reazione" al nuovo stato unitario) dimenticando le cause sociali alla base del malcontento e della ribellione nelle campagne. Ma la sede più autentica perché qualcuno si facesse eco - nonostante l'accorato rilievo de La Stampa - dei lutti e della pena del Mezzogiorno non poteva non essere il Parlamento Nazionale e, anche se inascoltate, non furono poche le voci di deputati meridionali che si levarono a protesta e denuncia, tra le quali vanno ricordate quelle di Crispi, De Cesare, Ricciardi, Nicotera ….. La mancata risoluzione della questione demaniale e il bando della leva (dicembre 1860) con cui si richamavano alle armi tutti i soldati del disciolto esercito borbonico (il bando che sottraeva il sostegno alle famiglie nel momento della più acuta crisi economica) sono i primi motivi della protesta contadina. Molti dei richiamati sono renitenti alla leva, e corrono a raggiungere le bande armate che già operano nel Mezzogiorno. Il decreto che colpisce il clero, e che urta contro il generale sentimento cattolico, fornisce una nuova massa di ascoltati predicatori antibenevoli. I nostalgici dell'antico regime, gli impiegati destituiti. - scrive Tommaso Pedio - il clero, i vescovi, fautori del governo temporale si rivolgono al popolo contadino per opporsi al nuovo ordine politico. "E gli oppressi ascoltano questa voce, credono di poter conseguire un miglioramento materiale e, dimentichi di quella che era stata la loro esistenza prima del 1860, si illudono che una eventuale restaurazione borbonica possa loro arrecare vantaggi e benefici. Intorno ad una speranza e ad una illusione che concretizza tutte le loro aspirazioni, i paria si cercano e si uniscono non con il diretto e unico scopo di delinquere, ma soltanto per protestare, per ribellarsi al potere costituito, animati dalla illusione di potere, in tal modo, migliorare le condizioni di vita cui sono costretti, sfuggire alla miseria, al servaggio, alla prepotenza ed al sopruso, salvare la propria esistenza e vendicare i torti subiti che la giustizia dello Stato lascia impuniti". Ecco nascere quindi e irrobustirsi, via via che la repressione piemontese si fa' più sanguinosa. e acre, sempre nuove e più agguerrite bande di briganti, veri e propri "guerriglieri" cui non mancarono (almeno in taluni) capacità militari e genialità di invenzione nella tattica della guerra partigiana. Il metodo del terrore, infatti, non diede buoni frutti, nota il Molfese. I più animosi tra i "cafoni" meridionali, convinti di battersi per una causa legittima, per il re che ancora resisteva in Gaeta; istigati dai notabili e dal clero borbonici, che assicuravano una prossima restaurazione e onori e ricchezze per tutti; mossi da un confuso sentimento di "piccola nazionalità" che li chiamava a respingere l'invasore piemontese; anelanti alla vendetta dei torti antichi e recenti inflitti loro dai "galantuomini", anziché rimanere disorientati dai crudeli colpi degli incendi dei villaggi, delle fucilazioni e delle carcerazioni in massa, nell'inverno 1860-1861 fuggivano dai centri abitati e dai villaggi, si "davano alla campagna", sui monti e nei boschi, raggiungevano le bande dei "briganti" già esistenti. Fu una vera e propria ribellione, una rivolta contadina, che accese e incendiò tutto il Mezzogiorno, dagli Abruzzi alla Calabria e che impegnò in una vera e propria guerra guerreggiata un corpo di esercito di più che centoventimila uomini. Che impegnò dall'altra parte una armata rurale, fatta di contadini affamati, di soldati sbandati dell'ex esercito borbonico, senza più occupazione e senza più soldo, cui parteciparono intere popolazioni destinate a subire (da parte degli opposti avversari) incendii, saccheggi, vessazioni, dolore e morte, una epopea contadina che sbrigativamente, dalla parte vincitrice, fu classificata, come si è detto più sopra, brigantaggio e cioè mettendo in vista gli aspetti più esteriori della sua azione e sottacendo i motivi di ordine storico e sociale che presiedettero alla sua nascita e al suo divenire. Tra i capi della rivolta il più di spicco, il più romantico nella sua dimensione rivoluzionaria, il generale contadino Carmine Crocco. Questo Pancho Villa della Basilicata (allora, più ancora che oggi, la più desolata e povera regione d'Italia) combatté una vera e propria guerra di liberazione, forse senza saperlo del tutto, ma oscuramente conscio dei motivi rivendicazionisti e populisti della sua azione. Singolari, anche se incerte, ammissioni al riguardo sono tracciate nella sua autobiografia, uno smilzo racconto che Crocco tracciò nelle carceri di Portolongone quando, caduto anni dopo nelle mani dei piemontesi, fu condannato all'ergastolo. Va notato infatti che la rivolta contadina nasceva e fruttificava nelle cerchie municipali, all'ombra dei rispettivi campanili, senza disegno e prospettive unitarie, in definitiva senza metodo e coscienza di classe. L'unità, almeno nel metodo e sul piano militare, era stata tentata da Francesco. Il giovane Re, esule a Roma, non disperava di ripetere, dopo più che mezzo secolo, quanto era riuscito a Re Ferdinando allora che aveva convocato Don Fabrizio Ruffo, per rimettergli, con il mandato di Vicerè ed Alterego, l'incarico della riconquista del Regno. Francesco credeva di aver trovato il suo uomo in un ex cabecilla delle guerre carliste, il generale Borjes. Reclutato a Marsiglia dagli emissari del comitato borbonico era stato ricevuto alla Corte, in Palazzo Farnese, e di lì inviato, con pochi uomini e poco denaro, a Malta. A bordo di una "speronara" era passato in Calabria e poi, dopo una marcia avventurosa, in Lucania. Il suo compito: riunire le bande sparse della rivolta e formare un esercito regolare che compisse la riconquista del regno e la restaurazione. Borjes morì fucilato nel tentativo di raggiungere Roma e riferire a Francesco dell'inutilità dei suoi sforzi. Tra Crocco e lui infatti l'accordo non era stato possibile. Il background di Crocco era l'antica fame del suo popolo, quello di Borjes il legittimismo: un discorso impossibile. Lo sbarco in Calabria del generale era avvenuto la notte del 13 settembre 1861, sulla spiaggia di Brancaleone. Borjes sarà fucilato l'8 dicembre 1861, subito dopo la resa al maggiore dei bersaglieri Franchini e per ordine dello stesso maggiore. La frettolosa fucilazione del generale spagnolo è rimasta un mistero che ancora oggi non è stato svelato. Esistevano, infatti, istruzioni dell'allora Presidente del Consiglio, Ricasoli, perché egli fosse arrestato, per essere sottoposto a processo. Processo, scriveva Ricasoli al generale La Marmora, che avrebbe avuto "stupendo effetto per la pubblica rassicuranza". Un vero e proprio mistero storico che qualcuno ha voluto spiegare con l'esame della personalità stessa del Franchini. Di questo ufficiale piemontese è stato accertato che aveva fatto inesorabilmente fucilare un contadino abruzzese accusato di detenzione d'armi. Questo contadino lo aveva ospitato nella sua casa, gli aveva fornito cibo, assistenza quasi familiare. Pure Franchini non aveva esitato a ordinarne, egli stesso, la immediata fucilazione. Con Borjes Franchini giuoca il suo ruolo primario: è il rappresentante autentico dell'establishment, e insieme l'interprete della spietata repressione militare che tiene da parte i calcoli e le compromissioni dei politici. A Borjes riserverà un contegno altero e sprezzante: per Franchini l'ex cabecilla non è un generale, è soltanto un "brigante". E briganti e sospetti loro complici erano sommariamente fucilati. Il personaggio di Borjes (per la cui morte unanime fu lo sdegno degli ambienti legittimisti di tutta Europa), ha un rilievo nobile e patetico. La sua vicenda, pur durata l'arco di tre soli mesi, si svolge nel periodo più acuto del "brigantaggio politico". Un periodo caratterizzato da grandi scontri, come quello di Stigliano, che preoccupò non solo il comando militare ma lo stesso governo di Torino e che fece credere - a molte cancellerie d'Europa - che la rivolta, incanalata nel solco tracciato da Borjes, avrebbe anche potuto capovolgere le sorti dei nuovi territori annessi al Piemonte ……. Lo scontro tra Borjes e Crocco, e la fuga e la morte dello spagnuolo, impedirono che fosse conquistata Potenza. La città lucana sarebbe dovuta diventare la capitale della Italia dei Sud "liberata". Avrebbe dato, l'avvenimento, alle potenze europee legittimiste, come l'Austria e la Spagna, il pretesto di intervenire per essersi verificata l'attesa condizione di una situazione ormai favorevole ai Borboni. La stessa Francia che pur aveva appoggiato l'unificazione dell'Italia Settentrionale non era stata del tutto favorevole a un così inatteso e rapido congiungimento del Sud al territorio nazionale. Le sue truppe, infatti, a presidio degli Stati della Chiesa, ebbero un atteggiamento assai tollerante verso gli armati "reazionari" che ne attraversavano i confini con l'Italia meridionale. Il rapido e tumultuoso scioglimento dell'esercito garibaldino, le divergenze tra moderati e democratici, sui metodi e sugli sviluppi dell'unificazione, erano stati elementi a favore della "guerriglia" cui Francesco II, fin da Gaeta, aveva fornito organizzazione ed aiuti. Vittorio Emanuele II e Cavour, avevano compiuto, infatti, una scelta prioritaria: prima liquidare la dittatura garibaldina (con il suo esercito di parte) ancora parzialmente controllata dai democratici e poi rivolgersi contro Francesco II, il suo esercito regolare e le "bande reazionarie" che già avevano cominciato ad operare attivamente specie nelle provincie settentrionali del Regno. I timori di una rivoluzione "mazziniana" a Napoli e Palermo, i furori della parte democratica, i timori della anarchia, con i temuti sviluppi di repubblicanesimo e disordine sociale, rinviavano, per il momento, una azione militare più decisa. Quando, infine, "cassato" l'esercito garibaldino, ed eliminato il dualismo militare insieme con l'ormai fastidioso Garibaldi, partito per Caprera con la sola scorta di un sacchetto di sementi ("quasi novello Cincinnato" notava ironicamente il De Sivo) la direzione esclusiva della politica piemontese, che d'ora in poi converrà pur chiamare "nazionale", fu per lunghi anni esclusivamente nelle mani dei moderati, una vera e propria dittatura, sia pure larvata a mo' di una politica rigorosamente conservatrice nel campo politico e sociale. Di questa, obiettivo principale, e vittima fu il Mezzogiorno poiché, adottato il principio di una via repressiva di fronte all'insorgere dei tanti e cocenti problemi meridionali, non furono, adottati, né quantomeno previsti, provvedimenti riparatori di carattere sociale. Questo "vuoto" di attenzione e di impegno non poté non essere una componente importante nella nascita del "brigantaggio". Vi si aggiunga la durezza eccezionale, ed eccessiva, della repressione, non commisurata alla caratterizzazione di reato politico e spiegabile, almeno in un primo tempo, con l'intervento nella lotta armata, a fianco e più dei piemontesi, di guardie nazionali e corpi franchi di volontari, espressi dalla borghesia moderata agraria. Manifestazione di una lotta di classe esercitata dalla parte padronale, verso la massa contadina a contestare la sollevazione, ancorché primitiva e violenta, contro una secolare oppressione. Eguali sentimenti doveva adottare, subito dopo, e i motivi non sono così chiari, lo stesso esercito piemontese. Forse per l'odio e il settarismo di classe dei generali della aristocrazia sabauda verso i "cafoni" in rivolta. "La piu' grande canaglia dell'ultimo ceto" li qualifica il generale Solaroli. Una sprezzante definizione inspirata al più schietto pregiudizio sociale! L'aver lasciato spazio iniziale alla organizzazione partigiana fece si che questa si estendesse rapidamente dagli Abruzzi, la frontiera più vicina e meno controllata, anche per la tolleranza dei francesi, a tutto il Mezzogiorno continentale. (In Sicilia la "reazione" fu più sporadica e meno vistosa). Città anche di una certa importanza furono investite e messe a sacco dalle bande guerrigliere. I tre mesi della spedizione Borjes segnarono un notevole livello anche sul piano strettamente militare. Il 16 novembre 1861 (dopo una serie di successi) i reparti guerriglieri di Crocco e dell'ex cabecilla avrebbero dovuto investire Potenza. Il presidio disponeva di ben poche forze e già rassegnate alla sconfitta. Ma dopo una notte di timori, e spaventi, il paventato attacco non ebbe luogo. Anzi i guerriglieri furono visti levare il campo. Cosa era accaduto? Perché Borjes, con i suoi pochi fedeli, era stato circondato e disarmato dagli uomini di Crocco? E proprio alla vigilia di un successo, ormai scontato, che sarebbe stato politico oltre che militare? La realtà fu che, in quella notte, i capi della rivolta contadina, proprio a causa di quell'atteso e ormai imminente successo politico, che sarebbe stato di Francesco e della dinastia Borbone, intesero la profonda differenza tra la loro guerra e quella del monarca esule. E optarono per la loro! Cosi com'era, rivendicazionista e giustizialista, la loro guerra "sociale". Più che a Gaeta, di fronte alle sopraffazioni e alle cannonate di Cialdini, potremmo dire che fu sotto Potenza che Francesco perdette definitivamente il regno. Di converso la guerra contadina diventò più sincera, oseremmo dire "autentica". Le fucilate che spensero la vita di Borjes furono - secondo taluni autori - il segnale che attestò la fine del "brigantaggio politico". Il fenomeno, insomma, tolto il maggiore esponente degli interessi legittimisti, non sarebbe stato ormai che una manifestazione di delinquenza comune, di cieca rapina, da parte della "feccia" della plebe contadina. La suddivisione è convenzionale e arbitraria, nota a questo riguardo il Molfese. E in verità siamo anche noi del parere di questo studioso. E da parte nostra vorremmo aggiungere che, spogliato dei galloni e dei pennacchi legittimisti, il brigantaggio marca ancora di più il sua carattere sociale. Già con la sparizione di Borjes (lo stratega delle vittoriose battaglie condotte con tecnicismo militare) il brigantaggio ritorna alla sua tattica di pretta guerriglia Mordi e fuggi! Sono rapide sortite dai boschi, incendii di masserie, sequestri di "galantuomini". Era la tattica che aveva prediletto, al pari degli altri, Carmine Crocco, rifiutando le teorie guerresche di Borjes - Non si può fare la guerra con i fucili da caccia! aveva opposto allo spagnuolo, fin dal primo incontro nel bosco di Lagopesole. L'attività brigantesca quindi non ebbe sosta, né perse il mordente, pur senza più registrare gli spettacolosi successi militari che caratterizzarono il breve e tormentato sodalizio tra l'ex cabecilla e il generale contadino. Lo stesso generale La Marmora era costretto, privatamente, a convenirne dichiarando "Mentre nei miei proclami ero obbligato a dire che il brigantaggio era spento, vedevo purtroppo che non lo era". La realtà fu che la guerra, senza più scontri aperti (come ad esempio, a Stigliano) si riconvertì in guerriglia. Non certo meno fitta di lutti, di sangue, di morti, di supplizi. E va notato anche, in questa nuova fase del brigantaggio, un interessante fenomeno. Le donne che, nei primi tempi della guerra civile, partecipavano alla ribellione soprattutto come staffette, informatrici o, secondo il linguaggio delle autorità, come "manutengole", diventavano ora, anch'esse, vere e proprie "guerrigliere". E cioè, mogli o amanti di briganti, partecipavano ai combattimenti, maneggiando il fucile e sparando né più né meno che i toro uomini. Vale la pena ricordare qualche nome: Maria Oliviero, che una rara fotografia dell'epoca mostra bruna e bellissima e, per una strana avventura del fotografo ritratta in un atteggiamento, diremmo oggi, quasi da vamp. Era l'amante di Pietro Monaco. E poi: Maria Capitanio, Rosa Reginella, Gioconda Marini e fra tante altre, non ultima, Giovanna Tito, amante di Crocco. La moglie legittima del generale, Olimpia, era compagna, invece di un altrettanto noto capo guerrigliero: Chiavone. Alcune di queste donne morirono negli scontri. Alcune, in verità, poche, furono fucilate. Altre furono condannate ai lavori forzati o al "domicilio coatto". Per scampare la vita, quando il combattimento volgeva alla sconfitta, denudavano prestamente il petto o arrovesciavano la gonna per attestare, senza equivoci, ai bersaglieri incalzanti con le baionette, la loro qualità di appartenenti all'altro sesso. Con il 1863 il brigantaggio quantitativamente decrebbe. La commissione d'inchiesta, promossa nei primi di quell'anno, dal Parlamento di Torino (era stata anche promossa una sottoscrizione nazionale a sollievo dei danneggiati del brigantaggio che aveva fruttato la somma, che pareva eccezionale, in quei tempi, di quasi un milione) si era spinta fin nelle più lontane e desolate località del Mezzogiorno. Ne ebbe origine la famosa relazione Massari, che rimane il maggior documento storico su quel periodo. Dal lavoro e dalle proposte della commissione venne fuori la legge Pica. Una legge "eccezionale": che istituiva consigli e tribunali di guerra, dava facoltà di formare squadriglie di volontari, istituiva la giurisdizione militare e il "domicilio coatto" a discrezione delle Giunte provinciali di Pubblica Sicurezza. L'anno successivo la legge Pica, scaduta, fu sostituita da un'altra legge ancora più severa, detta "di repressione". Le leggi eccezionali cessarono con la fine del 1865. E da quella data cominciò a sparire il "grande brigantaggio". Rimanevano in piedi solo poche, e rade, bande isolate. Continuarono peraltro gli arresti e le fucilazioni per quelli presi con le armi alla mano. Molti, dei guerriglieri, si costituirono. Altri, come Crocco, riuscirono a riparare negli Stati della Chiesa. (Ma anni dopo, caduto il Governo pontificio, Crocco sarà prelevato dal Governo di Torino, processato e condannato). Nel 1870 il "brigantaggio" almeno nelle sue forme più organizzate e vistose, non esisteva più o quasi. Nascevano, di converso, i primi fenomeni dell'emigrazione, fenomeni più vivi in quelle parti del Mezzogiorno, come la Lucania, la Calabria, il Cilento, l'Irpinia, il Sannio, più direttamente investite dal brigantaggio. Un nuovo, drammatico aspetto della "questione meridionale"! Furono Borjes e Crocco (ma non mancarono i personaggi minori, come il coraggioso e crudele Ninco Nanco e tanti altri) gli uomini di maggior spicco di quel tormentato periodo. E ben li possiamo assumere ciascuno per la sua parte, a esponenti tipici, addirittura emblematici, delle idee e degli interessi che rappresentavano. Meno fortunato (se cosi si può dire) di Borjes che concluse nel sangue la sua breve vicenda, Crocco sopravvisse alla sua gloria per spegnersi, molti anni dopo, nei ceppi di Portolongone. Un amabile vecchio, tutto bianco, che sorrideva affabilmente agli psichiatri che ogni tanto si recavano a rendergli visita e a misurargli il cranio. (Cominciava la moda di Lombroso). A loro l'ex guerrigliero recitava il suo epitaffio, composto da lui stesso in versi:E' teatro per tutti la natura e ognuno rappresenta la sua scena Napoleone con la sua bravura nell'isola mori di Sant'Elena Cosi Crocco gia' umile pastore dai briganti promosso generale dopo lotte di sangue e di terrore scontò in galera lo già atto male. Ma, nella sua migliore stagione, tra i boschi di Lagopesole e sui greti del Sauro, Crocco era Pancho Villa. E i suoi peones (quei contadini lucani con i volti di pietra e gli occhi fissi, come appaiono nelle rare fotografie dell'epoca, avvolti nei loro tabarri e con la doppietta inseparabile sulle ginocchia) scorrevano al galoppo flagellando e vincendo. Non neghiamo che Crocco, in quegli anni, dal 1861 al 1865, possa aver considerato le sue masse un vero e proprio esercito di liberazione. Sfrondata dei pennacchi romantici, la sua fredda vocazione all'incendio e al sangue era riscattata dalla consapevole, necessaria ferocia della lotta proletaria. Sangue chiama sangue. Crocco era il vendicatore di secoli di sangue, di sofferenza e di soprusi. Ebbe questo ex capraio, una dimensione rivoluzionaria, quella che era (anche se inconscia nei più) in quelli che guadagnavano la montagna per opporsi a un sistema sociale che, ancora, pur mutate insegna e bandiere, era contro di loro. Anche da questo si allargava e prendeva corpo la "questione meridionale". La difficile sutura tra le due Italie, la crisi economica, la crisi sociale: il Mezzogiorno soccombeva al Nord già industrializzato, più vivo, più consapevole di se stesso e dei suoi obiettivi. A partire dal 1870 ex briganti, i loro figli, i loro nipoti saranno la gran parte degli emigranti per le Americhe. Già si rassomigliano: gli stessi vestiti, le stesse faccie di pietra gli stessi occhi fissi: le fotografie dei primi del nuovo secolo, che li ritraggono - torme senza nome -ammucchiati sui ponti degli steamers, li identificano in quelli del 1861. I vestiti sono anche gli stessi, di poveri contadini, i protagonisti e le vittime delle guerre sociali del Mezzogiorno. Non si dimentichi - scriveva Michele Cianciulli - che una vera storia del brigantaggio meridionale dovrebbe avere di necessità, per sua seconda parte, una storia dell'emigrazione e del lavoro meridionale dopo il 1870. Questa seconda parte servirebbe ottimamente a spiegare, ad illuminare, e, anche, a ridurre molto il significato della prima. Il meridionale fu brigante non per natura, ma perché costretto dalle più dure e dolorose necessità. Cercava lavoro e trovava la più squallida delle miserie: cercava giustizia e trovava la più infame delle ingiustizie la prepotenza rivestita e mascherata di legalità". Erano, gli emigranti (dal 1870 in poi oltre 50.000 ogni anno dal solo Mezzogiorno continentale) gli eredi della sconfitta di quell'ultima guerra sociale che fu il brigntaggio post unitario anche se l'agiografia post risorgimentale (a parte ovviamente gli autori legittimisti, citiamo soltanto il De Sivo), ha rilevato solo il lato "bestiale" e "turpe" della professione di brigante. Furono, è pur vero, uomini feroci e assetati di sangue, responsabili di innumerevoli delitti. Ma, se è vero che la rivoluzione contadina si nutrì di fiamme e di sangue, la repressione non fu da meno. La realtà proletaria del Mezzogiorno aveva ancora una volta (come dopo il 1799 e dopo il decennio francese) cercato di inserirsi nello Stato e ancora una volta era stata respinta con le canne dei fucili dei combattimenti e dei plotoni di esecuzione. Il brigantaggio post-unitario italiano, pertanto, evade dai limiti strettamente nazionali dei suoi confini geografici: ha dimensioni universali, come universali sono state e rimangono le figure di Pancho Villa e di Emiliano Zapata (cui Crocco ex pastore di capre e poi generale contadino singolarmente assomiglia, con i suoi briganti che non si discostano molto dai peones) come universale è sempre la vicenda dell'antica lotta dei poveri per assicurarsi più civili condizioni di vita, un avvenire ai figli, contro gli interessi e gli egoismi delle classi più fortunate. Crocco generale contadino era stato pastore di capre sulle montagne del Vulture, e la sua banda e tutte le altre bande della Calabria, del Cilento, degli Abruzzi, dell'AveIlinese erano l'esercito dei disperati e dei morti di fame che ingannati dalla rivoluzione unitaria (Viva Vittorio Emanuele!) avevano tentato una loro rivoluzione (Viva Francesco!), un esercito disordinato e slegato che Borjes non riuscì a riunire (e pagò con la vita il suo insuccesso). Fu, il brigantaggio, una manifestazione di carattere sociale, una grande rivolta contadina, come ora, da poco, si comincia universalmente a riconoscere, fenomeno che va guardato e compreso anche in relazione alle analisi e alle prospezioni sociologiche su una società in corso di trasformazione come, nonostante tutto, nella morsa della evoluzione storica, è anche la società meridionale. |
L'UNITA' D'ITALIA - GUERRA CONTADINA E NASCITA DEL SOTTOSVILUPPO DEL SUD |
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di ROSA CUTRUFELLI da: "PIEMONTISI, BRIGANTI E MACCARONI" Guida editore, Napoli, 1975 a sua volta tratto da: "L'Unità d'Italia - Guerra contadina e nascita del sottosviluppo del sud" Bertani editore, Verona, 1974 |
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…. L'avanzata garibaldina nel Mezzogiorno d'Italia rompe i rapporti sociali già profondamente scossi; nelle campagne, dove già si avevano notevoli fermenti, scoppia in tutta la sua violenza la lotta di classe; le occupazioni di terre non si contano: la borghesia deve prendere le armi per difendere, in prima persona, le terre che ha usurpato alla comunità. In Sicilia, dove le particolari condizioni locali rendevano piu' facile riconoscersi in una lotta antiborbonica, i contadini, si erano subito schierati al fianco di Garibaldi. Questo avviene in un primo momento anche nel Meridione continentale: le speranze delle masse rurali si indirizzano ancora una volta verso la rivoluzione garibaldina (ed è così sfatata la leggenda che vuole i contadini meridionali a tutti i costi legati alla tradizione e nemici di ogni cambiamento). Anche i briganti (che della società contadina fanno parte e che alla guerriglia contadina forniranno uomini e capi) riconoscono in Garibaldi un capo-popolo: lo vedono agire, lo sentono parlare come un "vero liberatore del popolo" e quindi combattono per lui, dandogli un aiuto che spesso è decisivo (ad es. la banda Muraca, in Calabria). Crocco, Ninco Nanco, Pietro Monaco e molti altri che diventeranno capi-briganti prendono parte attiva all'insurrezione, accorrendo all'appello di Garibaldi. Ma i promotori delle insurrezioni sono quasi esclusivamente grandi proprietari, anche se "illuminati". Si chiamano Plutino o Musolino a Reggio, Stono a Catanzaro, Morelli a Cosenza, Pace a Castrovillari ……… Ma anche nell'Italia meridionale, come già in Sicilia, i nodi vengono subito al pettine e gli interessi di classe cominciano subito a contrapporsi. I decreti di Garibaldi che rimangono lettera morta, la repressione effettuata dalla colonna di Bixio nella Sicilia orientale, la collaborazione sempre più stretta con i "galantuomini", la complicità e l'aiuto che le colonne garibaldine offrono immediatamente ai possidenti dell'Italia meridionale per reprimere i moti contadini, fanno si che quando l'11 settembre le truppe piemontesi varcano i confini dello Stato Pontificio per raggiungere Garibaldi, la "reazione" contadina sia già un fatto irreversibile, in tutto il meridione continentale ………. La speranza di riuscire a raggiungere certi obiettivi già ben precisati, come appunto la spartizione delle terre, spinge in un primo momento i contadini a una lotta antiborbonica. E i governi prodittatoriali, in verità, tentano in un primissimo tempo di conquistarsi il favore popolare con promesse equivoche e decreti demagogici. Ma i decreti vengono ben presto aboliti, uno dopo l'altro, e ogni illusione svanisce rapidamente ……….. Sarà l'irrigidirsi della borghesia, sorda alle richieste dei contadini, che reclamano la restituzione delle terre demaniali usurpate, e l'atteggiamento di assoluta intransigenza a questo riguardo assunto anche dalle autorità costituite a rendere esplosiva la situazione, e a radicalizzare la lotta contadina, spingendola nello stesso tempo a un'alleanza con il Borbone. Alleanza che si stabilisce dunque in un secondo tempo e non è suggerita di certo da "un'antica devozione feudale" al sovrano. L'ampiezza e la forza del movimento contadino costringe d'altra parte la borghesia ad abbandonare ben presto la maschera "populista" e rivoluzionaria, a sconfessare ogni tentativo anche vagamente riformista, e ad imboccare apertamente la strada della repressione armata. Si moltiplicano, in tal senso, gli episodi significativi. Il 17 maggio Garibaldi, in Sicilia, aveva abolito il dazio sul macinato e sospeso il pagamento di ogni imposta. In Lucania il governo prodittatoriale, il 19 agosto, fa la stessa cosa. In molti altri luoghi, man mano che si costituiscono i governi pro-dittatoriali, con mossa scopertamente demagogica (e sempre sotto la pressione delle masse) si diminuisce il prezzo del sale, si aprono le carceri e si aboliscono le pene per i reati contro la religione. Ma mentre Garibaldi il 2 giugno aveva decretato la divisione delle terre demaniali, in settembre in Calabria si limita a concedere il diritto di semina e di pascolo. Per di più, in Lucania e in altri luoghi fin dalla fine di agosto il governo prodittatoriale decreta pene severissime per "ogni sboscamento o dissodamento di fondi di proprietà pubblica o privata, non esclusi i demaniali del Comune, commesso con attruppamento". A Rogliano Garibaldi concede alle popolazioni il diritto di semina sulla Sila. Appena cinque giorni dopo l'emanazione di questo decreto, Donato Morelli, nominato dallo stesso Garibaldi capo della provincia di Cosenza, emette un'ordinanza che praticamente annulla quella del dittatore; subito dopo comincia a dare disposizioni per organizzare la repressione dei moti di protesta contadini che egli definisce "manifestazioni di brigantaggio". Il 19 settembre viene presentata a Garibaldi, a Napoli, un'istanza degli insorti di Senise, che chiedevano fossero loro divise le terre di un fondo comunale chiamato, "Pantano", che già dal governo borbonico era stato destinato alla quotizzazione. L'istanza viene trasmessa in ottobre al governatore di Basilicata che risponde di non potere, per il momento, "dar corso a siffatta petizione" così come a molte altre simili che gli erano state inoltrate ………. Assai presto si chiariscono dunque i termini dello scontro. E l'eroe Garibaldi si rivela alla prova come "il più religioso sostegno della proprietà". A questo punto i contadini sono spinti dagli obiettivi di classe della loro lotta ad attaccare a fondo la borghesia agraria, rompendo così il fronte di lotta antiborbonico e capovolgendo addirittura la situazione. Francesco II, nemico dei "piemontesi" e dei possidenti vendutisi al nuovo regime, diventa automaticamente un alleato, l'unico possibile in quel momento e in quella situazione. Ma egli non riuscirà mai ad avere, in tale alleanza, una posizione egemone, né ad indirizzare la fisionomia della guerra. Che l'alleanza col Borbone fosse sentita come strumentale dai contadini-briganti, stanno a dimostrarlo mille fatti, mille citazioni; l'assalto dato indifferentemente alle case dei signori di fede borbonica e a quelli di fede liberale, la risposta di Cipriano La Gala a un avvocato che, prigioniero, sperava di essere rilasciato sostenendo la sua lealtà al Borbone: "Tu hai studiato, sei avvocato e credi che noi fatichiamo per Francesco II? "; il "cinico motto" di Vincenzo Nardi di Ferrandina, che entra nella banda di Crocco col nome di D'Amati e il grado di colonnello: "Si dice che Francesco II è un ladro. Or bene: io ladro di professione, vengo a restaurare un ladro sul trono". Nessuna illusione sulla "bontà" del vecchio governo. Tutto sta dunque ad affermare l'autonomia della lotta contadina o, quanto meno, l'assoluto prevalere, in tale lotta, di autonomi obiettivi di classe. Né sembra più possibile affermare, a questo punto, che le sollecitazioni borboniche furono la causa quando invece evidentemente sono una delle sue conseguenze - e nemmeno fra le più importanti. |
PER IL TRONO E PER L'ALTARE |
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di ANTONIO CIANO da: "I Savoia e il Massacro del Sud" - Grandmelò, ROMA, 1996 |
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Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta: tre mesi di resistenza eroica; tre mesi di sofferenze disumane; tre mesi di massacri perpetrati dal generale Cialdini. 160 mila bombe rasero al suolo la città tirrenica e fiaccarono per sempre la sua vitalità ma non la sua storia. Eroico fu Francesco II, il giovane re napoletano, ed eroica fu la sua consorte, regina Sofia; eroica fu la truppa; eroica fu la gente di Gaeta che quasi in massa entrò nella cittadella fortificata per difendere la propria libertà e la propria dignità. Camillo Benso di Cavour diede al generale Cialdini un ordine sacrilego ed assassino: distruggere Gaeta in quanto stava ritardando i tempi per il suo disegno. Il Primo Ministro piemontese sapeva che il Piemonte era alla bancarotta, come sapeva che la sifilide lo stava divorando. Prima di morire voleva vedere attuato il suo capolavoro: la cosiddetta unità d'Italia. Il 13 febbraio 1861 è una data che ogni Meridionale dovrebbe memorizzare perché da allora iniziò una resistenza senza quartiere contro gli invasori savoiardi che al Sud nessuno voleva. Nacque in quel giorno infausto la questione meridionale. Il Sud ricco e prospero venne saccheggiato delle sue ricchezze e delle sue leggi; venne immolato alla causa nazionale; venne immolato alla massoneria che da Londra dirigeva e stabiliva il nuovo assetto mondiale. Il Regno delle Due Sicilie, unico stato libero ed indipendente da influenze straniere, fu dato in pasto agli affamati e barbari piemontesi. Il Piemonte, per conto di Mr. Albert Pike, Gran Maestro Venerabile della massoneria di Londra, nel 1861, cominciò la prima pulizia etnica della storia del nostro paese. A metà agosto i giornali di regime stampavano con enfasi le vittorie militari dell'esercito sabaudo e fecero passare per una grande battaglia la scaramuccia di Castelfidardo, mentre calavano una cortina di silenzio sugli eccidi perpetrati dai generali felloni e criminali di guerra contro cittadini inermi. Cannoni contro città indifese; fuoco appiccato alle case, ai campi; baionette conficcate nelle carni dei giovani, dei preti, dei contadini; donne incinte violentate, sgozzate; bambini trucidati; vecchi falciati al suolo. Ruberie, chiese invase, saccheggiati i loro tesori inestimabili, quadri rubati, statue trafugate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse per decreto. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871 un milione di contadini furono abbattuti. Mai nessuna statistica fu data dai governi piemontesi. Nessuno doveva sapere. Alcuni giornali stranieri pubblicarono delle cifre terrificanti: dal settembre del 1860 all'agosto del 1861 vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati, 60 ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 1.428 comuni sollevati. Naturalmente questi dati erano sottostimati almeno di cento volte; le notizie, il ministero della guerra le dava col contagocce, in quanto all'estero doveva apparire tutto tranquillo, e mai giornalista fu ammesso a constatare ciò che stava accadendo nelle province meridionali. Il movimento rivoluzionario anti piemontese, chiamato brigantaggio, in realtà fu un grande movimento di massa. Molti tribunali definirono i briganti partigiani, regi o legittimisti: difendevano la loro patria, il loro Re e la chiesa cattolica da un'orda massonica che voleva colonizzare il Meridione …….. Le cifre che pubblicavano i giornali stranieri, come abbiamo detto, erano sottostimate; il governo piemontese aveva dato ordine di mettere a ferro e fuoco il Regno delle Due Sicilie e dette carta bianca ai vari comandanti militari per emanare bandi terroristici. L'esercito piemontese, anziché essere impiegato per prestare assistenza alle persone affamate da mesi di anarchia amministrativa, fu ammaestrato ed addestrato agli eccidi di popolazioni inermi, a rappresaglie indiscriminate, al saccheggio, alla fucilazione sommaria dei contadini colti con le armi in mano o solamente sospettati di manutengolismo. Alcuni comandanti piemontesi (1) emanarono, fra il 1861 e il 1862, bandi che i nazisti mai avrebbero sognato di applicare a popolazioni di origine germanica. Naturalmente i piemontesi non erano italiani e si sentivano in diritto, contro tutte le convenzioni, contro il diritto internazionale, di poter fucilare chiunque trasgrediva i molteplici divieti, che, di fatto, paralizzarono la vita sociale, politica ed economica di tutto il Mezzogiorno d'Italia ……….. Noi diciamo semplicemente che erano dei criminali di guerra e non riusciamo a capire, come, ancora oggi, nelle scuole non si insegni ai ragazzi la vera storia del Risorgimento piemontese che per il Sud, in realtà! fu vera colonizzazione e sterminio di massa: arresti di manutengoli o solo di sospettati, fucilazioni, anche di parenti di partigiani, o solamente di contadini; stato d'assedio di interi paesi. L'aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, generale Solaroli (2) definiva i contadini la più grande canaglia dell'ultimo ceto. I contadini dovevano essere tutti fucilati, senza far saper niente alle autorità. Imprigionarli non era conveniente perché, una volta in galera, lo stato doveva provvedere al loro sostentamento. …….IL NORD NON LASCERÀ AI MERIDIONALI NEMMENO GLI OCCHI PER PIANGERE Si era creata, tra questi generali, assassini di contadini inermi, una sorta di consorteria terroristica; sembrava che si fosse innescata tra loro una classifica di coglioneria tramutatasi in barbarie. Ebbene, il civilissimo e laborioso Mezzogiorno d'Italia, patria di Pitagora, Archimede e Cicerone, di Tommaso Campanella e Giordano Bruno, di Giovanni Caboto ed Ettore Fieramosca, patria dei Cesari che diedero la civiltà al mondo, di colpo, diventò primitivo e barbaro agli occhi di questi generali felloni e assassini. Come avevano osato quei cafoni ribellarsi alla casta militare e parassita? Come si erano permessi di abbandonare la zappa per prendere il fucile contro il civilissimo Piemonte? Contro quel Piemonte che voleva la Patria Una e indivisibile? Contro quel Piemonte che aveva venduto Nizza, la Costa Azzurra e la Savoia ai francesi del massone Napoleone III? E che nel 1945 ha dovuto cedere l'Istria alla Iugoslavia? E la Corsica? Chi l'ha venduta alla Francia? I Borbone avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c'era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferirono tutte le sue ricchezze nel Piemonte pezzente e morto di fame. Vittorio Emanuele II, che era venuto "... non ad imporci la sua volontà, ma a ripristinare la nos tra" (3) diede ordine ai suoi generali criminali di guerra di fare l'Italia; il Sud sta pagando ancora lacrime e sangue. Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861 disse: "Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere". Dal 1860 al 1870 i nuovi pirati, ossia i piemontesi, riuscirono a depredare tutto quello che c'era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d'arte di valore inestimabile, quadri, vassoi, statue. Nelle casse piemontesi finirono circa seicento milioni ricavati dalla vendita dei beni ecclesiastici e altrettanti dalla vendita dei beni demaniali che i Borbone, da sempre, riservavano ai contadini ed ai pastori. Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava lavoro a settemila persone con l'indotto; i monti frumentari, le scuole pubbliche, e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali, i quali, coraggiosamente preferirono andare partigiani sui monti dell'Appennino, nelle sue foreste a morire, piuttosto che veder calpestato il sacro suolo della patria napoletana dalle orde di assassini e ladroni del nord. Erano così rapaci i fautori dell'Italia Una che a Napoli rubarono persino gli specchi e le porcellane dell'antica fabbrica di Portici che ornavano il palazzo reale, dal quale furono trafugate anche le batterie della cucina. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento. Tali opere erano state create da Benvenuto Cellini. Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, i contadini e gli operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l'emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano. Tutto cominciò quando il famoso, prode, assassino e criminale di guerra, Ferdinando Pinelli, varcò il Tronto con la sua armata e fu battuto dai contadini dell'Ascolano. Fu preso a sassate, ed una pietra colpì persino l'ardito generale che, adirato, dettò il seguente bando: "Ufficiali e soldati! La vostra marcia tra le rive del Tronto e quelle della Castellana è degna di encomio. S.E. il Ministro della Guerra se ne rallegra con voi. Selve, torrenti, balze nevose, rocce scoscese non valsero a trattenere il vostro slancio; il nemico, mirando le vostre penne sulle più alte vette dei monti ove si riteneva sicuro, le scambiò per quelle dell'aquila Savoiarda, che porta sulle ali il genio d'Italia: le vide, impallidì e si diede alla fuga. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste, ma nulla è fatto quando qualche cosa rimane da fare. Un branco di quella progenie di ladroni ancora si annida tra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è delitto. Vili e genuflessi, quando vi vedono in numero, proditoriamente vi assalgono alle spalle, quando vi credono deboli, e massacrano i feriti. Indifferenti a ogni principio politico, avidi solo di preda e di rapina, or sono i prezzolati scherani del vicario, non di Cristo, ma di Satana, pronti a vendere ad altri il loro pugnale. Quando l'oro carpito alla stupida crudeltà non basterà più a sbramare le loro voglie, noi li annienteremo; schiacceremo il sacerdotal vampiro, che con le sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall'immonda sua bava, e da quelle ceneri sorgerà rigogliosa e forte la libertà anche per la provincia ascolana". Questo criminale osava chiamare pro genie di ladroni coloro i quali erano andati sui monti a difendere la loro patria da un'orda di pirati e di barbari …….. Nel giro di pochi anni il surplus delle province napoletane, la ricchezza che avrebbe dovuto essere destinata alla riproduzione del ciclo economico e al rinnovamento del paese, fu trasferito nelle tasche di finti finanzieri e veri profittatori del regime nordista. Il Piemonte ha compiuto un capolavoro: uno Stato con due Nazioni ……… Noi siamo nati nelle contrade del Regno delle Due Sicilie (4). A Sud di esso nacque la prima civiltà occidentale. Pitagora, Archita, Timeo, Filolao, Ocello, Alesside, Zaleuco, Caronda, Ibico, Stesicore, Milone, Alcmeone, Archimede, Damea, Learco, Zeusi scrissero di poesia, di filosofia, di storia, di fisica, di matematica, di pittura, di scultura, di architettura. In Sicilia andarono ad inebriarsi di cultura Platone e Numa; la Grecia illuminò il mondo e Roma gli diede leggi e ordine. Nelle nostre terre nacquero Cicerone, Cesare, Ottaviano, Orazio e Mario, vincitore dei Cimbri. Qui si sviluppò in tutta la sua potenza la mente umana, e con essa arti e mestieri, ed il tutto modello territori e città. Qui, nel Sud, dopo l'età barbarica, risorgevano le prime faville dell'italico ingegno: Giovanni Caboto da Gaeta ed il Tarcagnota, Flavio Gioia da Amalfi, Federico II, San Tommaso d'Aquino, Pier delle Vigne, Ruggiero di Lana, Giovanni da Procida, il Sannazzaro, il Pontano, il Tasso, e poi Ettore Fieramosca da Capua, Giordano Bruno da Nola, grande filosofo, che combatté la cecità della chiesa, e Tommaso Campanella che tra i primi al mondo dettò i principi del socialismo e del comunismo nella sua "La Città del Sole", idee queste ultime che Ferdinando IV di Borbone applicò a San Leucio. Nella nostra terra baciata dal sole e bagnata di ingegno nacquero Telesio e Giambattista Vico, il Genovese, il Pagano, il Filangieri. Il Vesuvio sprigionò dalle sue viscere la musica di Paisiello e l'Etna la dolcezza delle note di Vincenzo Bellini. Napoli, opera di tremila anni, terza città d'Europa nel 1860, per numero, prima per naturali delizie, unica per l'insieme di grandezze artistiche e geologiche, prima pel suo monumentale complesso di mille arti, che tuttavia serba gli avanzi della sapienza greca e romana, e le grazie e i trovati del moderno industrioso incivilimento. Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l'invidia delle genti: dappertutto scuole gratis, teatri, opere d'ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo. Non c'era disoccupazione. Era nato il primo stato Interclassista, il primo stato Socialista, il primo stato Illuminato del mondo. Doveva essere abbattuto. La massoneria non perdona chi vive in modo dignitoso e libero. La massoneria ha bisogno di servi, di schiavi, e i liberali erano i loro lacchè. Alessandro Bianco, conte di Saint-Iorioz, piemontese, sterminatore anche lui di gente pacifica, ebbe momenti di lucida analisi scrivendo le sue memorie sul brigantaggio e le cause che determinarono la rivolta contadina post-unitaria: "...Il Piemonte si è avvalso di esuli ambiziosi, inetti, servili, incuranti delle sorti del proprio paese e preoccupati soltanto di rendersi graditi, con i loro atti di acquiescente servilismo, a chi, da Torino decide ora sulle sorti delle province napoletane. E accanto a questi uomini, adulatori e faziosi, il Piemonte ha posto negli uffici di maggiore responsabilità gli elementi peggiori del paese: figli dei più efferati borbonici, per fama spioni pagati dalla polizia, sono ora giudici di mandamento o Giudici circondariali, sotto prefetti o delegati di polizia; negli uffici sono ora soggetti diffamati e ovunque personale eterogeneo e marcio che ha il solo merito di essersi affrettato ad accettare il programma Italia e Vittorio Emanuele ed una sola qualità, quella di sa per servire chi detiene il potere" (5). L'ipocrisia ed il servilismo di questi uomini aveva un suo fondamento, l'arricchimento personale. Questi, della Patria, se ne infischiavano come se ne fregavano se migliaia di loro paesani venivano passati per le armi, anzi erano proprio loro a darli in pasto ai militari perché non fossero d'ostacolo alle loro ruberie. La stampa di regime faceva il resto. Tutto ciò che era o puzzava di Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva addidato al pubblico disprezzo. Giuseppe Massari, per esempio, scriveva al Cavour, che le truppe piemontesi negli Abruzzi e nel Molise vennero accolte come "truppe liberatrici e la gioia della folla era indescrivibile e grande l'entusiasmo popolare". Questo Sig. Massari che poi fece parte della commissione d'inchiesta sul brigantaggio del Sud, voleva apparire agli occhi del Primo Ministro come colui il quale aveva fatto il miracolo di far diventare quelle popolazioni tutte filo piemontesi. La realtà era ben diversa; sia gli abruzzesi che i molisani accolsero i piemontesi a fucilate. I liberal massoni meridionali, chiamati feccisti, non erano dissimili dai loro consanguinei torinesi e londinesi, ma almeno questi ultimi non erano ipocriti. Infatti James Lacaita (6), deputato di origine inglese, mandò un memoriale a Cavour in cui fece presente che: ....1 liberali meridionali che hanno accettato il programma Italia e Vittorio Emanuale si affannano a far presente che tutti sono favorevoli all'immediata annessione a cui si oppongono soltanto i mazziniani. Non lasciatevi trarre in inganno dai risultati del recente plebiscito, (una farsa!) gli amici che parteggiano per l'annessione rappresentano una piccolissima ed insignificante minoranza". Una volta al potere quest'accozzaglia liberal-massonica inasprì fino all'inverosimile gli animi dei contadini che reclamavano giustizia e ricevevano torti; reclamavano i terreni demaniali e venivano scacciati con la forza da quelle terre; chiedevano pane e gli si dava morte. A far traboccare la goccia dal vaso fu il bando che rivedeva la presentazione dei soldati di leva e degli sbandati entro il 31 gennaio 1861. Ovunque fosse stato affisso si verificarono disordini ed incendi di municipi; inizio così la caccia ai giovani a agli sbandati con rastrellamenti scientifici. Tutti i renitenti venivano fucilati sul posto. Cominciò così la resistenza armata contro gli invasori del Regno delle Due Sicilie. Gli ufficiali piemontesi, criminali di guerra, non badavano alla forma e alle abitudini dei meridionali; la fucilazione divenne una cosa ordinaria e cominciò così l'epopea della classe contadina, gli eccidi di intere popolazioni, gli incendi dei raccolti e delle città ritenute covi dei briganti. I militari piemontesi, i cosiddetti azzurri sabaudi, in nove mesi trucidarono 8968 contadini, senza pietà; eseguivano ordini criminali ed i superiori davano loro facoltà di razzia e di saccheggio. Per sfuggire ai rastrellamenti e quindi alla fucilazione certa, i giovani meridionali furono costretti ad andare ad arruolarsi nelle bande partigiane che inflissero non poche sconfitte ai ladroni piemontesi. Questi allora cominciarono ad incendiare paesi interi per incutere timore, paura e terrore. In poco tempo tutto il Sud insorse contro i nuovi invasori e pagò un prezzo altissimo in morti. Scurcola fu devastata dai piemontesi e così Carbonara. Avigliano, Gioia del Colle e tante altre città furono bruciate ed i loro abitanti trucidati: Pontelandolfo, Casalduni, Venosa, patria d'Orazio, Barile, Monteverde, S. Marco, Rignano, Spinelli, Montefalcione, Auletta ed altre cento città. I loro fieri abitanti si batterono per una causa giusta e furono puniti dai Savoia: fucilati, massacrati, violentati. Mai conosceremo il numero dei contadini immolati, fucilati, trucidati. Antonio Gramsci, nato ad Ales in Sardegna ma originario di Gaeta, che aveva dato i natali al padre Giuseppe nell'agosto 1860 ed il cui nonno, Don Gennaro Gramsci era capitano della gendarmeria borbonica, parlando della questione meridionale ebbe a dire che: ".. lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti". Il Sud era in fiamme; nemmeno le orde barbariche avevano osato tanto. Il Piemonte stava massacrando un popolo, stava distruggendo l'economia del Meridione, stava imponendo con la forza il nuovo ordine voluto dalla massoneria inglese, stava distruggendo il Regno felice, La Città del Sole di Tommaso Campanella. Il 30 giugno del 1861, i bandi sul servizio di leva vennero sostituti da un decreto legge che poi venne rivisto il 22 agosto e che peggiorò il primo rendendo quindi la situazione insostenibile …….. La legge piemontese distruggeva le famiglie e la loro economia. Tutti i figli maschi erano obbligati a prestare servizio militare e spesso mandati al nord a prendere istruzioni per poi andare a sparare contro i loro fratelli nel Sud. I paesi di montagna come i paesi rivieraschi si spopolarono dei loro giovani, tutti sui monti a combattere contro i tiranni piemontesi. Il Sud era insorto. Gli animi erano colmi d'ira, bastava un nonnulla per far scoppiare la rabbia che ognuno serbava in corpo. I contadini volevano restaurare l'antico Regno delle Due Sicilie, i liberal massoni volevano i Savoia che garantivano loro potere e denaro.L'ORDA MASSONICA In un mondo di topi nasce un popolo di roditori. Il Piemonte servo dei voleri della massoneria, indirizza da sempre la politica italiana. Nel 1861 il Piemonte faceva capo alla gran Massoneria di Mister Albert Pike ed oggi alla Trilateral Commission (7). Il 12 marzo 1849 sul Globe, quotidiano inglese, portavoce dell'alto iniziato Palmerston, ministro della regina Vittoria, apparve un articolo che era praticamente un vero libro profetico e possiamo dire, senza enfasi, che era stato preparato segretamente nel Sacro Tempio della massoneria londinese: ".. E' da ritenere che gli accadimenti dell'anno scorso non siano stati che la prima scena di un dramma fecondo di risultati più vasti e più pacifici. L'edificio innalzato dal Congresso di Vienna era così arbitrario e artificioso che ciascun uomo di stato liberale vedeva chiaramente che non avrebbe sopportato il primo urto dell'Europa. L'intero sistema stabilito dal Congresso di Vienna stava dissolvendosi e Lord Palmerston ha agito saggiamente allorché ha rifiutato il proprio concorso a opporre una diga all'onda dilagante .I1 piano che egli ha concepito è quello di una nuova configurazione dell'Europa attraverso la costituzione di un forte regno tedesco che possa costituire un muro di separazione fra Francia e Russia, la creazione di un regno polacco-magiaro destinato a completare l'opera contro il gigante del nord, infine un reame d'Italia superiore guidato dalla casa Savoia. Si è spesso rimproverato a Palmerston di avere trascurato l'alleanza con l'Austria, ma qui gli accusatori devono ancora rendergli giustizia. L'Alleanza dell'Inghilterra e dell'Austria non si è mai fondata su una comunanza di principi: essa esiste semplicemente in quanto l'Austria era la principale rappresentante e come l'incarnazione della nazione tedesca. Dopo la pace di Westfalia fino a quella di Aix-Le Chapelle (1648,1748) l'Austria s'è trovata ad essere il centro della nazione tedesca. Ma allorché la spada di Federico fece dilatare i confini del suo reame prima limitati all'elettorato del Brandeburgo, allorché i veri tedeschi riconobbero in questo guerriero il reale rappresentante della loro forza e della loro nazionalità, la Prussia divenne l'alleata naturale dell'Inghilterra sul continente. Ciò che l'Austria fin dall'inizio fi del secolo scorso, ciò che la Prussia divenne più tardi, la Germania può esserlo d ugualmente che la capitale sia Berlino o Francoforte..." Il disegno era chiaro, doveva essere attuata la profezia di Comenius espressa in Lux in Tenebris secondo la quale sarebbe dovuta sorgere dalle tenebre come fonte di luce una Super-chiesa che integrasse ogni religione attraverso i Concistori nazionali, le Chiese Nazionali, onde giungere in nome di un umanesimo unitivo ed a carattere filantropico e tollerante, a proclamare l'uguaglianza e la pari dignità di tutte le religioni (8). Questo progetto si scontrava con un ostacolo formidabile: la chiesa cattolica con la sua gerarchia, la casa Asburgo d'Austria, cattolicissima, la Santa Russia degli zar ed il Regno delle Due Sicilie, primo stato al mondo, quest'ultimo, che aveva saputo integrare il dogma cattolico con il verbo del Vangelo tradotto in pratica da leggi che non disdegnavano le novità della rivoluzione francese o quelle comuniste del Campanella e di Marx. La Santa Russia, l'Impero Asburgico e il Regno delle Due Sicilie dovevano lasciare il posto al nuovo ordine massonico, ma il popolino queste cose non le sapeva, né le conosce oggi, in quanto la storia ufficiale viene scritta dai vincitori ed è sempre artefatta. Questo nuovo ordine doveva portare sconvolgimenti politici e morali di inaudita violenza. In Italia il compito di capovolgere detto ordine, come abbiamo visto nell'articolo del Globe, fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia, votata alla Gran Consorteria. Gli altri sovrani infatti erano tutti devotissimi alla Chiesa di Roma. Lo Stato più retrivo d'Italia avrebbe dovuto dare luce allo stivale! Al suo servizio la massoneria londinese mise uomini, denaro e mezzi; soprattutto denaro ed oro. I massoni sapevano che ad unità compiuta sarebbero stati elargiti per secoli. Casa Savoia doveva eseguire spietatamente gli ordini di Londra dopo decenni di preparazione al liberalismo. Londra mandò Lord Gladstone a Napoli e Lord Mintho ed altri emissari nelle varie province italiane a preparare la rivoluzione liberale agli ordini di Giuseppe Mazzini, capo della Carboneria Italiana, il cui scopo finale, secondo il suo fondatore genovese Antonio Maghella, era .... quello di Voltaire e della rivoluzione francese: il completo annientamento del cattolicesimo ed infine del cristianesimo (9). Questo signore nel 1809 era prefetto e ministro della polizia del Regno di Napoli ed ebbe modo di iniziare alla setta migliaia di persone e di infilarle in posti chiave. La Carboneria era organizzata in vendite (10). Il vertice era chiamato alta vendita ed era composto da 40 membri ed operava in stretto contatto coi supremi consigli di 33 gr. del rito scozzese. Mazzini era un esponente di punta dell'ala oltranzista. Nel 1847, durante un convegno internazionale delle massonerie a Strasburgo, venne approntato un piano di confederazione europea allargata ai popoli germanici, latini e slavi da conseguire attraverso una serie di rivoluzioni ben orchestrate. Il Primo Ministro inglese Palmerston sparge per tutta l'Europa emissari per la sollevazione; Lord Mintho visita Torino, Roma e Napoli. Nel 1848 le rivoluzioni scoppiano in ordinata sequenza: il 22 febbraio a Parigi, il 13 marzo a Vienna, il 17 marzo a Berlino e a Venezia, il 18 marzo a Milano, il 30 marzo a Napoli, in Toscana, a Roma, a Praga ed in Croazia, lasciando esenti i soli paesi laicisti ………… Il Regno delle Due Sicilie fu conquistato militarmente e senza dichiarazione di guerra. Era indipendente fin dal 1734 ed era guidato da un re italiano che parlava napoletano. Il suo popolo era ingegnoso, pacifico, prospero; la sua industria dava lavoro a due milioni di persone, l'agricoltura era fiorentissima, la flotta contava 472 navi, seconda solo a quella inglese, le riserve auree erano attive e non vi era deficit pubblico; la disoccupazione era zero. Il piccolo Piemonte , armato fino ai denti dalla massoneria inglese, strumento e servo di Lord Palmerston, scatenò nel Sud una repressione feroce contro i contadini e contro il clero. Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno. Il terrore imperava, il genocidio di massa fu regola e legge. Si doveva distruggere un popolo la cui colpa era quella di essere cattolico e fedele al suo re, al papa e alla sua terra, che da sempre considerava la sua patria. Il Piemonte era stato delegato dalla massoneria inglese a creare una borghesia laica, liberale, vorace, senza scrupoli. A spese del Sud. Accentrò il potere, annullò l'autonomia impositiva dei comuni; annullò tutte quelle istituzioni, sia pubbliche che religiose, che per secoli avevano consentito un equilibrio unico al mondo, che consentivano ai deboli di difendersi dai soprusi dei ricchi. Il Piemonte annullò lo stato sociale che i Borbone avevano eletto a patrimonio morale. Il Nord, grazie alla politica dei vari governi massonici di destra, incamerò centinaia di milioni dalla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali. Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte (11) ammontava alla somma di oltre un miliardo di lire di allora: una montagna di debiti, una voragine spaventosa che 4 milioni di abitanti non sarebbero riusciti a pagare in cento anni per l'arretratezza della sua economia montanara. Tale debito fu caricato sulle spalle dei Meridionali. Secondo i dati del primo censimento dell'Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire circolanti allora, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie. Quel patrimonio fu incamerato per intero dal Piemonte facendo pagare ai briganti del Sud lacrime e sangue ………... Il sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, deportati, 20 milioni di emigranti le cui rimesse sono state dilapidate dal Nord; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati dal Nord (12) …………. Le finanze del Regno delle Due Sicilie nel 1860 costituirono un bottino enorme per i barbari piemontesi ed i mercenari garibaldini al soldo inglese. Vittorio Gleijeses nella sua Storia di Napoli (13) scrive: "... il tesoro del Regno delle Due Sicilie rinsanguò le finanze del nuovo stato, mentre l'unificazione gravò sensibilmente la situazione dell'italia meridionale, in quanto il Piemonte e la Toscana erano indebitate sino ai capelli ed il regno sardo era in pieno fallimento. L'ex Regno delle Due Sicilie, quindi, sanò il passivo di centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia, e, per tutta ricompensa il meridione, oppresso dal severissimo sistema fiscale savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. Con l'unificazione, a Napoli, aumentarono le imposte e le tasse, mentre i piemontesi videro ridotti i loro imponibili e col denaro rubato al Sud poterono incrementare le loro industrie ed il loro commerci" ………. Ferdinando Ritter ha scritto che: "... il Regno delle Due Sicilie contribuì alla formazione dell'erario nazionale, dopo l'unificazione d'Italia, nella misura di ben 443 milioni di lire in oro, mentre il Piemonte , la Liguria e la Sardegna ne corrisposero 27, la Lombardia 8,1, il Veneto 12,7, il Ducato di Modena 0,4, Parma e Piacenza 1,2, la Romagna, le Marche e l'Umbria 55,3; la Toscana 84,2; Roma 35,3...". Gaetano Salvemini (14) ci ricorda che: "...L'Italia meridionale è oggi di fronte all'Italia settentrionale quello che era prima del 1859 il Lombardo-Veneto di fronte agli altri paesi dell'impero austriaco. L'Austria assorbiva imposte dall'Italia e le versava al di là delle Alpi; considerava il Lombardo-Veneto come il mercato naturale delle industrie boeme; con un sistema doganale ferreamente protezionista impediva lo sviluppo industriale dei domini italiani. E i Lombardi erano allora ritenuti fiacchi e privi di iniziativa, ed era ormai ammesso da tutti che il popolo Lombardo era nullo. Cristina Belgioioso pubblicava degli studi sulla storia della Lombardia, nei quali cercava di spiegare il difetto di energia dei Lombardi. E gli scrittori d'oltralpe spiegarono le condizioni arretrate dell'Italia con l'inferiorità della razza. La Lombardia messa in condizioni favorevoli, ha fatto stupire il mondo per i suoi progressi; lo stesso sarà del mezzogiorno, appena le condizioni generali del paese si saranno cambiate in meglio...". La ricchezza del Regno delle Due Sicilie era dovuta alla buona amministrazione pubblica che dava autonomia impositiva ai comuni. Il Sud godeva di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire in oro, più del doppio di quello degli altri Stati d'Italia. Nel Regno delle Due Sicilie l'emigrazione era una parola inesistente nel vocabolario; tutti avevano un lavoro, l'occupazione era completa, la scuola era pubblica e gratuita per tutti, né mancavano quelle private e quelle religiose; i vecchi venivano accolti in ospizi pubblici o religiosi; i braccianti agricoli, quando non trovavano lavoro nelle tenute dei possidenti, scorticavano le montagne demaniali e vi impiantavano vigne, frutteti, uliveti; i pastori avevano libero accesso ai pascoli; i pescatori utilizzavano pescherecci moderni costruiti nei cantieri navali del Regno; i naviganti solcavano tutti i mari del mondo trasportando le merci prodotte nelle fabbriche del Meridione d'Italia. I prodotti agricoli, essendo il vanto di una agricoltura sana venivano trasformati negli opifici locali e destinati all'estero dopo aver soddisfatto le esigenze degli indigeni. Molti rimarranno esterrefatti nel leggere le statistiche relative all'industria tessile, all'industria metalmeccanica a quella ferroviaria e mercantile del Regno delle Due Sicilie in quanto le nostre orecchie sono state abituate da sempre a sentire parlare di un Sud povero, pieno di mafiosi e di nullafacenti, insomma un popolo di terroni. Ma i terroni, nel 1860, stazionavano in Piemonte, in Lombardia e soprattutto nel Veneto. Nel Meridione vi era una fittissima rete di opifici tessili che davano lavoro a decine di migliaia di operai, di fabbriche metallurgiche e mercantili che, con una grossa rete di maestri artigiani e una moderna industria di trasformazione agricola, formavano un tessuto laborioso di prim'ordine. Nel corso dei secoli il Sud era sempre stato un paese esportatore di materie prime ed importatore di manufatti. Dal 1820 al 1860 la situazione cambiò radicalmente: una vera rivoluzione. Nel 1834 il Regno delle Due Sicilie esportò lana per 65.991 ducati; nel 1842 ne vennero importati 1.000 quintali per soddisfare le esigenze delle nostre industrie del settore; quantità che aumentò nel corso degli anni. Nel 1852 si importarono 15.000 quintali di lana. Il cotone cominciò ad essere importato attorno agli anni trenta in quanto le industrie del Sud avevano esigenze nuove. Nel 1838 vennero importati 1710 quintali di cotone; nel 1852 i quintali arrivarono a 11.078. Il cotone filato passò dalle 1.439 tonnellate del 1830 alle 3.429 del 1855. I prodotti manifatturieri in un primo momento servirono a soddisfare le esigenze del mercato interno in continua espansione, per poi essere esportati in grande quantità in tutto il mondo. Da grande esportatore di lana, il Sud divenne in un ventennio grande divoratore del prodotto in questione. Nel 1855 si importarono cotone e lana per circa 100.000 ducati, prodotti che venivano lavorati nelle industrie del Sud. Intere zone del Regno delle Due Sicilie vennero rivoluzionate in poco tempo per la gran massa di operai impiegati in quelle industrie. 200 mila persone, di cui centomila donne, lavoravano nel settore. Nella Valle del Liri, in Ciociaria, gli imprenditori locali, aiutati da una politica bancaria equa, investirono in un anno quasi un milione di ducati nel settore tessile impiegando circa 15 mila operai su una popolazione di 30 mila abitanti producendo annualmente oltre 360.000 canne di tessuti. Nel 1846 a Napoli ed in Terra di Lavoro lavoravano nel settore tessile 60 mila operai, pari al 28% della popolazione residente nel territorio (15). Nel distretto di Salerno gli operai addetti nelle fabbriche tessili erano 10.244. Famosissime erano le tele di lino di Cava de' Tirreni. In una città come Arpino, sempre in Ciociaria, che contava 12 mila abitanti, vi erano 32 fabbriche che impiegavano 7.000 operai locali. Questo pullulare di industrie aveva un unico titolare: il Banco di Napoli, che, favorito dalle leggi del Regno e avendo grandi capitali da investire risparmiati dalle popolazioni meridionali, dava ricchezza rimettendo il denaro nel circuito locale. Il tutto veniva facilitato dalla continua protezione governativa ………. Il Nord, il Piemonte in particolar modo, non erano in grado di produrre tecnologia avanzata né di produrre cultura o arte. Il Piemonte produceva solo cannoni, la Lombardia latte, che serviva a sfamare i figli degli austriaci ed i Veneti andavano ad ingrossare la folla di emigranti che prendevano la via delle Americhe. Edoardo Spagnuolo, nel n° 5 dei quaderni di Nazione Napoletana così commenta la fine del sogno vissuto dalle popolazioni meridionali dopo l'annessione piemontese: "...I grandi progetti ferroviari del Governo Borbonico avevano dunque un fine preciso. Le strade ferrate dovevano divenire un supporto fondamentale per l'economia meridionale ed essere di servizio allo sviluppo industriale che il Mezzogiorno d'Italia andava mirabilmente realizzando in quei tempi. Il governo unitario, dopo aver distrutto le fabbriche del Sud a proprio vantaggio realizzò un sistema ferroviario obsoleto che, assieme alle vie marittime, servì non per trasportare merci per le manifatture e gli opifici del meridione ma per caricare masse di diseredati verso le grigie e nebbiose contrade del Nord o delle Americhe" ………… I Borbone profusero non poche energie per sviluppare l'istruzione pubblica che prima del 1806 era commessa a 33 scuole normali, ai seminari delle Diocesi vescovili, ai corpi religiosi e, all'Università degli Studi di Napoli. Ad Avellino vi era un collegio che conferiva i Gradi accademici per la giurisprudenza, la teologia e la medicina. A Salerno si davano i gradi in medicina; gradi che fecero del dottorato salernitano una scuola rinomata in tutto il mondo. Dopo il 1810 in tutti i comuni si istituirono scuole primarie gratuite a spese dei municipi; molte ne furono istituite nei capoluoghi di provincia. Ferdinando II volle incrementare la cultura ed il sapere nel suo Regno introducendo altre 16 cattedre nell'Università della capitale, l'Orto Botanico, il Collegio Veterinario; istituì quattro Licei a Salerno, Catanzaro, Bari e l'Aquila. Le spese per l'istruzione pubblica ammontavano a circa un milione di ducati all'anno. I regolamenti per le scuole primarie furono approvati il 21 dicembre 1819. Le ministeriali del 12 giugno 1821 e 7 agosto 1821 stabilirono il modo come dovessero scegliersi i maestri nelle scuole primarie. Con decreto del 13 agosto 1850 il Re nominò i Vescovi ispettori di tutte le scuole del Regno, pubbliche e private. A Napoli esistevano 14 istituti d'istruzione media superiore con 1.343 alunni; due istituti di nobili fanciulle con 303 educande; 32 Conservatori di musica frequentati da 2.134 studenti. Dopo il 1861 il Piemonte, scientificamente, chiuse tutte le scuole che erano sovvenzionate con denaro pubblico. L'operazione doveva servire a due cose: rendere il Sud schiavo e colonizzato e trasferire i soldi, tutti quelli possibili, a Nord. Il Piemonte, indebitato di un miliardo di lire con le banche londinesi, aveva bisogno di liquidità costante, anche per portare a temine l'opera di pulizia etnica nel Mezzogiorno d'Italia. Prima ad essere attaccata fu l'istruzione pubblica, poi vennero svuotati tutti i forzieri delle banche e quelli dei comuni. Mai, nel Sud, la barbarie fu più feroce ed infame. Il Villardi, che era stato mandato nella capitale a smantellare l'apparato scolastico napoletano così ricorda: "...Pareva che si volesse levar tutto a Napoli. Oggi per esempio, noi abbiamo sciolto l'Accademia delle Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l'istruzione secondaria, in una città di cinquecentomila anime, non abbiamo che un liceo di sessanta alunni e questo con un ministro intelligente e pieno di volontà....". Ecco, il Regno delle Due Sicilie era finito nelle mani degli eredi di Vittorio Emanuele I, della dinastia più reazionaria d'Europa; quella cioè che abolendo il Codice Napoleonico, ristabilì l'antica legislazione complicata e senza unità, i privilegi fiscali e l'antica legislazione penale con la fustigazione ed i tratti di corda, e, cosa più terribile, proibì i culti acattolici perseguitando anche mortalmente ebrei e valdesi e cosa ancora più abominevole ridiede tutta l'istruzione nelle mani delle scuole religiose a pagamento, abolendo quelle pubbliche istituite da Napoleone. Allo stesso modo represse con ferocia i tentativi dei genovesi di riacquistare l'antica dignità e libertà. Tutto ciò che era pubblico doveva essere abolito e così le scuole. Chi non poteva pagarsi l'istruzione, secondo le leggi dei Savoia, doveva rimanere analfabeta e la classe contadina chiamata dai montanari piemontesi classe infima da erudire con le fucilazioni e le torture. In pochi mesi il governo piemontese distrusse secoli di cultura, secoli di tradizioni, secoli di storia, secoli di libertà e dignità. Alla guida dei licei del Regno fu mandata gente illetterata con il solo scopo di smantellare l'istruzione pubblica e rendere il popolo ignorante e servo. In poco tempo i piemontesi, sotto la gragnuola di ispettori, vice ispettori, delegati, bidelli, funzionari ed impiegati, quasi tutti venuti dal barbaro Piemonte, i quali non conoscevano nemmeno la lingua italiana, 'nfrancesati" come erano, massacrarono e dissolsero la scuola primaria e secondaria, sia pubblica che religiosa. Gli scagnozzi e gli scherani di Vittorio Emanuele II, re dei galantuomini e della borghesia cisalpina, i servi del governo della destra storica ebbero l'ordine sacrilego di chiudere l'Accademia Napoletana delle Scienze e di Archeologia, famosissima in tutto il mondo, mentre L'Istituto delle Belle Arti fu abolito per decreto. Mai i Borbone avevano dissacrato la cultura, né la religione, né la dignità dei contadini e degli operai. La scuola superiore era affidata ad uomini di grande reputazione morale e professionalmente preparati. Ai sovrani napoletani, poco importava, se politicamente fossero di idee repubblicane, liberali o legittimiste; sapevano che la matematica o la fisica non potevano essere politicizzate in una scuola seria e non a caso dette materie ebbero origine nei luoghi meridionali. Pitagora ed Archimede non erano piemontesi e gli arabi non erano del Polo Nord. Uomini del calibro di Galluppi, Lanza, Flauti, De Luca, Bernardo Quaranta reggevano le cattedre universitarie. Macedonio Melloni, cacciato da Parma per le sue idee liberali fu accolto dai Borbone affinché iniettasse la sua esperienza nella scuola del Regno. Il Melloni era raccomandato presso il Governo Borbonico da Francesco Arago, ardentissimo e passionale repubblicano, ma ai Borbone interessava sopratutto far funzionare le libere istituzioni nel modo migliore possibile.LACRIME DI COCCODRILLO Il Conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, Capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale, dopo aver partecipato come soldato piemontese al massacro delle popolazioni del Regno delle Due Sicilie scrisse un libro intitolato: "Il Brigantaggio alla Frontiera pontificia dal 1860 al 1863". In esso cercò di spiegare (grazie alla sua esperienza) perché il Sud reagì con le armi all'invasione piemontese e dopo aver denigrato e dileggiato il paese che favorisce il brigantaggio ebbe a scrivere che: "...la povertà dei coloni agricoli; la rapacità e la potervia dei nobili; l'ignoranza turpe; l'influenza deleteria del prete; la superstizione, il fanatismo, l'idolatria, fatte religione e santificate; la mancanza di senso morale pressoché totale; la nessuna conoscenza dei dettami d'onore, di probità, di pudore; la sregolatezza dei costumi; l'immoralità in tutto e di tutti; lo spettacolo schifoso delle corruttelle negli impiegati, nella magistratura, nei pubblici funzionari; la rapina, il malversare...". Questo conte piemontese, forse prendendo a prestito il pensare del suo popolo incolto e caino, lo stesso che, più di tutti in Italia, ha sempre praticato riti di magia nera e che della morale non ha mai tenuto gran conto, ha avuto il barbaro coraggio di scaricare sulle popolazioni meridionali i difetti dei popoli cisalpini. Alla fine del suo libro il Conte Bianco di Jorioz, contraddicendosi, toccato da coscienza, così scriveva: "...Il 1860 trovò questo popolo nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l'opposto". Praticamente l'esimio Conte di Jorioz ammetteva che lo scellerato Governo dei Borbone faceva vivere tutti in sufficiente agiatezza e che il governo piemontese produsse l'effetto contrario e così continua: "...Le civaie nel 1860 furono trovate al prezzo di 2.80; nel 1863 erano salite a 5.20. La carne di bue vendevasi nel 1860 a grane 15 il rotolo; nel 1863 a grane 36. Una gallina costava nel 1860 grane 20, nel 1863 grane 55... - ed ancora - ... Le leggi di registro di bollo-diritto graduale-decimo di guerra, ecc., ecc., hanno desolato queste popolazioni. Contratti pochissimi; chi compra, profitta del bisogno di chi vende: non paga il giusto prezzo ed aggrava sulla proprietà l'agrario imposto dalla legge. In pochi anni le proprietà si concentrarono a pieno nelle mani dei ricchi, degli speculatori, degli usurai e dei manipolatori. I notai languiscono perché sono pochissimi gli affari. Molta gioventù, impiegata alle notarie, in ozio, vagabonda. Gli affari civili giudiziari, da tanti che erano, scomparsi. I litiganti si spaventano delle gravi spese, a prescindere della sfiducia creata dalla presente magistratura: se possono, ruinosamnerte transigono; se non possono, arrestano gli affari. Gli avvocati e patrocinatori con le mani in mano, e così tante famiglie a terra. Tu vedi uomini di merito a languire. Spopolati gli studi di tanta gioventù che, approfittando delle cognizioni dell'avvocato, imparava e guadagnava pane. Ora licenziati e vagabondi; immersi per conseguenza nei dubbi guadagni del giuoco, in arti morali, m vizzi... Legge sulle successioni aperte. Un padre muore, la tenera famiglia resta. Un ricevitore, caldo ancora il feretro si presenta imperterrito, rovista la casa, penetra i segreti, fa inventano, somma il valore della eredità, calcola il diritto del fisco ch'egli rappresenta, e i lagrimanti figli, la derelitta vedova pagano una somma gravissima, e così viene strappata ai pupilli una parte della eredità che il genitore, con privazioni, fatiche, pericoli, nel corso di molti lustri avea creata a sostegno e decoro della sua onorata famiglia. Chi non sente stringersi il cuore al cospetto di una legge cotanta snaturata? Che quantità porta via il fisco, voi domandate? A queste interrogazioni il popolo risponde: Ecco là la legge. Gli articoli sono brevissimi; leggeteli e fremete. Vedrete che con tre successioni nella famiglia stessa che possono verificarsi anche in un anno, dalla agiatezza si balza alla mendicità qualunque famiglia". Ecco, dette queste cose da un conquistatore non è male, ma il Conte Bianco di Jorioz non si ferma alla tassa di successione e scrivendo della pubblica istruzione che a noi interessa così si esprimeva: ".. La Pubblica istruzione era fino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le principali città di ogni provincia. Adesso nessuna cattedra scientifica. Per educare un figlio nella capitale sapete che cosa ci vuole? Eccolo qua. Ogni corso scientifico obbligatorio esige la dimora di 8 anni. Tale è organamento. Lo studente deve iscriversi ogni anno e pagare lire 410; le quali, moltiplicate per 8 danno lire 3.280, per mantenere un figlio nella capitale non potete fare a meno di lire 100 al mese, se sarà economico, sobrio, senza galanterie, e sono 1.200 lire all'anno. Moltiplicate per 8, avrete lire 9.600, le quali aggiunte alle spese di iscrizione vi dà una bagattella totale di lire 12.880. Dividete per 8, avrete lire 1.610 di esito per ogni figlio alla istruzione scientifica". Quante persone esistono nelle meridionali provincie che possono sostenere questa spesa?". Il Conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz aveva messo il dito nella piaga. Il Piemonte praticamente aveva sconquassato un sistema, aveva distrutto l'economia del Sud e ne aveva sconvolto l'assetto istituzionale : mandando a sedere nei Consigli Comunali uomini riprovevoli, ladri mafiosi e camorristi arruolando nella pubblica sicurezza individui che sono il fecciume …………. Garibaldi prima e i luogotenenti dopo ridussero Napoli in condizioni pietose. In un anno, da terza capitale d'Europa, divenne una città disordinata, sporca, senza economia propria e senza futuro. L'ira del Piemonte s'era abbattuta su di essa. Furono incarcerati arcivescovi e cardinali, preti e sacrestani. I giudici mandati al confino e come si legge a pag. 376 del capolavoro del Conte Bianco "...bisognava spregiare e calunniare le intelligenze virtuose ed allontanarle da qualunque ingerenza governativa; occorreva scegliere esuli rinnegati, ambiziosi, inetti, servili e schiavi e concentrare nelle loro mani gli interessi dei due padroni, l'uno vero e l'altro figurato; l'uno maestro compositore e l'altro cieco esecutore; l'uno prepotente e minaccioso, l'altro osservante e fedele". Il Governo piemontese doveva smantellare e colonizzare il Regno più bello e prospero del mondo e sostituì giudici eloquenti e dotti con barbieri, camerieri di locande, figli di ballerine e meretrici; ruffiani che diventavano prefetti o segretari di cancellerie e comuni: bastava dichiararsi liberali. Queste cose furono scritte dal Conte Alessandro Bianco di Jorioz, cioè da un piemontese pagato dal governo sabaudo per sradicare dalle fondamenta il Regno di Francesco II. Nel 1859 il Regno godeva di prosperità di finanze, istruzione gratuita ed accessibile a tutti, agiatezza per bisogni materiali, il lavoro c'era per tutti, la disoccupazione inesistente, i commerci floridi, le industrie competitive, le banche piene di soldi risparmiati dalle popolazioni meridionali….. NOTE (1) F. MOLFESE - Storia del brigantaggio dopo l'Unità - Feltrinelli Editore, Milano, 1964 pag. 54. (2) Ibidem. (3) (Editto di Ancona) (4) G. De Sivio - La Tragicommedia, Editoriale Il Giglio, Napoli, 1993. (5) A. Bianco Di Jorioz - Il Brigantaggio alla frontiera pontificia 1860-63, Milano Daelli & C. Editori, 1864, pp. 373s., 376. (6) SIR JAMES LACAITA, deputato italo - inglese emissario di Lord Palmerston in Italia. (7) Epiphanius - Massoneria e Sette Segrete, Litografia Amorth, Trento, pp.125. (8) Epiphanius - Massoneria e Sette Segrete, Litografia Amorth, Trento, pagg. 61-62. (9) Epiphanius - Massoneria e Sette Segrete, Litografia Amorth, Trento, pag. 120. (10) Ibidem. (11) Nel 1860 il debito pubblico del Piemonte era di lire 1.159.970.595,43 e doveva pagare £ 57.561.532,18 di interessi annui. (12) Scandalo della BIS (Banca Italiana di Sconto) ed altre ruberie. L'unità d'Italia provocò nel Sud un'emigrazione biblica e con le prime rimesse l'economia meridionale stava risollevandosi. Tramite la BIS il governoo offrì dei buoni del Tesoro a interessi zero e gli emigranti in pratica finanziarono le industrie parassitarie del Nord. La BIS, fu fatta fallire e circa 400.000 creditori tutti meridionali finirono sul lastrico. Miliardi del Sud inghiottiti dal Nord. (13)Vittorio GLEIJESES, La Storia di Napoli, 3 vol., Napoli, 1981. (14) ISAIA SALES - Leghisti e sudisti, Laterza Editore, 1993. (15) Dati raccolti dallo Scialoja e confermati dall'Arrias e dal De Marco - da i quaderni di Nazione Napoletana, N° 5, pagg. 3-4 curati da Edoardo Spagnuolo. |
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BRIGANTAGGIO |
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di MIRNA BONCINA da: "G.D.E." UTET, Torino, 1992 |
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Nel corso della storia furono definiti "briganti" coloro che, da soli o in bande, anche con scopi diversi, agivano al di fuori delle leggi attentando a mano armata alle persone e alle proprietà, compiendo vendette, rapine e violenze di ogni genere. Il fatto che molto spesso godessero delle simpatie delle classi più povere e oppresse, da cui d'altra parte traevano alimento, porta a concludere che il più delle volte non si trattava di violenza gratuita di gente refrattaria alle leggi, ma di una reazione motivata ad una situazione di miseria ed oppressione insostenibili. Ciò si verifica più facilmente in concomitanza con momenti di crisi politica dovuta ad una fragilità delle strutture dello stato, determinata da cambiamenti di potere ai vertici o da grandi sommovimenti interni. Particolare importanza nella storia italiana riveste il Brigantaggio che imperversò nel Mezzogiorno dopo l'annessione allo stato unitario: non solo per l'estensione del fenomeno e la gravità della situazione di disagio sociale che esso mise in luce, ma anche perché il modo con cui esso fu affrontato dalla classe dirigente sabauda contribuì a provocare quella mancata integrazione delle plebi rurali meridionali nel nuovo stato che si sarebbe protratta a lungo costituendo uno dei maggiori problemi sociali dell'Italia unita. Se, come si dirà più avanti, già nei secoli precedenti il Mezzogiorno era stato teatro di un Brigantaggio endemico (diffuso peraltro anche in varie zone dell'Italia centrale m particolare nella Campagna Romana - e settentrionale) che aveva avuto fasi di recrudescenza in occasione di particolari momenti di crisi economica e politica, l'origine del Brigantaggio postunitario va però vista in modo contestuale al compimento dell'unità nazionale. Ne furono infatti causa le difficoltà politiche incontrate dal governo nazionale nelle province meridionali, la debolezza dei legami che queste ebbero con la rivoluzione nazionale, accentuata dal contrasto tra liberali e democratici, ma soprattutto l'esito sanguinoso ed anarchico di una mancata rivoluzione agraria. Il Mezzogiorno nel sec. XIX era una grande "disgregazione sociale" (Gramsci) che affondava le sue radici nel secolo precedente, col processo di erosione del feudalesimo, di privatizzazione e concentrazione della terra, di avanzata del capitalismo. Ne conseguiva uno squilibrio tra la disponibilità di terra e il numero dei contadini che si sarebbe potuto risolvere solo con la creazione di un ceto vitale di contadini proprietari attraverso una rivoluzione o una riforma agraria. Ma ciò era problematico perché le terre appartenevano non solo alla nobiltà, ma anche alla borghesia ed alla nobiltà imborghesita che, nell'ottobre del 1860, rappresentavano quelle forze che si schierarono per l'annessione al regno sabaudo, ritenendo che ormai questa fosse l'unica via, assai più sicura di un'ipotetica restaurazione borbonica o di una soluzione autonomistica, per farla finita con la rivoluzione. Questo blocco fra borghesia agraria meridionale e borghesia liberale piemontese rese impossibile l'attuazione del progetto democratico che era per la continuazione della guerra rivoluzionaria fino alla liberazione di Roma, e la formazione di un assemblea costituente nazionale che avrebbe dato al nuovo stato unitario una struttura democratica. Avrebbe potuto esservi un'alternativa a questa situazione? La vittoria delle forze garibaldine democratiche nel 1860-61 avrebbe portato ad esiti diversi? E assai probabile che il malcontento dei contadini ci sarebbe stato anche se i democratici garibaldini non fossero stati esautorati dai piemontesi, dal momento che Garibaldi mirava a condizionare ma non ad impedire l'estensione al Sud di casa Savoia; inoltre non voleva una rivoluzione agraria: tipico è il caso di Bronte dove fece reprimere con spietata violenza una sollevazione contadina. Ma è anche probabile che una collaborazione fra forze moderate e garibaldine avrebbe evitato nelle campagne quel vuoto di potere che invece ci fu, e il fenomeno del Brigantaggio non avrebbe avuto proporzioni così tragiche. Se la prima fase del programma unitario era l'annessione, la seconda, data la relativa esiguità delle forze sociali su cui si basava il nuovo regno d'Italia, fu l'accentramento dell'ordinamento politico-amministrativo; per il Mezzogiorno questo aveva il duplice scopo di rimediare all'arretratezza civile di quelle regioni e di emarginare le forze democratiche garibaldine. La conseguenza fu di favorire l'instaurarsi di un rapporto fra Nord e Sud di tipo imperialistico, anche se il Sud faceva parte dell'area dell'economia capitalistica e anche se gli studi più recenti tendono a ridimensionare l'affermazione che lo sviluppo del Nord sia stato possibile grazie allo sfruttamento del Sud. Ciò non toglie comunque nulla al fatto che un aspetto dell'imperialismo è anche dato dalla sola presenza di una potenza capitalistica che, in quanto tale, impedisce al paese arretrato di uscire dal sottosviluppo. Crisi sociale ed economica, dunque, che esplode quando la crisi diventa anche politica: lievita così il fenomeno del Brigantaggio che durò per circa quattro anni, dal 1861 al 1865 (una delle prime più importanti azioni fu quella dell'aprile 1861 in Basilicata, quando la banda di Crocco di Rionero organizzò l'insurrezione dei contadini di Lagopesole e dei paesi vicini spingendosi fino a "conquistare" Venosa e Melfi). Già altre volte, nei tempi immediatamente precedenti, il malcontento dei contadini meridionali era esploso in rivolte in cui, alla protesta sociale, si era aggiunto un orientamento politico reazionario: era successo nel 1799 quando l'insurrezione sanfedista aveva travolto la repubblica giacobina, ma anche nel periodo napoleonico quando nelle campagne calabresi imperversò la guerriglia antifrancese. Adesso come allora il Brigantaggio rivelava nel Mezzogiorno una società arretrata, dominata da un'indistinta esigenza di trasformazione che non sapeva però esprimersi ideologicamente. E ancora una volta fu politicamente strumentalizzato: da Roma la spodestata monarchia borbonica, con l'appoggio del governo pontificio e di gruppi di legittimisti di altri paesi, si sforzò di alimentare il Brigantaggio e di dargli un indirizzo politico reazionario, poggiandosi sia su agenti appositamente inviati, sia sui militari del disciolto esercito napoletano, rimasti sul luogo ma sbandati. Difficili, però, furono i rapporti tra gli inviati borbonici ed i maggiori capibanda, come dimostra il fallimento, nel novembre del 1861, dell'impresa di José Borjes. Questi era un avventuriero legittimista catalano mandato da Francesco II per unificare le bande dando loro una direzione politico-militare che avrebbe dovuto preludere ad una restaurazione per via insurrezionale. Il pericolo per il regno unitario fu senz'altro notevole perché Borjes riuscì a convincere i maggiori capibanda della Basilicata, primo fra tutti Carmine Crocco, ma l'inadeguatezza militare delle bande a condurre una vera e propria campagna di guerra e l'impossibilità politica di un'insurrezione generalizzata fecero fallire il tentativo: Crocco riprese le sue azioni contro pattuglie isolate dell'esercito o il ricatto contro i proprietari terrieri, Borjes venne catturato e fucilato (8 dicembre) sulla strada del ritorno a Roma. Alcuni dati possono far intendere la consistenza del fenomeno del Brigantaggio: 388 bande accertate con un numero variabile di componenti da 5-15 persone a 100; 13.853 "briganti" eliminati nel periodo luglio 1861-dicembre 1865. Il nuovo stato, che temeva di dare l'impressione, sia all'interno che all'esterno, di instabilità e debolezza, reagì duramente: i generali inviati a ripristinare l'ordine procedettero alla distruzione di interi paesi che avevano accolto le bande di briganti, spesso alzando bandiera borbonica, e a fucilazioni sommarie. Dopo un'inchiesta parlamentare, che doveva accertare le cause della rivolta e stabilire i metodi della repressione, il parlamento votò la legge Pica (13-VIII-1863) che sospese le libertà costituzionali nelle province infestate dai "briganti" e ne affidò ai tribunali militari i processi. Fu una vera e propria guerra che vide impegnati fino a 120.000 soldati e che portò alla cattura o all'uccisione dei capi più famosi, quali Crocco, Caruso, il sergente Romano, ed alla dispersione delle maggiori bande a cavallo. La rivolta, nel 1865, era stroncata, almeno nelle sue forme di massa; ma nello stesso tempo questo tipo di repressione (non seguita da misure di riforma che attenuassero le cause del malcontento dei ceti rurali del Meridione, pur evidenziate dalla Commissione di inchiesta parlamentare) pesò molto nel conferire all'apparato dello stato quel carattere di struttura violentemente contrapposta alle masse che manterrà a lungo nel tempo. |
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