di Fiorangelo Morrone |
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Brigantaggio con le ragioni sue e del popolo di Gino G. Guarino |
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di Luisa Sangiuolo |
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CAUSE DEL BRIGANTAGGIO (*)di Fiorangelo Morrone |
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(*) da: "Storia di Beselice e dell'alta Valfortore" - Arte Tipografica, NAPOLI, 1993 |
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Molte e complesse furono le cause del brigantaggio dopo l'Unità d'Italia. Alla base di esso vi fu soprattutto la triste realtà economico-sociale dell'Italia meridionale e precisamente l'estrema secolare miseria della classe contadina. Nonostante le riforme varate da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat all'inizio del secolo e dai Borboni successivamente, la struttura economico-sociale dell'Italia meridionale era rimasta quella feudale, anzi con il sorgere di un nuovo ceto borghese accanto al vecchio ordine feudale la condizione dei rurali era andata peggiorando. Non che le condizioni del regno fossero del tutto cattive, anzi vi era stato un continuo miglioramento, ma la naturale aridità del terreno, la mancanza di strade, di acque, di capitali ne ostacolavano i progressi. E soprattutto il fatto che la classe degli agricoltori non si avvantaggiava dei miglioramenti faceva sì che i contadini, ignoranti e poveri, giudicassero ogni cambiamento politico esclusivamente da miglioramenti immediati della loro sorte. Già in precedenza vi erano stati segni premonitori di una insopprimibile necessità di riforme economiche e sociali con devastazioni e invasioni di terre. Si ricordi, ad esempio, quel che era successo nell'Alta Valfortore dopo l'editto regio del 1792 relativo alla censuazione di parte del demanio, in Baselice nel 1793 col sindaco Giuseppe Aurelio de Marco e in S. Bartolomeo fino a tutto il 1800, nonché l'atteggiamento dei contadini al tempo del primo brigantaggio. Ora, dopo l'Unità, l'assorbimento dell'economia meridionale da parte del mercato ben più solido dell'Italia centro-settentrionale aggravò la situazione nel Mezzogiorno. Ad aumentare il disagio si aggiunsero delle leggi amministrative - come la leva obbligatoria - e fiscali intempestive. Di questo stato di disagio profittarono gli elementi filoborbonici per far comparire l'Unità d'Italia come la cagione di tutti i mali. Conseguenza prima fu che si determinò, soprattutto nei contadini di tradizionale fedeltà verso il re borbonico, uno stato d'animo di avversione al nuovo governo unitario, avversione acuita anche dai vecchi motivi di contrasto con i "signori" (per lo più liberaleggianti) sul problema della proprietà e dell'uso della terra. Già il 4 agosto del 1860 si erano verificati a Bronte, in provincia di Catania, dei moti contadini, subito repressi dalle forze garibaldine di Bixio e di Francesco Crispi con una serie di fucilazioni sommarie. La situazione peggiorò quando l'esercito garibaldino fu sciolto, mentre l'esercito italiano era insufficiente a fronteggiare le forze austriache sul Mincio, a debellare le superstiti truppe borboniche a Gaeta, a Messina e a Civitella del Tronto e a presidiare l'inquieta area del Mezzogiorno. Per cui la mancanza di forze repressive rese possibile la grande insurrezione contadina nella primavera e nell'estate del 1861. D'altra parte la semplice repressione senza provvedimenti sociali riparatori verso masse rurali che chiedevano pane e lavoro non risolveva il problema. Sarebbero occorse immediatamente vere riforme agrarie, opere di bonifica, migliorie, ma nulla fu fatto per debellare l'estrema disperata miseria dei contadini che era alla base del triste fenomeno. Ci si rese ben presto conto che i nuovi padroni non erano migliori dei precedenti. Donde il crescere del malcontento popolare, malcontento sfruttato abilmente contro il governo unitario. Quando poi ai contadini si unirono elementi del disciolto esercito borbonico, i disertori, i renitenti di leva, i malfattori di ogni specie, si ebbe il grande brigantaggio, un fenomeno organizzato e sistematico che alla protesta economico-sociale sovrappose un significato politico, tendente alla restaurazione della monarchia borbonica. Per sopprimere il brigantaggio il governo unitario deve ricorrere a vere operazioni di guerra. Furono impegnati ben 120000 soldati, la metà dell'esercito regolare! E nell'agosto del 1863 si deve far ricorso a una durissima legge eccezionale di polizia, la cosiddetta "legge Pica", con cui si cercò di colpire soprattutto i complici e i manutengoli. La legge fu resa necessaria dal fatto che la popolazione era rimasta per lo più inattiva o si era mostrata addirittura ben disposta nei confronti dei briganti, mentre nei paesi spesso i nobili legittimisti erano in aperta connivenza con essi e grande omertà regnava tra i possidenti per paura di ricatti (1).1. Sul brigantaggio si veda G. MASSARI E S. CASTAGNOLA, Il brigantaggio nelle provincie napoletane. Relazione del deputato Massari letta alla Camera dei deputati nel Comitato segreto dei 3 e 4 maggio 1863. Napoli, 1863; F. MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l'Unita', Milano, 1964 (a p. 372 è menzionato Antonio Secola di Baselice); C. CESARI, Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano dal 1860 all 870, Roma, 1920; A. PERRONE, Il brigantaggio e l'Unita d'Italia, Milano, 1963; A. DE IACO, Il brigantaggio meridionale, Roma, 1969. Sul brigantaggio in Valfortore si veda: A.S.N., Brigantaggio, fascio 4; L. SANGIUOLO, Il brigantaggio nella provincia di Benevento, 1860-1880, Benevento, 1975; G. MASCIOTTA, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, II, Napoli, 1915, pp. 284; A. ZAZO, Gli avvenimenti del giugno-settembre 1861 nel circondario di S. Bartolomeo in Galdo, in "Samnium", 1952, p. 1 ss.; Pel Barone Rosario Petruccelli, giudicato ed assolto dal Tribunale Militare di Caserta, di autore anonimo, Napoli, 1864; D. DE NONNO, Poche parole in difesa della Guardia Nazionale di Baselice, Napoli, 1864; A. FUSCHETTO, Fortore di ieri e di oggi, Marigliano, 1981, passim; M. DE AGOSTINI - G. VERGINEO, Il Sannio brigante nel dramma dell'Unita italiana, Benevento, 1991. |
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CAUSE DEL BRIGANTAGGIO (*) di Luisa Sangiuolo |
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(*) da: "Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento 1860-1880" De Martino, Benevento, 1975 |
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La provincia di Benevento suddivisa in tre circondari, come tutte le province di nuova istituzione, esprime per il momento solo una estensione geografica. Lo Stato accentratore pretende che le autorità comunichino tutto e subito a Torino, che il funzionamento amministrativo avvenga in tempi brevi. Si fa presto a dirlo, ma in che modo? Strade ce n'è poche nell'ex Regno Napoletano; se si eccettuano le quattro regie Tronto - Napoli per gli Abruzzi, Napoli - Terracina, Napoli - Lecce, Napoli - Reggio Calabria, il resto è costituito da mulattiere o da tratturi. Benevento quando era ducato pontificio si estendeva su 45 miglia quadre con strade esclusivamente urbane, extraurbane solo per San'Angelo a Cupolo, San Leucio e Bagnara. Adesso che congloba territori di Principato Ultra (Avellino), Molise, Terra di Lavoro (Caserta) e Capitanata (Foggia), ha problemi di viabilità interna. S. Bartolomeo in Galdo e la zona del Fortore, sono ai confini del mondo! Da Torino si vuole che il collegamento delle autorità nel Sud a livello interprovinciale, sia fattivo e celere per fronteggiare meglio la lotta al brigantaggio. A Benevento si studia la situazione e si prendono le distanze; la città è lontana 30 miglia. da Napoli, 14 da Avellino, 28 da Salerno, 40 da Foggia e Campobasso. Il Ministro dell'Interno Marco Minghetti, si sa è favorevole alle Regioni; esse senza sminuire d'importanza la Provincia o il Comune, sono chiamate a svolgere un ruolo intermedio tra la Provincia e lo Stato. Nel marzo del 1861 a Benevento, nella forma di memoria al Parlamento Nazionale, si elabora un piano di riconoscimento per la Regione Sannitica, non tanto in osservanza al disposto ministeriale, quanto con l'occhio speranzoso di chi voglia migliorare le strutture o infrastrutture già esistenti. L'apertura di strade rotabili risulta connessa all'opera di arginatura dei fiumi, ad una migliore distribuzione delle acque correnti per i bisogni dell'agricoltura. Si propone che le province continentali dell'ex Regno di Napoli siano così suddivise in sei regioni: Campania con Napoli e Terra di Lavoro - capoluogo Napoli; Lucania con Principato Citra (Salerno) e Basilicata - capoluogo Salerno o Potenza, preferibilmente Salerno; Bruzio con le tre Calabrie; Citeriore (Cosenza), Ulteriore 2a (Catanzaro); Ulteriore 1a (Reggio Calabria) con capoluogo Catanzaro; Puglia con Terra di Bari, Terra d'Otranto e Capitanata con capoluogo Bari; Sannio con Benevento; Principato Ultra e Molise, capoluogo Benevento, Piceno con i tre Abruzzi; Ulteriore la (Teramo), Ulteriore 2a (Aquila), Citeriore (Chieti), con capoluogo Aquila o Chieti preferibilmente. Capoluogo della regione sannitica dovrebbe essere Benevento perché situata in posizione centrale; sarebbero da escludere Avellino perché situata troppo a mezzodì e Campobasso troppo lontana tra i monti, vicina all'Adriatico. Nell'aprile 1861 Giuseppe Manciotti pone al Parlamento Nazionale la improrogabile necessità di costruire entro l'ambito della provincia non meno di 90 miglia di strade rotabili (1) per consentire le comunicazioni con la Puglia, Avellino, Campobasso, Abruzzi, Terra di Lavoro e Napoli. L'importanza di Benevento è chiaramente strategica; il ministro della guerra può qui stanziare un forte contingente di soldati; (se si va alla svelta a costruire le strade) è in grado di assicurare l'ordine in buona parte del Sud. Come si vede, si affaccia già l'ipotesi che il brigantaggio non potrà essere represso in breve tempo. D'altronde gli entusiasmi per l'annessione già sono prossimi a svanire. Vittorio Emanuele II non mostra veruna riconoscenza ai beneventani che hanno fatto la rivoluzione del 3 settembre 1860, minacciando l'esercito borbonico alle spalle, mentre Francesco II era ancora a Napoli e nella pianura di Eboli erano concentrati non meno di 40.000 soldati borbonici. Si interessa solo alle entrate che darà la sua nuova provincia alle finanze del Regno, mezzo milione; una bella sommetta. I liberali beneventani sono furibondi; gli impiegati da oltre tre mesi non ricevono la paga; i viveri vanno alle stelle, gli affari languono. Per oltre cinque mesi il Tribunale non ha funzionato. Come poteva, quando i Giudici non erano stati nominati e mancava l'impianto regolare per le spese? Non funzionano l'Ufficio dei Dazi indiretti, delle Ipoteche, della Camera notarile. I liberali non si azzardano neppure a parlare dei vantaggi dell'annessione. L'ambasciatore austriaco a Roma, commenta la situazione dicendo che i beneventani soffrono la fame ed hanno quello che si sono meritati, sganciandosi dallo Stato pontificio: fame e disordine amministrativo. La situazione internazionale si complica. A favore di Francesco II si schierano l'Austria e la Francia. Il Papa Pio IX memore dell'ospitalità ricevuta da Ferdinando II a Gaeta, ove era fuggito il 25 novembre 1848 in occasione dei moti insurrezionali da cui sarebbe poi scaturita la Repubblica romana, della partecipazione di Ferdinando II alla battaglia di Palestrina e Velletri nel maggio dell'anno successivo in difesa del potere temporale, del lealismo borbonico giammai mirante nella ipotesi federativa o unitaria ad alienare lo Stato della Chiesa, approva la resoluzione di Francesco II di servirsi del brigantaggio politico-sanfedista per ritornare in possesso del trono perduto e all'uopo incarica il cardinale Antonelli di negoziare un prestito segreto con una banca di Amsterdam per 10 milioni (2) al fine di aiutare concretamente il partito leggittimista. L'episcopato e il clero sono con il Papa e determinano la resistenza filo - borbonica; non possono come è ovvio recitare l'orazione pro Rege e cantare il Te Deum in onore di Vittorio Emanuele II che ha usurpato l'Emilia-Romagna, le Marche, l'Umbria e il Lazio, Pontecorvo e Benevento, terre del loro sovrano territoriale. E' scontato che non vadano a votare alle elezioni del 27 gennaio 1861 per i Deputati al Primo Parlamento Nazionale di Torino, si rifiutino di cantare l'inno ambrosiano in rendimento di grazia a Dio per la presa di Gaeta del 13 febbraio 1861 e non intervengano a celebrare la messa nelle solennità del Santo Patrono o tipiche del luogo dove esercitano il loro ministero, per non incontrare le Autorità politiche civili e militari del nuovo regime monarchico sabaudo. Il Conte di Cavour, l'assertore della libera Chiesa in libero Stato, di concerto con il Ministero dell'Interno, ha già disposto in base al decreto 24 settembre 1860 di considerare sovvertitori della pubblica quiete quanti parroci o sacerdoti si rifiuteranno di celebrare i propri uffici e di punirli con l'arresto. Nel beneventano molti sacerdoti finiscono in carcere; a Montesarchio don Marcello Grassi "non interveniva al Te Deum cantato per plaudire al diletto Re Vittorio Emanuele, né votava per l'elezione del deputato e metteva il colmo alla misura della sua perversità di animo col denegarsi alla solita annuale funzione delle 40 ore che a divagazione della Congrega di S. Giacomo Apostolo celebrasi in questa chiesa negli ultimi tre giorni del carnevale, e ciò faceva nel fine di suscitare scandali e disordini contro la legittima nazionale autorità e per non pronunziare l'orazione pro Rege. E tale suo deniego lo rendeva aperto coll'allontanarsi di qui, lasciando la chiesa nel giorno di Domenica in abbandono e senza far celebrare messa solenne, come di costume mentre era parata a pubblica festa. Questo fatto ingenerava nel pubblico grave tumulto, poiché non vi è cosa che possa far quello trascendere a disordini e a turbare la pubblica tranquillità, quanto il vedersi privato delle sue antiche religiose tradizioni. Sarebbe forse stata alterata la quiete e l'ordine se la benemerita Guardia Nazionale non avesse mostrato il solito suo contegno e zelo" (3). Su proposta del Sindaco De Simone, il giudice del circondano di Montesarchio, rinvia a giudizio Don Michele Grassi, reo di "fatto delittuoso". Nel corso delle persecuzioni, non si ha riguardo neppure per le monache. Suor Maria Crocifissa, al secolo Emilia Bardari, nel Cerretese va questuando per raccogliere elemosine; solo perché la si è vista parlare con il Canonico della Cattedrale don Francesco De Carlo noto borbonico e la si è udita deplorare con parroci e monache l'inumanità dei militari che fucilano in modo sommario e senza i dovuti accertamenti quanti nella provincia di Benevento siano indicati come briganti, senza concedere loro il conforto della confessione, è arrestata dal delegato di Pubblica Sicurezza l'11 dicembre 1861. Imputazione: sospetta emissaria borbonico-clericale, sovvertitrice della pubblica quiete in opposizione al Governo della Sacra Maestà di Vittorio Emanuele (4). Con il novo anno, si mira più in alto, a Monsignor Luigi Sodo Vescovo di Cerreto, rimasto dopo l'allontanamento del Cardinale Carafa da Benevento l'autorità ecclesiastica di maggior spicco ed influenza. Aveva pacificato gli animi nel corso della manifestazione borbonica del 27 settembre 1860 a Cerreto, allorchè alcuni contrabbandieri di tabacco, gridando "Viva Francesco II" ed accompagnandosi con la banda musicale attraverso le vie del paese, si erano portati fino allo spiazzale prospiciente la Cattedrale. Indi sollecitato dal giudice Mezzacapo, dal Sindaco Antonio Riccio, dal barone Magnati, valendosi del suo ascendente era riuscito ad ottenere che i popolani desistessero dall'attacco alle case di Giacinto Ciaburri, ufficiale molto malvisto dalla Guardia Nazionale, nonostante questi avesse sparato un colpo di archibugio sugli assedianti prima di darsi alla fuga. In fin dei conti non era successo niente di grave, il Ciaburri si ritrovò sano e salvo ed adeguatamente risarcito dal Governo per i danni subiti (5). La riconoscenza non è tuttavia degli umani e contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato, il giudice Mezzacapo spiccò mandato di cattura contro Monsignor Sodo che, per consiglio del suo arcidiacono don Nicola Rotondi, abbandonò Cerreto e si rifugiò a Napoli (6). Qui fu raggiunto, arrestato e detenuto nel carcere della Concordia. Il processo celebrato contro di lui, si concluse con l'assoluzione, tanto inverosimili erano le accuse e nulle le prove della sua colpevolezza. Ritornato a Cerreto, le nuove Autorità non lo perdono di vista. Lo ritengono un pericoloso reazionario, in considerazione della Croce di Cavaliere di prima classe del Reale Ordine di Francesco I, onorificenza che gli fu concessa il 27 dicembre 1858 in occasione del matrimonio di Francesco II con Maria Sofia di Baviera (7) e dalla frequenza con cui veniva ricevuto alla corte borbonica, presso cui godeva grande stima e riverenza……. Al Parlamento italiano di Torino nella tornata del 14 luglio 1862, messe in discussione la Resistenza filo-borbonica e le misure di repressione, si dà mano alle statistiche, arrivando alla conclusione: 54 su 61 Arcivescovi e Vescovi delle province meridionali, messi al bando, sono sotto processo! (8). L'omnibus del 15 gennaio 1863, dà notizia che il 3 gennaio Monsignor Sodo è stato di nuovo arrestato a Napoli, presso la sorella Gaetana maritata Camardella; nulla è stata la perquisizione. Con lui in pari data sono stati arrestati il parroco De Angelis, l'economo Cinque, la principessa Sciarra Barberini e Gabriele Quattromani. E' il bel risultato cui giunge il Questore di Napoli Nicola Amore, che si è messo a perseguitare i prelati della Campania. La sorveglianza diventerà poi blanda e tollerabile nel 1865 quando Nicola Amore lascerà la questura di Napoli appagando le sue ambizioni come deputato alla Camera per il Collegio di Teano e il Parlamento, rinsavito, adotterà misure meno scandalose. Ritornato in diocesi dopo cinque anni di esilio, Monsignor Sodo riapre il Seminario di Cerreto a cui affluiscono moltissimi giovani anche laici, provenienti dall'Italia meridionale, in cui fino al 1900 o giù di li resterà chiusa buona parte dei collegi gestiti da religiosi, a tutto vantaggio della Scuola di Stato. Monsignor Sodo ha vinto; ad illustrazione della sua opera di grande educatore, giova citare quanto di lui disse Monsignor Vincenzo Maria Sarnelli Vescovo di Castellammare di Stabia, incaricato di tesserne l'elogio funebre nel 1897 nel primo anniversario della morte. "... addestrato alla scuola dei Maccabei nel riedificare le mura di Gerusalemme in mezzo ai nemici, con una mano seppe tenere pronto lo scudo e con un'altra edificò la casa di Dio meglio ancora di prima praevaluit amplificare civitatem". Chiusi i seminari nelle vicine diocesi, riapriva il suo lo ingrandiva lo migliorava. Punto o in nulla condiscendente alle nuove idee, severo nel rinfacciare le fortunate ingiustizie ai potenti (9). In queste parole era trasparente l'allusione all'uomo politico che tanto male aveva fatto (il suo nome era conosciuto a Cerreto e nella provincia di Benevento). I documenti fin qui citati ci hanno permesso di comprendere come la pensavano i giudici e delegati di Pubblica Sicurezza in merito ai rapporti tra Chiesa e Stato. Non è quindi inopportuno che lasciamo la parola ad un Sindaco, affinchè illustri il suo pensiero, nei riguardi dei sacerdoti di stretta ortodossia che si rifiutavano di recitare l'uffizio dinanzi alle Autorità Civili e Militari durante le manifestazioni solenni: Delibera N. 212 del 17 novembre 1862 del Consiglio Comunale di Benevento……. Le intimidazioni ai sacerdoti accompagnate da arresti e nel più blando dei casi dalla perdita dell'emolumento per l'uffizio sono di ispirazione cavouriana; anche dopo la morte dello statista, avvenuta il 6 giugno 1861, la destra storica continua la sua linea politica: stretta osservanza del decreto 20 settembre 1860, controllo poliziesco minuzioso, potere illimitato concesso ai militari per la repressione, severissima censura sulla stampa dei giornali di opposizione. Silvio Spaventa, ora alla direzione del Dicastero di Polizia, collabora con il Generale Besagna Comandante della zona militare di Napoli, instaurando un regime di terrore, facendo rimpiangere i sistemi più umani adottati anteriormente dai Borboni. A Benevento manda una lista di giornali da sequestrare (10); tra i radicali: Lo Zenzero, La Patria di Firenze, Il Diritto di Torino, Il Movimento di Genova, La Provvidenza del Popolo di Bologna, L'Unità Italiana, Il Lombardo di Milano, Il Patriotta di Parma: tra i retrivi: Il Contemporaneo di Firenze, L'Armonia, Il Piemonte, Il Subalpino di Torino, Lo Stendardo Cattolico di Genova, L'Eco di Bologna, Il Difensore Cattolico di Modena, L'Ingenuo di Livorno. Ci si domanderà perché mai Spaventa patriota e filosofo abbia agito così; i carteggi Cavour di recente pubblicati, nel mentre ridimensionano l'opera del tessitore, più volta alla conquista violenta del sud che all'annessione pacifica, confermano purtroppo la responsabilità di tanti meridionali, di Silvio Spaventa, di Francesco De Sanctis, di Michele Amari, Massari e Scialoja; chiamati a reggere importanti dicasteri o a svolgere il ruolo di consiglieri nella questione meridionale, non solo non gli si opposero, ma influirono su di lui perché scegliesse la maniera forte. L'esilio aveva loro giocato un brutto scherzo; "rimasti lontani dalle loro province per lunghi anni, avevano imparato a disprezzare i loro conterranei" (11). L'opinione pubblica nella provincia è così scarsamente convinta della Unità, che stenta a riconoscere valida la lira piemontese, diversa dallo scudo papale e dal ducato napoletano, cui era abituata. In molte occasioni, i venditori ambulanti si rifiutano di consegnare la merce. Tra i tanti episodi verificatisi, si sceglie a mo' d'esempio quello accaduto in S. Lupo il 19 dicembre 1862. E' arrestato il merciaiuolo Antonio Pascarello da Maddaloni, perchè si è rifiutato di ricevere le monete in bronzo da 5 centesimi in corso, per l'acquisto di un cartoccino di pepe, da Anna Capuano. Per ordine di Achille lacobelli, le Guardie Nazionali Saverio Cesare, Angelo Macolino e Giuseppe De Blasio gli tendono un agguato e lo acciuffano. Con la moneta piemontese si compra poco e male. Le statistiche dicono che in Italia si spende in ragione del 6,15 per gli alimenti, di contro al 3,41 dell'Austria, al 2,17 della Germania, allo 0,41 dell'Inghilterra (12). Il servizio militare, la tassa sul macinato, i dazi di consumo, sono obbligatori; questo in prima analisi determina la fine dell'artigianato. La condizione dei contadini è addirittura tragica. Svariate volte i Re di Napoli avevano cercato di immetterli nel possesso delle terre; Giuseppe Bonaparte aveva emanato la legge eversiva della feudalità il 2 agosto 1806 per una prima quotizzazione delle terre demaniali; Gioacchino Murat ne aveva decretato nel 1813 l'abolizione; i Borboni con la legge del 1825 e il decreto del 1841, anche per sollecitazioni dell'Austria e dell'Inghilterra, avevano continuato sulla via delle riforme, sciogliendo le promiscuità agrarie e valutandone il riscatto. Tuttavia se il feudalesimo era stato annullato come sistema giuridico, continuava a vivere come costume di vita. Nella provincia di Benevento la proprietà agraria è vincolata da contratti enfiteutici; chi aliena l'utile dominio è tenuto per il principio della quarteria a pagare la quarta parte al padrone. Inoltre il contadino che non paga l'affitto entro due mesi dalla scadenza del canone, perde per la legge della devoluzione il fondo concessogli, senza aver diritto a ricevere indennizzo per le migliorie che vi ha apportato (13). Quel colono che non è stato cacciato dal fondo, non per questo è da invidiare. Va a chiedere un prestito al monte frumentario per ricevere grano; ha bisogno della firma di un garante, non di un poveraccio come lui, ma di una persona solvibile. Solitamente questa persona solvibile è un proprietario di terre che si fa pagare la firma con l'interesse del 25 %, più un compenso in natura. Se si tiene conto che quando va a ritirare il grano non glielo danno asciutto, ma bagnato perché pesi il 10% in più e palleggiato perché aumenti almeno del 6%, si può comprendere la sua disperazione. E' un ricordo da Paradiso perduto l'editto del 14 febbraio 1694 del Cardinale Orsini e successivo da Papa nel 1724, con cui il contadino, con modico interesse, riceveva il prestito a grano, tutelato ampiamente dal parroco, presente alle operazioni e dal Cardinale Arcivescovo di Benevento, che annualmente esigeva il rendiconto di esercizio della gestione da parte della Commissione preposta. Il "cafone" tira avanti finché può; quando gli interessi lo hanno rovinato del tutto, diventa bracciante guadagnando una misera mercede. Al tempo della mietitura per guadagnare di più, mettere cioè qualcosa da parte per quando resterà senza lavoro, si assoggetta all'emigrazione stagionale in Puglia. Lavora dall'alba al tramonto; alle dieci del mattino il caposquadra dà l'alt ai lavori per mezz'ora; gli consegna il parrozzo, una forma di pane nero da 1 kg., consentendogli di mangiare. Indi di nuovo all'opera fino a sera tardi. A quest'ora si fa un po' di fuoco; sopra si dispone una caldaia con l'acqua e un po' di sale e di olio. I braccianti si mettono all'intorno e nelle scodelle di legno affettano il pane. Quando il brodo è pronto, il massaro ne prende le porzioni con il mestolo e lo versa nelle scodelle sul pane affettato. Così si va avanti con la zuppa acqua-sale, con uno due litri di vinello nelle giornate di maggiore calura, per reggere alle più dure fatiche. Al ritorno, il bracciante porta con sè il parrozzo che ha risparmiato di mangiare; lo venderà per portare qualcosa di più a casa, fiero del mezzo tomolo di grano e di fave che gli spettano, a conclusione dell'ingaggio (14). Nel Sannio, osservano gli ufficiali piemontesi di stanza, il contadino è di buona indole, ma ahimè ridotto a sottoproletario; le caste dei latifondisti, dei piccoli proprietari e dei commercianti di grano, lo disprezzano senza fine guardando a lui come ad una bestia da soma, non al produttore fattivo della ricchezza. Nei paesi più grandi del Beneventano, la proprietà agraria è in mano a quattro o cinque famiglie, quando non concentrata nelle mani di un solo signore onnipotente e dispotico. Allorchè i ricchi danno in fitto un fazzoletto di terra, pretendono un canone altissimo e le corvées, le giornate lavorative gratuite tanto per l'affittuario quanto per la moglie, obbligata a lavare gratis i panni e a fare le pulizie grandi nella casa del datore di lavoro. Se chiamano il bracciante a prestare la sua opera per pochi giorni, non di rado lo retribuiscono in natura, quasi mai in cereali, anzi con frutta ed ortaggi, così difficili da smerciare per mancanza di richieste nelle esportazioni, con l'immancabile conseguente decurtazione del salario. Il "cafone" che non può provvedere ai bisogni della famiglia, è costretto a vendere i figli ad uomini di pochi scrupoli che li mandano in Francia, America, Germania, Malta e Algeria a chiedere l'elemosina nelle vie. Altro che Miserabili di Victor Hugo! I ricchi si offrono di comprare le bambine per approfittare di loro quando diventeranno giovinette. Nel migliore dei casi, faranno loro da dote, mai con i soldi propri, ma con i soldi del Comune in cui sono sindaci o dell'Istituto di beneficenza di cui sono gli illustri presidenti (15). In queste condizioni, come non farsi briganti? Eppure non lo diventano ancora, nonostante siano costretti a vendere i figli maschi arrivati al dodicesimo anno di età "gli alani", anno per anno ai proprietari di terre avendone in cambio qualche misura di grano, denaro mai. Il commercio degli schiavi si è tenuto puntualmente ogni ferragosto nella città di Benevento nel corso di una fiera umana fino ad una ventina di anni fa, quando si ebbe pietà per i fanciulli, esaminati nell'altezza, muscoli, dentatura, quasi si trattasse di bestie da valutare, prima di decidere oculatamente un certo investimento di capitale. Qualche misura di grano! Che dire poi dell'infame diritto della prima notte vantato dai latifondisti, anche dopo l'abolizione dei medievali, disumani diritti della feudalità? Qualche colono riesce a sottrarsene, non a parole: sarebbe troppo pericoloso. L'atteggiamento di possesso incantato verso la sposa, l'aria di severo corruccio che assume il viso dell'uomo quando qualcuno le alza gli occhi addosso, significa a volo: " è la mia signora, stendo a terra con il fucile, chiunque si azzardi" ……. La miseria dei contadini già di per sé intollerabile, si aggrava con 1'Unità d'Italia; il Parlamento non approva il disegno di legge del Ministro Minghetti riguardante la Costituzione delle regioni, a tutto vantaggio del sistema accentratore, riconoscendo al Re il diritto di nominare Prefetti e Sindaci. Nella provincia di Benevento si va a gara a vendere i beni demaniali e della Chiesa nel 1862, 1866, 1867 ad un prezzo irrisorio. A chi? Ai Sindaci che sono anche proprietari di terre e parimenti agli amici dei Sindaci della stessa estrazione sociale. Come mai i Prefetti lasciano correre e permettono la vendita dei terreni a sottocosto? E' spiegabile per due buone ragioni. Innanzi tutto la loro nomina è revocabile in qualsiasi momento; quali garanti dell'ordine, è meglio vadano d'accordo con i Sindaci che blandiscono m ogni maniera. Quello che pagano in meno i Sindaci, è compensato dal tanto in più fatto pagare dagli amministrati; si sa hanno la mano pesante sulle imposte indirette. I conti tornano; a Vittorio Emanuele interessa riscuotere il denaro dei sudditi, non informarsi del modo come venga esatto. Praticamente, non sussiste alcuna remora alla alienazione del pubblico dominio. I contadini perdono il diritto al legnatico e al selvatico la possibilità cioè di andare a raccogliere gratis legna nei boschi per i bisogni di cucina e per il riscaldamento durante l'inverno, nonchè l'uso dei pascoli. Si sarebbe potuto almeno tentare di presentare un progetto di legge di riforma agraria da parte del Parlamento. Da chi è formato il Parlamento? Dagli eletti nel corso di elezioni fatte in gran fretta e truccate, riservate agli abbienti, dai pochi patrioti che hanno fatto l'Unità, tanto si sa che il Risorgimento è stato opera di pochi. Al Parlamento una riforma del tipo prussiano, è questione tabù. La Prussia a tempo di record dal 1807 al 1811 aveva abolito la servitù della gleba, consentendo al contadino di venire in possesso del terzo della terra da lui coltivata, della metà se il terreno fosse meno produttivo; il rimanente restava al padrone. Di concerto agivano il tribunale locale incaricato di fare da intermediario nelle liti tra contadini e proprietari e le banche disposte ad anticipare il denaro occorrente al riscatto, al modico interesse del 5 % (16). Quando Francesco II sconfitto a Gaeta il 13 febbraio 1861, ripara alla corte papale per rientrare in possesso del Regno, ricorre all'espediente del brigantaggio. I Borboni lo hanno applicato già con successo nel 1799 organizzando l'esercito della Santa Fede guidato. dal Cardinale Fabrizio Ruffo. Combatterono con energia fianco a fianco, preti e vagabondi lazzaroni, frati e contadini, ne si sentirono offesi di essere chiamati briganti; nel meridione già dalla seconda metà del 1300 chiamarono così i mercenari svizzeri del Re provenienti dalla Brigantia, regione prospiciente il lago di Costanza (17). Altrettanto legittimisti si ritenevano i briganti di epoca murattiana quando dal 1808 al 1815 avevano preso le armi per restaurare sul trono Ferdinando IV a cui era rimasto il possesso della sola Sicilia con il titolo di Ferdinando III. Questa volta, nel 1861, il brigantaggio non è esclusivamente legittimista; per intenderci non è una Vandea napoletana. E' una reazione politico-sociale a cui danno il loro appoggio, con uno slancio tardivo ed ingenuo gli ex soldati di Francesco II, pastori e contadini. Non si tratta di accozzaglia di delinquenti comuni; piuttosto uomini in età giovanissima che intraprendono la lotta di resistenza ai ricchi nostrani e agli oppressori piemontesi, odiati per il loro rapace fiscalismo. Pasquale Villari, deputato conservatore alla Camera, per il suo schieramento politico non sospettabile di forzatura di giudizio, afferma che "il brigantaggio non nasce da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione. Diventa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro, antiche e secolari ingiustizie" (18). Alla leva dell'esercito clandestino rispondono tutti coloro che rifiutano sottomissione ai ricchi ed hanno subito torti personali. Nella loro mentalità di primitivi, sono assetati da una grande ansia di giustizia che solo il Re può soddisfare, giacché le sopraffazioni di cui sono le vittime, non sono state opera sua, bensì di quanti tra proprietari e funzionari hanno operato in suo nome, a sua insaputa. In altri termini, si combatte non per la persona reale di Francesco II o Pio IX, ma in nome dell'Autorità. che essi simboleggiano: il Trono e l'Altare. Dopo l'incontro di Teano, per protestare contro le persecuzioni di cui Garibaldi è fatto oggetto, si fanno partigiani della libertà anche i garibaldini che prima, agli ordini del Generale avevano sconfitto Francesco II. Diventano partecipi della reazione contadina, mentre Garibaldi non si era posto il problema del riscatto della plebe agraria, anzi aveva lasciato che Bixio suo luogotenente reprimesse le agitazioni dei "cafoni", quando questi avevano capito di aver preso una svista. Il Generale non era il liberatore dalla miseria, piuttosto un abilissimo capo della guerriglia, capace di suscitare vane speranze di riforma nella sua avanzata dal Sud verso Napoli o come malignamente e non del tutto a torto sospettava Cavour, colui il quale voleva atteggiarsi a Vicerè d'Italia nei fatti e specialmente nei proclami, con quell'ibrida formula "in nome di Vittorio Emanuele e Garibaldi, Dittatore". Il 'Comitato borbonico a Roma sovvenziona le bande brigantesche; è ovvio però che il danaro non basta per tutte; i briganti debbono ricorrere alle requisizioni ai danni dei proprietari. Vi pare che questi si sottraggano? No. Nella provincia di Benevento, diligentemente annotano nel libro delle spese giornaliere quanto in natura danno ai briganti e in che data. Non si può mai sapere come andrà a finire; se ritornerà Francesco II a Napoli, saranno considerati persone benemerite. Poi, morirebbero di collera se non stessero sempre in mezzo alle congiure con il peso di autorità e prestigio derivante dalla casta. Fanno il doppio gioco e quando hanno giocato tutto d'azzardo, per salvare la faccia con le Autorità, o rivelano il nascondiglio dei briganti ai funzionari di Pubblica Sicurezza e alle Guardie Nazionali, o li persuadono alla presentazione volontaria. Chi fa il capobrigante, dura poco; al massimo due o tre anni; se resiste di più, vuol dire che gode di alti appoggi e non li riceve senza una contropartita: le intimidazioni per commissione a qualche possidente natural nemico del mandatario, per uno scopo chiaramente mafioso. Il brigante autentico, quello appunto degli ideali di giustizia e libertà è costretto suo malgrado, per conservare ascendente sulla banda e costringere alla disciplina gli uomini, a ricorrere alla violenza. L'opinione pubblica non ne resta scossa, anzi stima naturale che il giustiziere agisca in siffatto modo. Si verifica in realtà un sottile inconscio processo di identificazione tra il capobrigante e il contadino atavicamente maltrattato. Il colonnello Michele Caruso è un eroe, perché dimostra che il contadino o pastore, se vuole, può diventare temibile nelle reazioni, riscattandosi dalle umiliazioni subite (19). Chi si ribella, quando vince durante uno scontro o incendia gli archivi comunali, annulla i privilegi dei ricchi, celebrando il trionfo degli oppressi sugli oppressori. Chi si ribella, quando distrugge le messi dei proprietari o ne uccide il bestiame, toglie il superfluo, quello che non tocca ai contadini sfruttati dal latifondo, la ricchezza ingiustamente capitalizzata, eliminando simbolicamente la corruzione del sistema economico vigente. Bisogna capirli i contadini datisi al brigantaggio nella provincia di Benevento! Molte volte provengono dalle regioni circonvicine; Ninco-Nanco tramite Caso di Basilicata consente lo spostamento temporaneo dei briganti nel Beneventano per fiancheggiare le spedizioni del colonnello Michele Caruso e ravvivare lo spirito di emulazione di quanti in loco hanno aderito alla reazione. Chi si allontana dalla terra ove è nato, dai campi direttamente coltivati, è senza radici e senza affetti. Costretto ad una vita nomade, non può fermarsi; questo significherebbe la morte. Di qui la ricerca di avventure, l'una più pericolosa dell'altra, che servono ad appagarlo, l'emotività accentuata indirizzata a far violenza alle donne o alle persone in genere, mediante l'attuazione di feroci delitti. Con questo beninteso, non si intende giustificare la violenza, ma almeno tentare di capire perché l'opposizione politico-sociale sia esplosa in certi casi in forme dimentiche della pietà e della umana compassione. Cavour aveva approvato nel dicembre 1860 i metodi del generale Cialdini; fucilare quanti trovati con armi alla mano, briganti e non. Ripristinò i fondi politici segreti che Garibaldi aveva abolito, affidandoli ai Prefetti; dovevano servire per pagare le spie, i premi a chi si prodigasse a far catturare i briganti. Scelse insomma la via della repressione, quando poteva usare quella della prevenzione basata sull'apertura di strade di sicura comunicazione, lungo le quali il brigantaggio difficilmente avrebbe potuto prosperare. Non volle neppur tentare riforme sociali al fine di alleviare le tristi condizioni dei contadini o riforme amministrative atte a ridurre il disordine imperante nelle province e nei comuni. Spedì nel meridione gli effettivi di metà esercito nazionale: circa 120.000 uomini. Sul suo esempio, la destra storica ve lo mantenne con conseguente aggravio per l'erario, spendendo altro denaro per il mantenimento delle squadriglie mobili. Tutto sommato l'apertura di nuove strade e le riforme, sarebbero venute a costare di meno. La repressione generò una guerra civile, costituì un pesante carico di responsabilità morale e un errore politico di non lieve portata. Le statistiche ufficiali parlano di 3.500 morti nella resistenza e di 2.000 condannati a pene varie; in realtà i morti furono in numero di gran lunga maggiore e così i condannati. Migliaia e migliaia di soldati morirono di malaria; quelli morti durante questa guerra civile superarono in entità i caduti in tutte le altre guerre del Risorgimento. La questione sociale non è risolta neppure quando la sinistra va al potere; le masse assenti dalla vita politica, prive del diritto di voto, non possono palesare le proprie aspirazioni. I Deputati del Sud rimangono i padrini della situazione, accentuano il sistema clientelare e mercanteggiano con lo Stato l'approvazione delle spese per gli armamenti della marina e dell'esercito, in cambio del dazio sul grano, delle tariffe protettrici opprimendo "con un sistema tributario selvaggio tutte quelle classi che non prendono parte al mercimonio fra potere esecutivo e maggioranze parlamentari" (20). Ai contadini del meridione si rimproverano la mancanza di spirito associativo e il servilismo verso la classe dirigente. Dunque, sono accusati di essere la causa della loro miseria, quando invece la miseria è stata determinata da scelte politiche che non li hanno chiamati in causa, facendo loro subire tante ingiustizie. Giova tuttavia precisare che nell'imperante malcostume, uomini diversi per convinzioni politiche scoprirono di avere molti obiettivi in comune: lotta contro il protezionismo, contro i monopoli, contro il nazionalismo, la difesa di tutti i ceti sociali. Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Gino Luzzatto, Antonio De Viti De Marco, i fratelli Mondolfo di buon grado offrirono la loro collaborazione al giornale "l'Unità" di Gaetano Salvemini ed ebbero il merito di porre all'attenzione della Nazione la questione meridionale. Essi denunciarono lo strapotere della ,borghesia agraria e la sottomissione dei contadini, accusando il partito socialista di aver difeso gli interessi settoriali degli operai della grande industria, secondando i disegni di pochi individuati capitalisti (21). La questione meridionale, di cui il brigantaggio fu la disperata denuncia, rimane tuttora aperta. E' già molto che se ne parli in Parlamento, come problema storico-morale. Ma fino a quando mancherà la volontà politica di risolvere il problema, tutto rimarrà allo stato delle buone intenzioni, dei vuoti enunciati retorici. Quanto tempo ci vorrà prima che dalle parole si passi ai fatti? Quanto ne occorrerà per realizzare quella svolta storica auspicata da Gramsci prescindente dalla occupazione delle terre e dallo spezzettamento del latifondo (22), non determinata dalla generica solidarietà per il Sud o dall'attuazione di una legge speciale (23), sebbene dall'alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud, nel contesto di "una politica generale estera ed interna che sia ispirata al rispetto dei bisogni generali del paese". In quanto ai tempi, potranno essere più o meno accorciati, ma non dimentichiamo che il cammino della storia, sia pur lento e faticoso, procede sicuro ed inarrestabile.NOTE 1. La richiesta di Giuseppe Manciotti per l'apertura di nuove strade nella provincia di Benevento, si esprime così: Per la strada della Puglia da Ponte Valentino a Troia miglia 52; Per la Via Molise da Torre Palazzo fino a ponte di ferro di nuova costruzione sulla via Appulo Sannitica miglia 3,12; Da Torre Palazzo per Fragneto e Pontelandolfo fino ad incontrare la via corriera per Campobasso miglia 11,12; Per la via del Valfortore da Benevento per Pago Veiano - S. Marco dei Cavoti - Baselice fino ad incontrare la strada per Lucera e Campobasso miglia 26,12; Per la via d'Ariano da Benevento fino ad incontrare la strada corriera a Ponte Calore miglia 9; Per la Calabria da Benevento fino ad Altavilla per incontrare la strada corriera di Avellino miglia 7,12.2. Cfr. Clelia Cassar, Archivio di Stato Caserta: Brigantaggio politico in Terra di Lavoro dal 1860 al 1870, pag. 15 - Tesi di Laurea Anno Accademico 1996-67. Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Napoli, Relatore Prof. Ernesto Pontieri.3. Archivio di Stato Benevento - Comune Montesarchio - fatti dell'ordine pubblico - Rapporto del Sindaco De Simone in data 13febbraio 1861. Il Giudice del Circondano di Montesarchio informa il Sindaco in data 19 febbraio 1861 di avere disposto perché sollecitamente venga espletato il giudizio a carico di Padre Marcello Grassi dell'Annunziata di Montesarchio, Reo di "'fatto delittuoso".4. Museo Archivio Storico del Sannio Benevento. Cerreto brigantaggio 1861.5. Così narra gli avvenimenti Don Nicola Rotondi arcidiacono e contemporaneo di Monsignor Sodo nelle Memorie Storiche di Cerreto, manoscritto conservato a Cerreto nella biblioteca di R. Pescitelli.6. Biblioteca Archivio Storico della Camera dei Deputati Roma. Interventi dei Deputati nella tornata del 14 luglio 1862.7. Monsignor Vincenzo Maria Sarnelli: Elogio funebre in onore di Monsignor Luigi Sodo nel primo anniversario della morte. Napoli, Giannini, 1897.8. Questo elenco è accluso alla circolare n. 12291 del Comando Generale della Divisione Territoriale di Napoli datata 15 settembre 1862. Il sottoprefetto di Cerreto, nell'ambito delle sue competenze, ne diede diffusione in data 19 settembre 1862. Cfr. Brigantaggio Cerreto 1862. Museo Biblioteca Archivio Storico del Sannio Benevento.9. Tale severo giudizio è espresso dal Deputato illuminato conservatore alla Camera dei Deputati nell'opera: Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia. 1885. Cfr. Denis Mack Smith: Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Bari, Laterza, 196010. Questa statistica è riportata da Salvatore Francesco Romano nell'articolo: Le classi sociali in Italia, Nuove questioni del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, vol. Il, pag. 597, 1961.11. Cfr. Giuseppe Manciotti: La questione di Benevento al Parlamento, Benevento, De Martini, 1861.12. Cfr. Pasquale Villari: Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, 1885, pag. 47 segg.13. Ibidem, pp. 72-73.14. Ibidem, pag. 59 sgg.15. Cfr. Abele De Blasio: Brigantaggio tramontato, Napoli, Lubrano, 1908, pag. 1.16. Cfr. Villari, op. cit., pag. 39.17. Cfr. Eric J. Hobsbawn. I banditi, Milano, Emaudi, 1971, pag. 52.18. Cfr. Gaetano Salvemini: La questione meridionalé in "Educazione politica", 25 dicembre 1898; 10 gennaio, 28 gennaio, 26 febbraio, 14 marzo 1899.19. Cfr. Caizzi, art. cit., pag. 608.20. Cfr. Battendo e ribattendo il chiodo. "L'Unità" del 13 aprile 1912. Cfr. Caizzi, art. cit., pp. 610-611. Alcuni giornali socialisti come "Il Lavoro di Genova,' si fecero sostenitori di larghi aiuti finanziari alle industrie siderurgiche e a Rolando Ricci uno dei maggiori esponenti del trust.21. Cfr. Antonio Gramsci: La questione meridionale. Roma, Editori Riuniti, 1973.22. La Cassa del Mezzogiorno, ha carattere settoriale.23. Cfr. Antonio Gramsci: Lettere dal carcere, Torino, Enaudi, 1955, e particolarmente la lettera 19 marzo 1927 ibidem, pp. 26-28. |