Gaetano Grasso

Ariano dall'Unità d'Italia alla Liberazione

da: http://www.edizionilaginestra.it

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I processi

I processi per i fatti di cui ci siamo occupati furono tre: il primo e il secondo si svolsero davanti alla Gran Corte Criminale, il terzo si svolse davanti alla Corte di Assise per essere stato, intanto, sostituito il vecchio ordinamento giudiziario borbonico. L’istruttoria riguardò 269 persone. Secondo il Cannaviello, che, quasi certamente, è stato l’unico a poter esaminare gli atti, "l’istruttoria fu laboriosissima. Erano gravi difficoltà alla ricerca del vero: l’assenza di persone disinteressate dal luogo del conflitto - l’essere detto luogo in campagna aperta - l’interesse di mentire degli Arianesi, sia per municipalismo sia per rapporti di amicizia e parentela cogli imputati ovvero per simpatia alla criminosa azione di costoro ritenuta generalmente mezzo a salvare tutto il paese da sterminati danni - l’influenza dei galantuomini interessati direttamente o indirettamente" (51). Di questa istruttoria ci restano, perché riportate dal Cannaviello, solo le testimonianze di Carbonelli e di Caputo, una sintesi della testimonianza di Oronzo De Leo, una lettera anonima e la notizia che il De Concili, chiamato a testimoniare l’8 ottobre 1860, dichiarò che aveva fatto un rapporto molto particolareggiato al Dittatore Garibaldi, che non era in grado di ripetere con la precisione indispensabile alla Giustizia quanto aveva scritto e perciò pregava "si dirigesse ai Superiori ed anche ai Ministeri per avere una copia di detto rapporto". Il rapporto non è stato trovato, ma non è difficile intuire quello che il De Concili scrisse al Dittatore. Si continuerà a cercarlo sperando che non sia capitato tra quelli fatti sparire da qualcuno "elevato a posti d’influenza", secondo la testimonianza del De Leo. Delle tre sentenze resta solo la parte generale della prima riguardante la narrazione del "Fatto" e i dispositivi della seconda e della terza. Il primo processo interessò 34 imputati, tutti quelli catturati subito dopo l’arrivo dei garibaldini: il noto Peppe Santosuosso, cappellano della chiesa della Manna, 14 braccianti, 15 contadini, 2 massari di campo e due artigiani; tranne il sacerdote, tutti analfabeti. Iniziò il 10 settembre 1861 e si conscluse il 21 dicembre con tre condanne ai lavori forzati a vita, una a 22 anni, otto a venti anni, tre a 15 anni, una a 12 anni e diciassette assoluzioni (un imputato era morto durante il processo). Il secondo processo riguardò i "galantuomini di Ariano D.Girolamo Anzani, D. Raffaele Bilotta, D. Francesco Ciani, D. Raffaele De Paola, D. Leopoldo Parzanese, arrestati, e degli assenti D. Francesco Gelormini, D. Raffaele Rendesi, D. Michelangelo Carluccio, D. Ottavio Carluccio, D. Emilio Figlioli, D. Erminio Rosica (giudice), D. Luigi De Gennaro (Sottintendente), D. Luigi Anzani e D. Raimondo Albanese (funzionante sindaco)". Si concluse il 31 gennaio 1862. La Corte ritenne: che la reazione non fosse stata premeditata ma fosse stata determinata dalla paura di vedere la città offesa dai probabili saccheggi dei forestieri o delle soldatesche borboniche per via della costituzione del governo provvisorio; e che le testimonianze a carico dei galantuomini erano state dettate da animosità di parte. Poi aggiunse: "Poichè la stessa pubblica discussione invece di migliorarne le pruove di reità di ciascuno di essi imputati ha polverizzato ogni elemento (a questo punto, di altro carattere, tra riga e riga vi è interpolato: Invece si ha ch’essi si cooperarono a tranquillizzare gli animi ed a promuovere i principii liberali fra i naturali di Ariano). Uniformemente alle conclusioni orali del Pubblico Ministero ad unanimità dichiara non esservi luogo a procedimento penale contro i suddetti ed ordina escarcerarsi i detti detenuti, radiandosi la rubrica". Il terzo processo, svoltosi in Corte di Assise interessò ventisette imputati catturati successivamente: 24 braccianti, un bettoliere, un giardiniere e un fornitore delle carceri di Ariano (unico non analfabeta). Si concluse, il 26 ottobre 1864, dopo sedici giorni di dibattimento, con cinque condanne a 20 anni, due condanne a 10 anni, sette condanne a 5 anni, una condanna a 1 anno e con nove assoluzioni. La Corte narra i fatti in modo molto aderente alla realtà; è più che precisa nell’elencazione degli abusi commessi nei giorni successivi a quello della strage; attesta la partecipazione delle guardie nazionali; stabilisce che i cadaveri furono interrati dagli stessi rivoltosi; recepisce come attendibili le testimonianze di chi attribuisce le responsabilità ai "signorini che ci hanno chiamato" o "ai galantuomini che hanno soffiato nell’animo dei contadini". Infine accerta la responsabilità personale dei singoli imputati. Le sentenze che riguardano i braccianti e i contadini sono probabilmente "tecnicamente" giuste. Diventano discutibili se poste in relazione a quella che riguarda i notabili, la cui responsabilità risulta non solo dalle testimonianze, ma dalla stessa descrizione che si rende su ciò che successe nei giorni della reazione. Secondo la sentenza fu messo in piedi un vero e proprio contropotere: "assunsero la custodia delle prigioni e credettero mantenere l’ordine pubblico, nominarono il Sindaco, il Capurbano ed il primo eletto..." Francamente è difficile sostenere che tutto era stato opera di analfabeti! Sempre la Corte sottolinea come in quella "triste emergenza alcun galantuomo" fu offeso "né la Guardia Nazionale paesana ebbe a patire alcun danno". Ma che ci si avviasse ad una soluzione "politica" del processo lo dimostra la impostazione stessa della procedura: i "bracciali" e i contadini ben separati dai "galantuomini" anche se processati per gli stessi fatti criminosi dei quali gli uni erano "accusati" di essere autori e gli altri erano "accusati" di essere i mandanti. La pressione politica sulla Corte, del resto, è ammessa dallo stesso Procuratore Generale del Re Paolo Magaldi, che sostenne l’accusa nel primo processo. Questi scrisse a A. Miele: "Credo che sappiate i miei urti con questo prefetto (De Luca), per tante illegalità ed abusi commessi. Voleva manomettere il potere giudiziario, ma ha trovato terra dura. Si credeva di essere ai tempi di Mirabelli" (52). Tutto sommato quella terra non fu troppo dura se da pubblico ministero chiese anch’egli l’assoluzione dei notabili! L’unico a costituirsi parte civile nei processi fu Camillo Miele difeso dall’avvocato Rocco Mercuri. Si chiuse così la vicenda della reazione antiliberale anche sul terreno giudiziario. La verità su quei fatti era tutta riassunta nella lettera anonima che un frate (rimasto anonimo) recapitò al Giudice istruttore : "Signor Giudice - Procedere all’istruzione del processo sugli avvenimenti del 4 settembre coll’essere in carica D. Raimondo Albanese come Sindaco e Sottogovernatore, quand’è un secondo Eletto, è inutile... dappoichè costui col suo germano D. Gaetano capitano della Guardia Nazionale furono i primi a destare il malumore contro gl’istallatori del Governo Provvisorio nel d.° giorno 4, fingendo liberalismo, che si unirono ai signori Anzani la sera del d.° memorando 4 settembre in casa di quel sottogovernatore De Gennaro, combinando la completa reazione coll’aizzare i villici nei dì seguenti.- Ritenga pure che stando Albanese in carica verun testimone od altro ardirà nominarli -...." C’era tutta la verità in quella lettera anonima. Ma non aveva detto il garibaldino Turr che bisognava respingere le lettere anonime perché se erano un pregio per il Governo de’ Borboni costituivano una viltà per quello di Vittorio Emmanuele e di Garibaldi? La Gran Corte Criminale si era subito adeguata! I filoborbonici più attenti ed intelligenti accettarono la nuova situazione. Un altro gruppo continuò una patetica attività, fatta più di parole che di azioni, intesa a discreditare il nuovo governo. La sera del 7 gennaio 1861 si sentirono delle sparatorie in località Cappuccini e grida inneggianti a Francesco II. Si attribuì l’episodio ai latitanti, ricercati per i fatti del settembre, che si erano organizzati per impedire il trasferimento degli arrestati nelle carceri di Avellino. Nel dicembre successivo furono arrestati l’ex sindaco Ottavio Carluccio, Pasquale Grifone impiegato della Sottointendenza, Raffaele Ciardullo negoziante, il canonico Michelangelo Carluccio, il parroco Raimondo Ciardulli, il sacerdote Giovannantonio Panza, il padre Luigi Ciardulli, il padre Michele Pironti, il padre Mariano da S.Marco in Lamis e Beniamino Carluccio nipote di Ottavio. Furono accusati di cospirazione diretta a cambiare o distruggere la forma del governo e di discorsi pubblici diretti a provocare il crimine e ad eccitare "lo sprezzo" ed il malcontento contro il governo. Fu ribadito dal giudice istruttore che i fatti del 4 agosto erano stati il risultato delle loro "occulte mene"; così come erano state opera loro le "sfide che una banda armata faceva alla forza pubblica in senso reazionario il 7 gennaio 1861", la divulgazione "di false ed esagerate notizie sulla precarietà dell’attuale Governo", il tentativo di provocare disordine nel corso della leva militare e la sparizione delle liste degli "individui" da sorteggiarsi per essere impiegati nella lotta al brigantaggio. Se questa attività non aveva avuto il successo sperato, sosteneva il giudice, "teneva almeno concitati e in perplessità continua gli animi, turbata e minacciata la tranquillità pubblica". Questa loro attività non rimaneva "al tutto inosservata nel pubblico, il quale ebbesi la piena persuasiva della maligna opera loro, quando colla saggia ed opportuna misura dell’arresto vide tornare nella più perfetta calma il paese, procedere regolarmente le operazioni di leva, presentarsi i requisiti e marciare lieti e festanti al servizio della ridente Italia". La Gran Corte Criminale dichiarò anche questa volta il non luogo a procedere.

NOTE

(51) V.Cannaviello, op. cit., p.21.

(52) Si riferisce a Mirabelli Centurione, odioso prefetto borbonico tenace persecutore dei liberali irpini. La lettera é in Amato Miele " Una caratteristica figura irpina del Risorgimento: Camillo Miele" tip.del Sannio, Benevento, 1938, p.10.

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