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 LA BORBONICA GUERRA PER BANDE

di Orazio FERRARA

tratto dal libro dello stesso autore Viva 'o Rre. Episodi dimenticati della borbonica guerra per bande - Centro Studi I Dioscuri, 1997, vincitore 2° posto saggistica politica del Premio Internazionale Letterario Tito Casini di Firenze Edizione 1997)

 

"Viva ‘o re"

fu il grido con cui i reggimenti napoletani del "felicissimo Regno delle due Sicilie" usavano andare all’assalto. Questo grido risuonerà rauco e disperato nelle terre del Sud anche dopo l’annessione al Regno d’Italia. A gridarlo saranno bande di irregolari, per lo più ex soldati dell’esercito borbonico, che non intendono arrendersi. Sono i romantici disperati dell’ultima barricata, malgrado tutto sia irrimediabilmente perduto. Per essi non ci sarà né onore né gloria, ma soltanto una crudele guerra per bande. "Brigantaggio" lo chiameranno sprezzantemente i Piemontesi. E con il termine "briganti" i legittimisti saranno consegnati alla Storia. Il "vae victis" di Brenna non è soltanto un aneddoto storico, è una costante nella storia dell’umanità. I vinti passeranno alla storia sempre e soltanto attraverso le pagine scritti dai vincitori e dovranno sempre giustificare il perché si siano battuti "per la parte sbagliata". Dunque, briganti! Dopo averli massacrati si cercò quindi di liquidarne definitivamente la memoria storica con la taccia infamante di essere banditi da strada. Per questi motivi l’ossequiente storiografia ufficiale ha sempre etichettato per il passato, salvo rare e lodevoli eccezioni quali un Alianello e la sua "Conquista del Sud", ricca di spunti di riflessioni, con lo spregevole termine di "brigantaggio" quel decennio di storia italiana delle provincie meridionali, che seguì alla caduta del Regno delle Due Sicilie. Eppure in quel complesso fenomeno politico-militare si riversò di tutto. Da certo brigantaggio vero e proprio, secolare male endemico per le nostre contrade, alla resistenza popolare di fronte ai "diversi" Piemontesi, che avevano portato tra l’altro nuove e pesanti tasse e l’odiosa coscrizione obbligatoria, per finire all’idealismo di giovani ufficiali e soldati dell’ex esercito borbonico, irriducibili innamorati, "patuti" con voce popolare, della bianca bandiera gigliata, a cui un giorno avevano giurato eterna fedeltà. In questo esplosivo, e a volte sanguinoso, cocktail, accanto ad avanzi di galera e grassatori analfabeti, che non poche volte però riscattano il proprio passato con una morte onorevole, si riscontrano luminose figure di veri e propri "combattenti politici". Sono quest’ultimi a dare il sapore di epopea popolare alla sudista guerra per bande. Essi non hanno letto né tantomeno studiato Clausewitz, ma la guerra o per meglio dire la guerriglia sanno farla. E bene anche. Molti capibanda legittimisti si fanno ripetutamente beffa dei migliori strateghi avversari. Questa volta i meridionali si battono bene, li guidano capi decisi e non titubanti traditori. Viene così smentita clamorosamente la diceria che i Napoletani siano "cattivi e vili combattenti". D’altronde i Piemontesi se ne sono già accorti alla sanguinosa battaglia del Volturno, quando l’armata di Francesco II ha dimostrato di non essere un esercito di parata o da operetta. Le migliaia di morti e feriti d’ambo le parti, contati dopo la cruenta battaglia, testimoniano che ai Napoletani è mancata la fortuna non il valore. Anche la guerriglia esige un altissimo tributo di lacrime e di sangue. Da tutti, dai legittimisti e dagli "invasori", ma soprattutto dalle popolazioni meridionali, che parteggiano in maggioranza per i primi. I capi delle bande, dai soprannomi impossibili, quali solo la fantasia popolare può inventare (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Diavolillo, Pilone, etc), provengono nella quasi totalità dai quadri del disciolto esercito borbonico. Dunque soldati del re ancora in armi, malgrado il "tutti a casa", che segue fatalmente ad ogni definitivo tracollo militare. Essi sono capi amati e rispettati, e perché no temuti, ma sempre per libera scelta da parte di tutti gli altri componenti. La scelta, trattandosi di formazioni volontarie, ricade sempre, e non può essere altrimenti, sui più abili, determinati e coraggiosi. Lo spontaneismo che si osserva nella strutturazione delle bande non significa assolutamente anarchia. Come ogni vero gruppo di combattimento che si rispetti, in esse regna una ferrea disciplina militare, cosa d’altronde più che logica in quanto ne va della sopravvivenza stessa dei componenti. Disciplina e organizzazione militare più che efficienti, come hanno riconosciuto rigorosi storici, che non si può certo accusare di essere corrivi al fascino del "mito sudista". Dell’esistenza di questa rigida disciplina ne sono prova le pagine del diario scritto dal Sergente Romano, alias Pasquale Domenico Romano, Primo Sergente ed Alfiere nella I Compagnia del V Reggimento di linea borbonico. Uno dei migliori capibanda, che scorrazza con i suoi 500 uomini a cavallo nelle pianure pugliesi. Gli stessi storici sono stati costretti ad ammettere che la tanto vituperata "ferocia sanguinaria" dei cosiddetti briganti è dovuta alle piccole bande di malfattori, che vivono come parassite ai margini delle grandi bande legittimiste. Formate per lo più da delinquenti comuni, approfittano del caos di quei tempi burrascosi per meglio perpetrare i loro delitti, ammantandoli di una falsa coloritura politica. Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri compiuti anche dalle bande legittimiste rispondono quasi sempre alle tragiche necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo per cui i ribelli tengono per così lungo tempo in scacco notevoli forze avversarie sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella loro straordinaria mobilità, nella copertura, che spesso rasenta la complicità, delle popolazioni. Non solo le montagne e i boschi, luoghi naturalmente elettivi per ogni forma di guerriglia, sono teatro delle loro gesta. Anche in campo aperto, come le vasti distese della Puglia, i legittimisti dimostrano un buona padronanza della tattica militare, tanto da impegnare in combattimenti frontali interi reparti della cavalleria sabauda, tra i quali i lancieri di Montecelio e i Cavalleggeri di Saluzzo. La carta decisiva e vincente della mobilità fa sì che il combattente legittimista viva praticamente sempre in marcia. Spesso egli, per più giorni, forma un tutt’unico con la propria cavalcatura, bardata con la doppia bisaccia, in cui trovano posto i pochi viveri e le preziose munizioni. Non è eccezionale per le bande percorrere senza soste, in solo dodici ore e di notte, anche 50 miglia su terreno impervio. Se al frugale desinare e al poco riposo, aggiungiamo il clima inclemente e rigido, che nella stagione invernale investe le zone montuose interne del Meridione, ci si rende conto quale tempra di uomini fossero i combattenti filo-borbonici. E si capisce del perché fosse necessario anche una dura disciplina e la presenza di un capo carismatico, riconosciuto spontaneamente per tale da tutti, per superare, senza gli inevitabili sbandamenti e diserzioni, i molti momenti di stanchezza e di sconforto. Ma soprattutto si capisce quale genuina idealità animasse il grosso delle formazioni ribelli. La flessibilità del numero degli elementi formanti una banda è un’altra caratteristica degna di menzione. Al nucleo originario, che costituisce lo zoccolo duro della resistenza, si aggrega nella stagione propizia, soprattutto nei primissimi anni successivi al 1860, altra gente, contadini quasi sempre, che fanno bravamente la loro guerra contro i nemici di re Francesco. Malgrado le inevitabili rivalità esistenti tra di loro, non sono poche le volte in cui diverse bande si concentrano in un’unica grossa forza da battaglia per colpire più duramente il nemico. Raggiunto lo scopo, ci si disperde rapidamente, riformando i gruppi originari. Normalmente la tecnica di combattimento è quella di sempre della guerriglia. Imboscate, attacco ai fianchi di colonne in marcia, rapide incursioni con ancor più rapide ritirate sulle montagne. Come tutti i combattenti irregolari i legittimisti non hanno una vera e propria divisa, anche se qualcuno indossa ancora orgogliosamente qualche vecchio e lacero capo della divisa dell’ex reggimento borbonico in cui ha militato. Quasi tutti però portano il cappello nero a larghe tese ornato da un nastro rosso. I capibanda più famosi ostentano sul petto le onorificenze concesse dal sovrano borbonico in esilio. Anche le bandiere di combattimento sono le più diverse e fantasiose. Accanto all’immancabile ed amata bianca bandiera gigliata, sventolano colorati stendardi con diafane figure di santi protettori e di bellissime madonne. Nella sudista guerra per bande anche la fede va in battaglia.

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