Gaetano Grasso |
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Ariano dall'Unità d'Italia alla Liberazione |
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da: http://www.edizionilaginestra.it |
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La reazione del 4 e 5 settembre 1860 La sommossa reazionaria Nella notte dal 3 al 4 settembre ad Ariano ci fu movimento. Non ci si limitò alla defissione del manifesto di Brienza. E’ verosimile immaginare come si siano moltiplicate le visite e le raccomandazioni ai contadini da parte dei preti e dei capi-contrada perché stessero pronti ad affrontare i forestieri, quei quattro gatti e teste calde, che volevano esporre la città alla vendetta del generale Flores con le conseguenze immaginabili per le proprietà, per le case, per la stessa statua di S. Oto tutta d’argento. E, se pure avessero vinto, ci sarebbero state lo stesso conseguenze negative, perché dietro Garibaldi c’era l’anarchia e il disordine. I filoborbonici erano da tempo impegnati ad organizzare il malcontento e la mobilitazione. Ad Ariano era stato il conte Gaetani che aveva incontrato Leopoldo Parzanese, di cui era compare, lasciandogli anche una somma di denaro per promuovere la sollevazione. La famiglia Anzani fece pesare il suo potere concreto. Don Nicola era provicario al Vescovado, Don Giuseppe era il depositario dei sali per Ariano e per i paesi circostanti, Don Francesco era Colonnello dello Stato Maggiore borbonico e su Don Girolamo, già comandante della Guardia urbana, era corsa la voce che dicesse: "Se vince Francesco II io sarò re di Ariano". Vero o falso che fosse il sogno di questa autoincoronazione di don Girolamo, la voce stava a dimostrare che godeva di un notevole potere di cui darà prova concreta. Alleati degli Anzani erano Peppe Santosuosso "cappellano di Torre d’Amandi ed arbitro assoluto della volontà di quei villici" ( 25), il vecchio Sindaco Carluccio Ottavio, don Emilio Figlioli ritenuto una vecchia spia dei sottointendenti De Giorgio e della Valle, i fratelli Forte, don Leopoldo Parzanese e tanti altri. Il disimpegno dei moderati, in seguito alla precisa direttiva del d’Afflitto, dette spago ai filoborbonici e forza ai loro argomenti. Lo stesso don Raimondo e i suoi amici si prodigarono per diffondere le direttive del marchese. L’indomani il colono del d’Afflitto, Bartolomeo Lo Conte detto Scarnecchia, sarà in prima fila ad aizzare i contadini contro i liberali e poi ad aggredirli. E le guardie nazionali il giorno dopo si trovarono tutte in servizio di ordine pubblico nelle contrade "calde" partecipando attivamente al massacro. Si realizzò una alleanza larghissima che isolò Vito Purcaro. Nei confronti del quale, per discreditarlo, si usò un argomento di sicuro impatto negativo. Si disse che Purcaro aveva avuto duemila ducati dal Vescovo Caputo in cambio della promessa del suo ritorno ad Ariano dopo la vittoria dell’insurrezione. Probabilmente si era risaputo che il sindaco di Monteleone, don Luciano Trombetta, aveva richiesto a Caputo un contributo "come mezzo finanziario della inaugurazione del Governo provvisorio" ed aveva ottenuto una fede di credito per 1000 ducati. La mattina del 4 settembre arrivarono i volontari della zona di S.Angelo dei Lombardi preceduta dalla banda musicale di Taurasi. Era previsto l’arrivo di almeno 1000 uomini ma "non vi giunsero che un 300 militi circa" accolti con "tutt’altro che festose accoglienze, nemiche". Erano guidati da Camillo Miele di Andretta. Verso le 10 si riunirono nel Vescovado i capi dell’insurrezione : De Concili, Brienza, Nitti, Miele, De Leo, gli altri avellinesi e poi Vito Purcaro, Raimondo Albanese, Giuseppe Vitoli e tanti altri arianesi: "ogni classe di persone, non esclusa quella degl’impiegati" (26). Furono subito rimesse in discussione le decisioni prese ad Avellino due giorni prima. I convenuti non erano d’accordo sulla composizione del Governo provvisorio. Ai problemi di rappresentanza "tutti i capi dei diversi drappelli volevano essere ministri" (27), si aggiunsero quelli di equilibrio politico. Quando Vito Purcaro propose il Governo provvisorio così come era stato deciso si sentì un solenne e sarcastico "Benissimo" e Raimondo Albanese iniziò a sollevare abilmente una serie di problemi tattico-militari. Cominciò a chiedere garanzie sulla possibilità di difendere la città dalla colonna di Flores, domandò quali fossero i piani per una eventuale ritirata, espresse l’inopportunità di costituire un governo provvisorio stante la legittimità di quello in carica "il governo di oggi è come quello di ieri, non vi sono novità non vi sono cangiamenti", disse; infine la minaccia: "se si volesse per forza un governo, protesteremo con il corpo municipale". Intanto la gente cominciava a raccogliersi sotto il Vescovado esprimendo ostilità nei confronti dei forestieri; andassero a radunarsi altrove. Le divisioni, che si determinarono all’interno dell’Episcopio, furono portate in piazza e contribuirono ad aggravare il giudizio su quei liberali che non riuscivano a mettersi d’accordo. I militi della colonna santangiolese erano stanchi. Avevano viaggiato due giorni ed erano innervositi sia dalle lungaggini della politica sia dalle minacce degli arianesi che si facevano sempre più pesanti. Quando don Raimondo e i suoi amici lasciarono il Vescovado fu chiaro a tutti che la costituzione del Governo provvisorio era fallita. Comprensibili le reazioni. De Concili era sgomento. Le sue pressioni e il suo prestigio non erano riusciti a convincere i notabili arianesi. "Sono carogne, hanno paura" disse a Carbonelli. Questi cercava di organizzare la difesa dei suoi uomini da un assalto che ormai appariva quanto mai probabile; gli era già stato sparato un colpo di fucile che aveva potuto "schivare fortunatamente". Qualcuno tagliò il filo del telegrafo, la "corda elettrica". Un gesto che significava l’isolamento della città, sul quale i capi della sommossa fecero leva per scatenare il dramma. E’ impossibile cercare una obiettiva descrizione di ciò che successe immediatamente prima e dopo la rottura della "corda elettrica". Le versioni sono tante. Alcune dei diretti partecipanti e perciò appassionate, altre meno attendibili perché descritte per aver sentito o letto da terzi. Tutte, però, fanno sempre riferimento alle campane che suonavano a distesa. Il clero svolgeva il suo ruolo. E anche se si trovasse la verità, essa diventerebbe non essenziale rispetto a ciò che si verificò successivamente. Un nucleo di militi, non più di una novantina, al comando di Carbonelli, con De Concili e i capi liberali restò ad Ariano asserragliato nel Vescovado dove si cercò di organizzare una resistenza. Camillo Miele, Cipriani, i santangiolesi e altri gruppi sparsi ritennero più opportuno di ritirarsi verso Grottaminarda. Questa divisione delle forze, già così scarse, aggravò la situazione perché gli aggressori capirono che ormai erano padroni del campo. Lungo la strada, a S. Rocco, a Cardito, i volontari furono affrontati dai contadini dai quali cercavano di difendersi più con la fuga che con le armi. Si spiega anche così che tra gli assalitori arianesi non ci furono morti. La sproporzione delle forze era tale che non dava nessuna speranza. Ma a contrada Manna i fuggitivi trovarono una vera e propria imboscata preparata dal prete Santosuosso e da Meo Scarnecchia "uomo membruto, robusto e feroce". E qui si scatenò una ferocia che lascia allibiti. Quelle masse, sconvolte da giorni e giorni di insistente propaganda sui "banditi" che sarebbero arrivati per rapire il Santo e attentare alle proprietà e all’onore delle donne, istigate da figuri senza scrupoli e con gravi precedenti penali, assassinarono, rubarono, si accanirono sui cadaveri. E si aggiunsero le Guardie Nazionali: sia quelle che erano state epurate sia quelle in servizio il cui comandante era Giuseppe Vitoli. Il cadavere del sacerdote Leone Frieri di Cairano fu mutilato del sesso. Molti corpi furono denudati e abbandonati sulla strada. I morti accertati furono 33 di cui due tra i volontari di Ariano. Le testimonianze dei protagonisti avevano elevato di molto questo numero. Non è inverosimile che i morti siano stati di più. E’ provato che nei giorni successivi i reazionari impedirono che si facesse l’autopsia sui cadaveri trovati; è possibile che, proprio al fine di impedire le autopsie, ne avessero sotterrati altri. D’altra parte un episodio inedito di cui si trova traccia in un processo svoltosi davanti alla Gran Corte Criminale (28), relativo ad altri fatti di cui furono accusati l’ex Sindaco Carluccio ed altri, sembra dare qualche credito a questa tesi. Alcuni testimoni a carico, tra cui i due impiegati comunali, dichiararono che, verso la fine di settembre, il nipote di Carluccio, Beniamino, si presentò in Municipio e gettò sul pavimento una testa umana dicendo: "vedete come é giovane si vede dai denti. E’ uno di quelli uccisi durante la rivolta". Sempre a sostegno di questa tesi c’è un "ordine" di De Marco al clero di Ariano, datato 16 settembre, perché desse sepoltura ad un cadavere trovato ben dodici giorni dopo quello della strage (29). Ed infine in un attestato della Giunta Comunale, firmato dal Sindaco Figlioli e dai membri della Giunta tra i quali M. Nicoletti, si legge che il Vitoli "si cooperò alla istallazione del Governo provvisorio ad Ariano, fallito per la reazione seguita in cui perirono circa 100 liberali (29bis). Il gruppo rimasto in Vescovado era assediato da una popolazione minacciosa e ormai esaltata dalle notizie che arrivavano dalle campagne che erano state teatro del massacro. De Concili si mostrava deciso a restare lì, ad accettare le conseguenze di un attacco al Vescovado, il suo assassinio, diceva, avrebbe coperto di infamia la città. Di diverso avviso erano gli altri che lo convinsero ad avviare una trattativa per uscire da quella situazione. La trattativa fu avviata con quelli che erano immediatamente apparsi i capi della sommossa. Convinsero don Girolamo Anzani, don Francesco Gelormini, il canonico Forte, ed altre primarie persone, ad accompagnarli sino ai confini del paese verso le cinque pomeridiane. "Noi li seguivamo pronti a sacrificarli al minimo segnale di tradimento". E’ difficile credere a questa scena descritta dal Brienza nel comprensibile tentativo di limitare, almeno in parte, i danni di quella "resa". Inverosimile che uscissero dal Vescovado con don Girolamo e gli altri sotto tiro. I filoborbonici non erano stati costretti ad accompagnarli e il rapporto di forza dava loro ragione. La realtà era un’altra. Anzani e i suoi amici avevano vinto e accompagnando i patrioti fuori della città si accreditavano ancora una volta come i suoi veri dirigenti. Si accreditavano magnanimi e generosi a tutta quella gente, a quella folla che al loro passaggio si apriva obbediente. Si accreditavano alle nuove classi dirigenti come i titolari di un potere grande ed esteso con i quali avrebbero dovuto fare i conti: un fratello di don Girolamo, Luigi, sarà eletto Sindaco e un nipote, Ottavio, sarà consigliere provinciale e deputato del collegio di Ariano. I superstiti della "colonna" raggiunsero Greci, dove furono accolti con entuasiamo e tanta ospitalità. Incombeva però il pericolo dell’arrivo della colonna del generale Flores. E quindi bisognava andar via. E poichè la zona più sicura era quella che confinava con Benevento che era già stata liberata, De Concili e gli altri si avviarono verso Casalbore. Di qui partirono all’alba del 6 settembre salutati dalla popolazione in festa: "Quale commovente spettacolo! Quelle gentili signore, fregiate di colori italiani, fra voti e benedizioni, ne davano commiato, e soffuse di rossore, come fratelli, ci stringevano ai casti petti" (30). A sera erano a Buonalbergo. L’unico arianese al seguito di De Concili fu Giuseppe Vitoli. Il mattino successivo l’arciprete Soldi, fratello di Serafino, celebrò la messa in piazza e poi fu letto questo proclama:Costituzione del Governo provvisorio Irpino Viva l’Unità d’Italia Viva Vittorio Emmanuele Re d’Italia Viva il dittatore Giuseppe Garibaldi. Visto lo stato insurrezionale in cui trovavasi la provincia di Principato Ultra per la Unità d’Italia sotto lo scettro Costituzionale di Vittorio Emmanuele, sotto la Dittatura per le Due Sicilie del Generale Giuseppe Garibaldi. Vista l’urgenza dei casi, che impongono la necessità di proclamare immantinenti il Governo Provvisorio nel Comune di Buonalbergo. Il popolo ha proclamato in nome di Vittorio Emmanuele II Re d’Italia e di Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie: Lorenzo De Concili Prodittatore Segretari, Giuseppe Capone, P. Eduardo Nitti, Giovanni de Maio, Rocco Brienza rappresentante del Governo Provvisorio Lucano con voto deliberativo presso il Governo Provvisorio Irpino. Buonalbergo 7 settembre 1860. Firmati: il prodittatore Lorenzo De Concili , Segretari Giovanni De Maio, Eduardo Nitti, Giuseppe Capone, Rocco Brienza".
La composizione del Governo è diversa da quella stabilita ad Avellino e che doveva essere proclamata ad Ariano: era stato escluso Vito Purcaro ed erano stati inclusi due rappresentanti del Comitato dell’Ordine Capone e De Maio. La reazione di Ariano, oltre che la vittoria sul campo, otteneva anche quella politica: l’emarginazione degli azionisti. Si consolidava sui morti della contrada Manna quella larga convergenza che già si era costruita per organizzare il fallimento dell’insurrezione. Quello stesso giorno 7 settembre Garibaldi entrava a Napoli. A Buonalbergo arrivarono anche Raffaele Mainieri e Luigi Imbimbo e raccontarono che erano scappati da Ariano per sfuggire alla "furia dei contadini". "Essi sono stati ricevuti con sospetto ed assicurati ma poi rilasciati con garanzia di D. Michele de Martino" così scrisse Vitoli alla sorella comunicandole che era stato nominato comandante della colonna in sostituzione di Carbonelli e che, forse, il giorno dopo si sarebbero mossi per Ariano "con duemila dei nostri e duemila soldati di Garibaldi. Ciò che si dovrà fare lo ignoro, sebbene sia facile indovinarlo" ( 30bis). Invece il 9 settembre De Concili e i suoi seguaci si misero in marcia per tornare ad Avellino. Ad Apice incontrarono De Marco e i suoi "Cacciatori" e De Blasiis con la colonna del Matese. Erano le forze che dovevano arrivare ad Ariano sei giorni prima. Sempre il 9 settembre Francesco de Sanctis veniva nominato Governatore della Provincia di Principato Ultra. Il Governo Provvisorio non aveva più ragione di esistere. "E così finì questa spedizione d’insorti Avellinesi che non ebbe altro scopo pratico che la significazione essere sempre pronti gli irpini a combattere per la indipendenza e libertà, ad onta che i capi residenti a Napoli e a Torino fossero stati di parva sapientia... De Concili aveva mostrato il desiderio di non andare su Ariano... ma dovè subire il comando e gli ordini dei più furbi, che preferirono al movimento di evoluzione quello selettivo; e per dire le cose chiare quello del proprio interesse" (31). Questa l’amara conclusione di Vincenzo De Napoli. Un atto di accusa eloquente nei confronti dei capi del Comitato dell’Ordine di Torino e di Napoli. Le ragioni della politica portavano e portano a forzature e spregiudicatezze. La rilettura di quelle ragioni, a tanti anni di distanza, è utile se può insegnare a limitarne, nel domani, gli effetti negativi. Perciò va fatta serenamente per cercare la verità anche a costo di mettere in discussione qualche "certezza" o qualche mito. Intanto Ariano rimaneva nelle mani dei "sollevati". Girolamo Anzani, Leopoldo Parzanese, Francesco Ciani, Raffaele de Paola, i fratelli Forte, Ettore ed Emilio Figlioli diventarono i dirigenti della città. Il Sindaco, F. Carchia, abbandonò il comune dandosi ammalato. I filoborbonici capeggiarono la "ribellione" invece che farsi travolgere da essa. La capeggiarono in nome della difesa di una monarchia: furono portate in giro festosamente le immagini di Francesco II e Maria Sofia. In realtà difendevano il proprio ceto e i propri privilegi. Sollecitarono l’arrivo di Flores che giunse ad Ariano il 6 settembre con 6000 uomini. Questa presenza sembrò rafforzare il potere dei capi della reazione. "Si temono inquietezze e danni che potrebbero cagionare alla città accordi presi fra la truppa Flores ed i sollevati. Molte famiglie si recano nei casini di campagna o nei vicini comuni" scrisse Felice Mazza. Alla notizia che Garibaldi era entrato a Napoli l’esercito borbonico cominciò a sbandarsi. Il generale Flores partì per Napoli con la famiglia lasciando il comando al generale Bonanno. La sera del 9 settembre fu arrestato tra Campanarello e Pietradefusi dai cacciatori di De Marco. Di quelli rimasti ad Ariano uno squadrone di cavalleria partì per Napoli per arruolarsi tra i garibaldini. Gli altri, i soldati, lasciarono armi ed equipaggiamenti e si sciolsero, dicono le testimonianze, tra bestemmie e imprecazioni. I fatti di Ariano contribuirono ad accendere reazioni anche in altri comuni della provincia. Le più note sono quelle di Montemiletto e di Torre le Nocelle dove, però, la rabbia dei contadini si rivolse contro i "galatuomini" del posto. Confrontando i due movimenti Federico Biondi mette in guardia dalle "facili generalizzazioni sugli atteggiamenti delle classi sociali in quel periodo che non sono sempre concordi" ed aggiunge che "a volte, schierandosi dalla parte dei Borboni i ceti possidenti evitano il pretesto dell’urto con i contadini...d’altra parte gli stessi contadini in alcune regioni del Mezzogiorno, non esitano a schierarsi dalla parte dei patrioti, se nella loro propaganda si lascia posto al problema della terra, come ad esempio in Sicilia" (32). Nel caso di Ariano i ceti possidenti furono facilitati nel disegno di evitare l’urto con i contadini da due condizioni: 1) dalla assenza di ogni spinta in direzione del coinvolgimento dei contadini che era "rimasta", appunto in Sicilia, soffocata dall’intervento di Bixio a Bronte; 2) dalla alleanza nella difesa della terra tra borbonici e liberali. "Vegliate, per Dio! che non si discrediti il movimento con la mancanza di rispetto verso la proprietà" aveva "gridato" il D’Afflitto a Raimondo Albanese. Egli difendeva certamente una politica: quella di compiere una "rivoluzione senza rivoluzione" "esercitando una attività egemonica, per dirla con Gramsci, anche prima dell’andata al potere... attraverso l’iniziativa individuale, molecolare, privata". Ma questa politica aveva le sue radici anche nella sua "condizione" di essere cioè uno dei più grandi proprietari terrieri di Ariano. Sui 199 eleggibili della città, a quell’epoca, i due fratelli d’Afflitto erano quelli che avevano la rendita annua più alta: 2.391 ducati. Un valore enorme se si pensi che gli Anzani, in cinque, avevano una rendita di 1870 ducati e che solo una trentina di eleggibili superavano una rendita di 100 ducati. |
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( 25) N. Flammia, op. cit., p.254.( 26) R. Brienza, op. cit., p. 2.( 27) V. de Napoli, op. cit. p.206.( 28) ASA - G.C.C. di P.U. - B 80 f. 373.( 29) Archivio De Marco- Biblioteca Prov. Benevento.( 29bis) Attestato della Giunta Comunale di Ariano su "Requisiti e servigi di Giuseppe Vitoli" in Arch. Vitoli - Fondo Cozzo, Ariano.( 30) R.Brienza, op. cit., p.35.( 30bis) Lettera di G.Vitoli alla sorella - 8 settembre 1860- In Archivio Vitoli - Fondo Cozzo – Ariano.( 31) V.de Napoli op.cit., p.214.( 32) F.Biondi "Un episodio della reazione borbonica nella campagna irpina", in "Problemi dell’unità d’Italia", p.134. |
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