PONTELANDOLFO e CASALDUNI Agosto 1861 di Enrico Narciso |
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da: "S. Croce del Sannio nel Risorgimento 1799 - 1884" - Istituto Storico "G.M. Galanti", 1984 |
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I fatti di Pontelandolfo del 7 agosto 1861 |
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Quello che avvenne a Pontelandolfo il 7 agosto 1861 lo vedremo attraverso i documenti stessi. Noi vogliamo cercare, nei limiti che ce lo consentono i documenti a disposizione, di descrivere di che natura fu la rivolta di Pontelandolfo del sette agosto ed il ruolo che vi svolse l'Arciprete Di Gregorio. Alcuni documenti dell'epoca, come l'atto d'accusa, l'istruttoria formale attribuiscono all'arciprete la maggiore responsabilità della sommossa borbonica. Si vuole che D. Epifanio, spinto dal suo zelo filoborbonico, avesse fatto i piani della sommossa insieme al Capobrigante Cosimo Giordano che aveva il suo quartier generale sulle montagne del Matese. Ma le fonti non sono d'accordo. Quelle liberali accusano l'arciprete, lo coinvolgono in prima persona, quelle borboniche invece lo presentano come figura di secondo piano. Noi ci atterremo ai fatti documentati da diverse fonti ed in modo particolare dai testimoni oculari. Il documento più importante a tale proposito è il rapporto che D. Saverio Golino, che fu sindaco del paese dal 7 agosto, dopo la fuga di D. Lorenzo Melchiorre, del primo decurione Antonio Sforza e del Delegato di Polizia Vincenzo Coppola. D. Saverio Golino fu testimone oculare e si assunse tutta la responsabilità, si destreggiò bene in modo da risparmiare alla cittadina di Pontelandolfo ulteriori lutti e distruzioni. Interpellato dall'Intendente dell'Interno e di Polizia il 18 settembre 1861, il Sindaco Golino compilò il suo rapporto. Descrive i fatti sicuri di cui era stato testimone con linearità, si astiene dal raccogliere voci e dal raccontare episodi solo supposti o inventati dal sospetto o dall'odio politico di parte. Per quanto riguarda la responsabilità del clero il Golino è molto preciso: il clero, colto di sorpresa, fu costretto dai briganti a cantare il Te Deum in chiesa. Si attiene così ai fatti visti e constatati: "Il giorno 7 agosto la banda dei malandrini era già ingrossata di circa cinquanta individui pontelandolfesi, e dopo lunga discussione fra loro se dovevasi invadere o no Pontelandolfo fu deciso di doversi discendere per l'ostinata volontà di Saverio di Rubbo, Salvatore Rinaldi ...... Costoro dicevano al loro capo Cosimo Giordano di Cerreto: Andiamo, andiamo, perché abbiamo fatto fuggire i galantuomini; i contadini sono con noi in concerto; il basso popolo ci aspetta, dunque non possiamo temere di nulla. Così decisi piombarono nel paese ingrossati da tutti coloro che figurano nell'apposito notamento......, come pure da altri non conosciuti o dimenticati, fecero imporre al clero, che allor ritornava dalla cappella di S. Donato, di arrestarsi per essere dalla Croce e dai preti preceduti nella chiesa. Il clero obbligato, ubbidì...". La relazione del sindaco D. Saverio Golino certamente è la più degna di fede perché scritta da un testimone oculare degli eventi, mentre quella di Melchiorre è solo un atto di accusa che proviene da una persona che ormai viveva lontano. |
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L'eccidio dei soldati piemontesi dell'11 Agosto 1861 |
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E' nel clima di tensione che vanno posti i terribili e sanguinosi fatti dell'undici agosto 1861: la strage dei quarantacinque militari piemontesi a Casalduni al comando del tenente Bracci, partiti da Campobasso. Giustamente gli storici che si sono occupati di essi hanno scalzato ogni responsabilità dalla popolazione civile di Pontelandolfo. L'eccidio dei soldati piemontesi fu compiuto nello scontro fra soldati sbandati borbonici che tornavano dal fronte dopo la disfatta di Gaeta ed il gruppo dei soldati piemontesi. Già il Mazzacane scriveva a questo proposito: "Episodio di lotta partigiana deve ritenersi il massacro dei quarantacinque soldati italiani, avvenuta la sera dell'undici agosto 1861 in quel di Casalduni, come episodi di reazione furono i fatti in precedenza svoltisi a Pontelandolfo. Indubbiamente a quegli episodi dei briganti, ma era l'epoca nella quale il brigantaggio non aveva perduto il suo carattere politico, ed era costituito in massima parte da sbandati che eccitavano e favorivano tentativi di restaurazione borbonica". Ma è bene seguire la relazione del sindaco D. Saverio Golino, in quanto testimone oculare dei fatti: "Il giorno 11 arrivava a Pontelandolfo un distaccamento di soldati italiani al numerodi 45 capitanati da un uffiziale. Si insinuavano nel paese, con bandiera bianca in segno di pace e senza veruna resistenza. Uno di essi restò dietro per bisogno e fu ammazzato d'un colpo d'arma da fuoco nella contrada detta Colle o Borgotello. Stanchi del viaggio e dal digiuno si provvedevano dei viveri che furono subito somministrati per opera mia. Un tal Carlo Tommaso Bisconti al vedere quel soldati si portò in un subito nel vicino villaggio di Campolattaro per riunire le forze reazionarie ed accorrere armati in Pontelandolfo contro i soldati; questi ciò faceva, mentre altri pontelandolfesi che finora mi sono ignoti, percorrevano le nostre campagne per l'istesso reo fine e di fatti, in breve ora, si vide in prossimità del paese, gran numero di gente armata ed una voce d'allarme echeggiava per tutte le valli. Accortisi i soldati di un prossimo attacco, e fatti da me avvertire del comune pericolo, cercarono in mia compagnia e di mio figlio Paoloantonio, di occupare la torre dei Sign. Perugini, antico e forte castello adatto a qualunque difesa, ma non vi stettero che pochi minuti e pensarono miglior partito d'uscire allo scoperto e ritirarsi in S. Lupo. Così fecero. Si avviarono per una ripida e malagevole strada che conduceva nella consolare. Sulla Prainella gran numero di contadini uniti ad altro grosso numero di briganti di diversi paesi e specialmente di Casalduni, discesi dalla montagna inseguivano quei pochi prodi sostenendosi così d'ambo le parti accanito combattimento. Guadagnato dai soldati l'alto della collina S. Nicola in prossimità della consolare, incontrarono un agguato preparato contro di essi, da molti briganti, collettizi, di diversi paesi, sicché furono obbligati, divergere per Casalduni. E' questo un villaggio a circa due miglia discosto da Pontelandolfo abitato da gente inumana, rapace e d'indole retriva, e difatti appena quei naturali ebbero avviso del combattimento, corse da per tutto voce d'allarme, suonarono le campane a stormo ed il popolo tutto riunito come un sol uomo, attaccò di fronte quegli infelici eroi e li inutilizzò alla difesa. Assaliti da tutti i lati, costretti a deporre le armi, furono trascinati in Casalduni e rinchiusi nel Corpo di Guardia per decidere del loro destino...... Tennero allora i briganti fra di loro una discussione sulla sorte degli infelici; chi li voleva rispettati perché prigionieri, chi li voleva fucilati, è finalmente un certo Angelo, fratelli, figli, nipoti Pica casaldunesi, reazionari per eccellenza, influenti e forti delle loro agiatezze ed aderenze, vollero a forza che fossero morti, e così gli eroi dl Solferino e di Magenta, vennero barbaramente dai briganti nella piazza di Casalduni fucilati. E' questo il fatto dell'eccidio di quei Piemontesi, e quindi, ingiustamente di là a Pontelandolfo la taccia di averli massacrati. Fu Casalduni il luogo del supplizio e su di essa piombi tutta l'ira ed il rigore della giustizia! Dei 45 militari "atterrati a colpi di schioppo, di scure, di falce, di zappelle e di pietre, 5 soli erano caduti in combattimento e due si salvarono: un sergente ed un soldato che scampato a Campobasso, poté raccontare "che la truppa a Pontelandolfo s'avveniva in un agguato, che per due volte caricava alla baionetta, che l'ufficiale rimaneva ferito e doveva essere trasportato dai suoi a Casalduni, dove la popolazione suonava a stormo e li dilaniava con indicibile rabbia". |
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Il 14 Agosto: l'incendio di Pontelandolfo |
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"All'alba era in vista Pontelandolfo (al colonnello Negri ed ai suoi soldati partiti da Benevento la notte del 13). Le scorte dei reazionari dall'alto del monte detto dei Tuoni suscitarono l'allarme. Le campane suonarono a stormo e ci fu una breve resistenza. I soldati entrarono nell'abitato tirando contro chiunque incontrassero... Un solo brigante fu preso ed ucciso. Il paese venne dato alle fiamme e la prima casa che bruciò fu quella dell'arciprete Epifanio Di Gregorio in voce di reazionario. Dopo i soldati si abbandonarono al saccheggio e ad atti di lascivia. A Casalduni ugual ruina che a Pontelandolfo, ma meno sangue, perché quasi deserto il luogo e più pochi gli assassini. Il 15 agosto da Fragneto Monforte, il colonnello Negri comunicava al Governatore di Benevento: "Ieri mattina all'alba, giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora. Il sergente del 36mo Reggimento, il solo dei quaranta è con noi. Tralascio di dire che altro successe nel paese, perché la S.V. ben conosce che Pontelandolfo fu divorata dalle fiamme, tranne poche case. E' questa la storia precisa dei fatti veri, raccolti come sono accaduti, sulla quale mosso da quell'amore di patriottismo di cui sono andato sempre infiammato, mi arbitro di esporre alla di lei giustizia le seguenti osservazioni". Secondo la testimonianza del Perugini furono incendiate "tutte le case di Pontelandolfo eccetto quattro". Tale notizia viene confermata dal deputato on. Ferrari che si recò a Pontelandolfo dopo qualche giorno e fu ospitato in una delle tre case risparmiate: "Ricevetti ospitalità in una delle tre case risparmiate per ordine superiore". Quando le truppe italiane il 14 agosto rioccuparono Pontelandolfo e la incendiarono, nonostante che la prima casa a bruciare fosse la sua, D. Epifanio riuscì a salvarsi rifuggiandosi a S. Croce del Sannio, suo paese natio. Da una lettera riservata dell'Intendente di Cerreto Galletti sappiamo che il 27 settembre 1861 l'Arciprete era ancora latitante: "La giustizia è sulle di lui tracce, benché infruttuosamente, per ora". Forse, come altri accusati, si presentò spontaneamente ai carabinieri. Fu condotto nel carcere di Benevento ove stette dalla fine del 1861 al 31 dicembre 1864. Il sette gennaio 1864 D. Epifanio ringraziava dal carcere i fedeli di Pontelandolfo che gli avevano mandato elemosine per la celebrazione di messe: "Fo fede io qui sotto Arciprete curato di Pontelandolfo di aver celebrato tante messe piane in suffragio dell'anime Sante del Purgatorio sull'elemosina largita pubblicamente dai fedeli per gli anni 1862-1863 al clero dell'anzidetto luogo - In fede, Epifanio Di Gregorio. Benevento - 7 gennaio, 1864. Dai processi celebrati nel 1864 - la sentenza fu emessa il 31 dicembre 1864 - l'Arciprete Di Gregorio uscì assolto. Lo apprendiamo da una pagina di Giustino Fortunato dedicata al fatti di Pontelandolfo: "Quale il vero carattere delle reazioni di Pontelandolfo e Casalduni? si domanda l'illustre meridionalista. Quello generalmente comune a tutte le reazioni del tempo: a) il contadiname, devoto al re e inimico del ceto borghese liberalesco, pervaso dall'atavico spirito sanfedistico, meno per la vendetta che per il saccheggio, b) borghesi divisi tra "liberali" e "borbonici" non per altro se non per competizioni di famiglie agognanti alla egemonia locale, pieni l'animo di odi, di gelosie, di invidie più feline che umane, - ma di fronte al contadiname, così gli uni come gli altri "cani allo sguardo e cervi al core" secondo il detto di Omero. In Pontelandolfo, su cui piombò, già il capobanda Cosimo Giordano, borbonici erano i fratelli Gasdia e l'arciprete De Gregorio, liberali i Perugini e, con essi, il Jadonisio, il Melchiorre, lo Sforza. Mancò ogni resistenza, scappati presso che tutti, il paese andò a scacco: uno dei Perugini vi restò ucciso. Insieme con i fuggiaschi corse la voce dei tre fratelli Gasdia Vincenzo - Francesco e Filomeno - quali autori della reazione. Certo non essi poterono domarla, quando sopravvenuti i 46 soldati del 36 di linea, questi non poterono restarvi e con morti e feriti, scemati della metà, caddero in aperta campagna nelle mani degli insorti, che li menarono prigioni a Casalduni; e anch'essi per ciò presi dal panico della non dubbia vendetta partigiana, già saputi indiziati: non dubitarono fuggire, nascondendosi in Napoli, dove Vincenzo colto da febbre delirante, poco dopo vi lasciava la vita (3 ottobre 1861 all'albergo del Cappello Rosso). Il pubblico giudizio mandò assolti i rimanenti due e con essi l'arciprete Epifanio Di Gregorio". Dalla lettera inviata al Sindaco di Pontelandolfo dalla Prefettura di Benevento apprendiamo che l'Arciprete fu dimesso dal carcere di Benevento il 4 gennaio 1865. Ma D. Epifanio per motivi di ordine pubblico chiede di non tornare subito a Pontelandolfo ma di volersi recare prima a Napoli eppoi al suo paese ove restare per qualche anno. Solo saltuariamente si sarebbe recato a Pontelandolfo per prendere il suo beneficio. Egli fu assente dalla parrocchia di Pontelandolfo dal 1861 a tutto il 1867. Riprese le sue funzioni di arciprete nel 1868. Durante la sua lunga assenza funse da economo curato D. Rocco Caterini. Nel settembre del 1870 D. Epifanio si trovava per una breve vacanza al suo paese natio quando improvvisamente lo colse la morte il giorno 20 settembre. Enrico Isernia sulla Gazzetta di Benevento così annunziava la morte dell'Arciprete: "In S. Croce di Morcone trapassò di vivere pochi giorni or sono il Sacerdote Epifanio de Gregorio uomo reputato assai dotto nelle lettere, e nelle scienze ecclesiastiche". |
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La testimonianza di alcuni storici contemporanei |
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Daniele Perugini, nella lunga nota aggiunta al suo volume La monografia di Pontelandolfo, scritto nel 1856 e pubblicato solo nel 1878, confessa apertamente i motivi per i quali non ha creduto opportuno parlare a lungo dei fatti del 7 agosto avvenuti a Pontelandolfo: 1) Perché non fummo testimoni oculari perché allora ci trovavamo nel Carcere di Cerreto, come cennammo di sopra ed avremmo dovuto scrivere quei fatti che ci venivano narrati da altri; 2) Perché coloro che furono presenti nel riferirci le circostanze più interessanti non sono tra loro in accordo. 3) Perché non possiamo usare quella libertà che si richiede nel vero storico e perciò lasciamo ad altri questo difficile incarico, limitandoci a cennare solamente quei fatti principali che in Benevento apprendemmo dai processi relativi e ciò per semplice futura memoria. Nel giorno 7 agosto 1861 celebravasi in Pontelandolfo la festa e la fiera del Protettore S. Donato in una vicina cappella rurale. Dal prossimo monte e bosco di faggi calò una mano di briganti, obbligò i canonici a cantare il Te Deum per Francesco II e nell'abitato scorrazzando pacifici cittadini si ritirarono dopo su monti stessi". Daniele Perugini rimanda il lettore alla Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861 come fonte fedele di informazione sui fatti avvenuti a Pontelandolfo. Lo storico borbonico Giacinto de Sivo scrive infatti che l'iniziativa di cantare il Te Deum in chiesa dopo l'invasione partì dai briganti e non dall'arciprete Di Gregorio. Il sette agosto amministrava Pontelandolfo D. Saverio Golino. Il vecchio sindaco D. Lorenzo Melchiorre era fuggito il 5 agosto insieme al decurione Antonio Sforza. Da Pontelandolfo si era allontanato come abbiamo già visto, anche il Delegato di P.S. Vincenzo Coppola. La cittadina restò "senza forza né morale né fisica". Per tale comportamento Il sindaco Melchiorre e le altre autorità civili furono deposti dal Governo italiano. Riportiamo a tale proposito la corrispondenza intercorsa fra il governatore di Benevento Gallarini, che chiedeva notizie sui fatti di Pontelandolfo e l'Intendente di Cerreto il quale il giorno 24 agosto non aveva avuto ancora alcuna notizia ufficiale proprio per la fuga delle autorità. Benevento, 24 agosto, 1861, Signore, Occorrono a questo governo speciali informazioni e ragguagli sul fatto che accadeva a Pontelandolfo nel dì 13 andante quando i rivoltosi assalivano il convoglio..... del procaccia che stava custodito nella Bettola di Salvatore Pruccina e lo derubavano di tutte le partite provenienti da Larino. Nel darmi ragguagli di tal fatto, mi dica pure quali provvedimenti si siano dati fino ad ora. Il Governatore Gallarini. La risposta: Governatore, E' la prima volta che io sento d'essere avvenuto in Pontelandolfo l'aggressione commessa dai rivoltosi nella bettola di Salvatore Pruccina al procaccia col furto di tutte le partite provenienti da Larino. Innanzi che mi fosse giunto il ragguardevole suo foglio del 24 agosto io non ebbi affatto notizie sia per rapporti officiali i quali al certo non potevano pervenirmi quando tutti i funzionari locali si erano allontanati da quella residenza per gli avvenimenti che ebbero luogo e quando posteriormente il Governo prese la determinazione di rimuoverli dai rispettivi uffizi. La onde io non so quale positivamente sia lo stato attuale di quel comune dopo l'operazione eseguita dal Comando Militare dopo di che lo stesso non si vide nel dovere di farmene il benché minimo accenno avendo agito indipendentemente da ogni altro potere ed in facoltà straordinaria, né io pensai come potessi ad altri rivolgere i miei uffizi mancando il sindaco, il delegato e il Giudice. Alla occasione prego la S.V. a favorirmi le opportune informazioni ond'io possa regolarmi".Lo storico liberale Nicola Nisco di San Giorgio del Sannio accusa il clero di essere stato l'artefice di tutta la rivolta, tesi che viene ripetuta da tutta la stampa liberale: "Questi (i briganti) nel 7 agosto giorno della festa di S. Donato, invitati da cinque canonici e dall'arciprete Di Gregorio, il famoso autore del libro La luce nelle tenebre, invasero Pontelandolfo, comune nelle alture appenniniche, sulla strada dell'avvallamento del Calore, capitanati da un Cosimo Giordano chiamarono al saccheggio i villani... La turba incitata dal focoso arciprete e sostenuta dai briganti saccheggiavano l'uffizio municipale...". Anche il Monnier riporta la stessa interpretazione: "Il 7 agosto i briganti chiamati da cinque canonici e da un arciprete, invasero Pontelandolfo, comune sulla destra di Cerreto nelle montagne". Ecco la descrizione dei fatti lasciataci da Enrico Isernia, lo storico della Città di Benevento, cattolico liberale: "Altri lagrimevoli fatti seguirono in Pontelàndolfo e Casalduni, terre a tre miglia l'una dall'altra, quella forse ha cinquemila abitanti, questa tremila, ambe a mezzodì del Matese, sulla sannitica strada. I monti da un pezzo formicavano di reazionari, i popolani aveano in odio i piemontesi. Molti cittadini s'aprivano dalle case e si sussurrava ovunque della probabilità di una reazione. Arrivava il 1 agosto il De Marco con una banda di volontari, udendo che i briganti ingrossavano sul Matese, prese altra via, e fu seguito dai liberali, dal Sindaco, dal Delegato di Polizia, dai capitani, e dai tenenti. Il Delegato, sostatosi a Casalduni, cercò trattenere cinquanta guardie mobili che da Benevento recavansi a Cerreto, ma esse non gli diedero ascolto; per cui il Delegato coi pochi liberali che erano ivi si rifugiava in Benevento. Sul vespro del 7 agosto il capobanda Cosimo Giordano con pochi uomini entra in Pontelandolfo gridando: Viva Francesco II, e gli fa eco l'intera popolazione, la quale fece cantare il Te Deum al clero ch'era in processione alla cappella di S. Donato. I popolani suonarono le campane a stormo, abbattendo le croci sabaude, stracciando le bandiere, alzarono l'insegna del Borbone, arsero Archivi del giudicato, aprirono le carceri del comune, e si bruttarono di tre omicidi. L'esempio di Pontelandolfo fu seguito anche da Casalduni: si gridò Francesco e Sofia, e i rivoltosi ridussero a pezzi le immagini di Vittorio e Garibaldi, e gli stemmi sardi, sostituendo ad essi quelli borboni. Si tentò, egli è vero, di mantenere la quiete pubblica, affidandone il carico ai soldati del disciolto esercito, ai quali si fece capo con retti intendimenti un tal Filippo Corbo, ma i reazionari levarono ad essi le poche armi raccolte, e corsero incontro a una nuova turba che traeva dai luoghi vicini con rami d'ulivo gridando: Viva Francesco. E anche In Fragneto Monforte e Campolattaro, paeselli finitimi, si reagiva. Qui fu depredata una casa di liberali; e là nel di 8 agosto entrarono venti soldati sbandati, che insieme al popolo ruppero stemmi e bandiere e derubarono alcuni agiati liberali, e il giorno 10 cantarono il Te Deum. Cosimo Giordano il giorno 9, svaligiata la posta, ne prese i cavalli, e rientrato in Pontelandolfo pose le mani addosso a un tal Libero d'Occhio, corriere segreto del De Marco, e ne ordinò la fucilazione, e i suoi seguaci si fornirono d'armi, munizioni, vesti e danari, chiedendole ai possidenti del dintorni. Se in quel tempo le bande del Matese fossero scese dai monti avrebbero forse devastata gran parte della provincia, ma esse sparpagliate in molti gruppi non eseguirono fatti di qualche momento; e solo il giorno 10 si accostarono a S. Lupo, ma trovarono le barricate, per cui dopo alcuni minuti di fuoco risalirono i monti. Poscia il giorno 11 giunsero da Campobasso a Pontelandolfo 40 uomini del 36mo di linea, con un tenente nominato Bracci e 4 carabinieri. Uno di quei soldati fu tosto ucciso dai popolani a legnate di che altri atterriti, avendo ricevute delle munizioni dal Vicesindaco, si chiusero nella torre baronale posta in alto, donde potevano far difesa, ma essendosi dato l'assalto, il tenente, vedendo la rocca munita, e che le palle entravano dentro, tenne cosa più sicura d'uscirne per combattere all'aperto. I soldati investiti dal popolo, piegano verso S. Lupo, ma trovano chiusa la via dai Napoletani sbandati con a capo un certo Angelo Pica. Messi così tra due fuochi, prima ne cadde uno, ucciso da una donna con un sasso sulla fronte, poi altri cinque per colpi di moschetto, gli altri divampando d'ira trucidarono lo stesso tenente che li aveva cavati dalla terra, eppoi divennero agevole preda dei reazionari che li trassero inermi a Casalduni, meno un sergente che rimase celato dietro una fratta. La plebe fanatica gridava morte agli scomunicati, e il Pica dopo un breve e segreto colloquio col Sindaco di Casalduni Luigi Ursini, avvedendosi che la terra di Casalduni era disadatta alla difesa, volgeva verso Pontelandolfo, ma poi mutato consiglio retrocesse al largo Spinelle ove crudelmente ordinò la fucilazione dei trentasette soldati prigionieri, e, come vide eseguita l'opera nefanda, prese pei campi la via di Pontelandolfo. La plebe stupida ed iniqua finì a colpi di mazze quei prodi ed infelici soldati, ma il sergente ascoso nelle fratte, fu scoperto dai contadini di Ponte, e menato all'imbrunire a Pontelandolfo, ove fece sacramento di non più combattere contro Francesco II, e in, tal modo ebbe salva la vita, benché poi non tenesse il giuramento. Indi le bande del Pica, lo deposero, e poi, dopo aver garrito un pezzo. si azzuffarono per la scelta di un altro capo, finché molti convennero di affidare il comando a Cosimo Giordano, ma i più si ritrassero scontenti sul Matese. Sull'alba del giorno 14 pervenne a Pontelandolfo il colonnello Negri con un drappello di cinquecento soldati guidati dal De Marco. La banda di Giordano ridotta a soli cinquanta uomini, appiattata in un boschetto, fa fuoco uccidendo alcuni soldati sardi, ma poi, scorto il numero grande, prese la fuga. Il Negri entrò in Pontelandolfo, e i suoi soldati confondendo, come sovente accade in simili casi, l'innocente col reo, commisero vendette e depredazioni. Il Negri dopo di aver arsi i cadaveri dei suoi soldati uccisi avanti la cappella di S. Rocco, fece ritorno per Fragneto in Benevento. E quasi al tempo stesso quattrocento piemontesi guidati dal Cav. Jacobelli, partendosi da S. Lupo; entrarono da più parti in Casalduni, esplodendo in aria i fucili per incutere spavento nella popolazione. La maggior parte degli abitanti di Casalduni d'ogni condizione, età e sesso, antivedendo la vendetta dei soldati piemontesi, sin dal giorno precedente erano fuggiti, per cui non accaddero in quel comune gli stessi fatti di Pontelandolfo, ma tuttavia furono saccheggiate ed arse varie case, e in prima quella del Sindaco Luigi Ursini, il quale prese la fuga, traendosi dietro la sua numerosa famiglia. Il Sindaco Ursini Luigi, accusato di aver consigliato il suo dipendente Angelo Pica a fucilare i trentasette soldati piemontesi, fu dopo vari anni assolto con sentenza contumaciale emessa in Camera di Consiglio dalla Corte di Assise di Benevento". Cosimo Giordano, nell'interrogatorio subito in carcere a Benevento, il 25 aprile 1883, così ricostruì gli eventi del sette agosto: "Prima d'ogni cosa prego la vostra Giustizia d'inserire nel presente mio interrogatorio, che io protesto e ricorro per cassazione contro la Sentenza d'accusa notificatami con atto dei 20 aprile volgente, come pure mi oppongo alla Sentenza di condanna pronunciata dalla Corte D'Assise di Benevento nell'anno 1876 in mia contumacia". A domanda risponde: "E' vero che nei mesi di luglio e agosto 1861 io ho formato parte di una banda armata in Pontelandolfo, scorazzando quelle contrade". A domanda, risponde: "E' falso, poi, che lo avessi avuto parte nell'omicidio in persona di Libero D'Occhio". Ad altra domanda risponde: "Nel mese di agosto suddetto, siccome vi erano varie bande sparse sulle montagne vicine, varie di queste vollero sottostare al mio comando, ed io le ammisi sotto l'espressa condizione di dover sottostare alla disciplina militare, e non si dovevano commettere furti né assassini, ma semplicemente difendersi ne' casi in cui fossero stati attaccati". "Un giorno, mentre volevo discendere con la mia banda a S. Lupo, ebbi un attacco con la Truppa e dopo averla costretta d'indietreggiare, discesi in S. Lupo, ove sostenni un altro combattimento con altra truppa e di là mossi per Pontelandolfo con la mia banda di circa 150 individui, ed osservai con meraviglia che il paese andava in fiamme. Entrato ivi, fui accolto da quei Cittadini chiamandomi comandante e seppi allora che essendo venuto un dissenso tra i Liberali ed i Borbonici, questi ultimi avevano posto a fuoco le case dei Liberali, pria che io entrassi. Questo fatto può essere accertato non solo da' cittadini, ma anche dall'Arciprete, che mi venne incontro, e che io invitai a cantare il Te Deum in Chiesa. In quanto al detto omicidio di Libero d'Occhio, aggiungo alla risposta di sopra, che ora è la prima volta che ne ho inteso parlare, perché nel tempo che io stetti a far da capobanda in quelle contrade, non ne intesi parlare..." Ad altra domanda risponde: In quanto poi ai reati commessi in Pontelandolfo dai Borboni, distruggendo gli archivi pubblici, derubando il Procaccia ed il deposito delle privative, in questi reati io non vi presi parte, perché commessi prima che io fossi giunto. Voglio aggiungere che fui premurato altresì dai Cittadini di Pietraroia, ed io mi ricusai per evitare che con tal pretesto si fossero commessi degli eccessi che si commisero in Pontelandolfo. Voglio anche fare questa dichiarazione, che io mi ero dato in campagna non per commettere reati contro le persone e le proprietà, ma a solo oggetto di sostenere la Dinastia; sotto la quale avevo prestato giuramento; ed infatti discesi in Puglianello e non feci che impadronirmi di tutte le armi. senza altro commettere". |
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Il manoscritto di Antonio Pistacchio |
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L'accusatore più implacabile dell'Arciprete Di Gregorio e del clero, come responsabili dei fatti di Pontelandolfo del 7 agosto, è l'agrimensore D. Antonio Pistacchio, fratello di Giuseppe, sindaco di Pontelandolfo nel 1839, quando D. Epifanio prese possesso della Parrocchia. D. Antonio Pistacchio era nato a Pontelandolfo nel 1817, da Domenicantonio Pistacchio e Margherita Izzo. Il documento manoscritto porta come titolo Storia dei fatti di Pontelandolfo, per D. Antonio Pistacchio. Come secondo titolo il manoscritto a nostra disposizione reca: Gaetano Perugini Storia di Pontelandofo scritta da Antonio Pistacchio, Perito agronomo nativo di Pontelandolfo - 1896 data da don Rocco Caterini. Dallo stesso secondo titolo apprendiamo che D. Antonio Pistacchio morì il 1 giugno 1902, suicidandosi. Tale manoscritto fu già studiato da Vincenzo Mazzacane che ne pubblicò i brani più attendibili per la verità storica sulla Rivista storica del Sannio del 1923 col titolo: I fatti di Pontelandolfo (dal manoscritto di un contemporaneo). Il manoscritto fu dato al Mazzacane dal Dr. Gaetano Perugini. Il manoscritto è composto di due parti. Nella prima, che comprende i primi 24 fogli, i fatti vengono narrati con certo ordine cronologico dal primo agosto al 14 agosto. La prima parte non è altro che una riesposizione del rapporto di D. Saverio Golino, con l'aggiunta di particolari marginali. Infatti se si confrontano i due documenti si ricavano coincidenze letterali. I primi fogli del manoscritto non sono che una trascrizione letterale del Golino. La seconda parte incomincia là dove il Pistacchio riprende la narrazione dei fatti dal 3 agosto e vi aggiunge episodi difficilmente controllabili dallo storico con altre fonti. Si tratta di fatti presentati o raccolti dalla voce della gente. Questa seconda parte è più un diario personale che una narrazione storica. Il Mazzacane giustamente la definì "la storia della paura del Pistacchio". Il Mazzacane sintetizzò la prima parte, che non è altro che la relazione di D. Saverio Golino, trascurò del tutto la seconda. La descrizione dei fatti del 7 agosto che abbiamo nella seconda parte è in netta contraddizione con quella fatta nella prima parte. Nella prima parte dove il Pistacchio dipende dalla Relazione del Golino, ci presenta il clero costretto ad ubbidire al comando dei briganti e quindi a cantare il Te Deum in Chiesa; nella seconda parte, invece, il Pistacchio stesso parla di accordi precedentemente presi e di un clero accondiscendente agli ordini dei briganti. Non possiamo non confermare quanto scriveva Vincenzo Mazzacane: "Un manoscritto spropositato e disordinato. Dopo poche pagine nelle quali espone gli avvenimenti locali dal primo al quindici agosto 1861, l'autore torna indietro e a mo' di diario, senza alcun ordine di esposizione, narra le sue vicende in rapporto ai fatti di quei giorni, la sua fuga, le angustie per mettere al sicuro oggetti e denaro, l'inutile tentativo di salvare il paese. Domina il racconto una continua impressione di terrore che fuorvia lo scrittore e lo trattiene su piccoli personali incidenti che rompono il filo della narrazione e fanno sbadigliare chi legge: chiari di luna, fughe attraverso i campi desolati, latrati di cani, ore di angoscia trascorse in remoti casolari, viaggi eterni su biroccini sgangherati... Con molta arguzia una intelligente signora, la sorella del proprietario del manoscritto, soleva ripetermi che questa più che la storia dei fatti di Pontelandolfo fosse la storia della paura di D. Antonio Pistacchio". Inoltre il Mazzacane rileva nel manoscritto farraginoso inesattezze ed anche contraddizioni. Nessuno ci può autorizzare ad attaccare l'Arciprete che tante sofferenze affrontò nel passare da un regime ad un altro, di malafede, di arrivismo, di crudeltà. Egli aveva una fede politica e la difese. Perciò non possiamo accettare i giudizi che del Di Gregorio ci ha lasciati Antonio Pistacchio nel suo manoscritto. Solo l'odio politico, il clima di tensione che si era creato fra le diverse parti in lotta poteva spingere il Pistacchio ad annotare che Epifanio Di Gregorio era oltre che reazionario, "ambizioso mangione e scialacquatore". Altre fonti non sospette e per l'equilibrio degli autori e perché distanti dal tempo in cui si verificarono i fatti di Pontelandolfo, ci parlano dell'Arciprete come persona pia, dotta ed impegnata nell'apostolato. Ecco cosa scriveva dell'Arciprete Di Gregorio Daniele Perugini nel 1856, quando stendeva la sua monografia di Pontelandolfo: "Il Rev. Arciprete dell'Insigne Collegiale Chiesa D. Epifanio Di Gregorio, versatissirno nelle scienze e nell'Oratoria Sacra, ha scritto le seguenti opere: 1) L'astro nella tenebria ovvero l'immortale Ferdinando I! re del Regno delle due Sicilie, Napoli, 1852. 2) L'immacolata Concezione ed il secolo decimonono, Napoli 1857, 2 volumi in ottavo. Sarebbe ben superfluo di aggiungere altre lodi ben meritate a quelle che il Giornale Officiale del 20 luglio, 1853 attribuisce all'opera primiera ed al progetto analitico che un altro giornale La Rondinella del 10 gennaio 1856 con i dovuti encomi gli fa alla seconda, e siamo pure certi che se le cure di una popolazione si grande non lo preoccupassero, altri parti ci darebbe il suo ingegno". Equilibrato anche il giudizio che Nicolina Vallillo ci ha lasciato sull'arciprete nel lontano 1919, dopo aver interpellato testimoni oculari dell'agosto 1861: "Nel 1861 (ecco ciò che riuscii a raccogliere da persone di Pontelandolfo e a chiarire coi libri) regnava nel paese un malcontento per il cambiamento di governo, malcontento dovuto non solo all'opera turbolenta di pochi ma anche al fanatismo dell'Arciprete di Pontelandolfo Epifanio di Gregorio, uomo assai rispettevole al di fuori della politica, il quale esaltava l'ignara fantasia colla religione, facendo rilevare come il nuovo governo tendesse a scacciare dagli animi il sentimento religioso. Certo è che i poveri contadini pendevano dalle labbra dell'arciprete ed agivano come egli voleva". |
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