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LA LEGGENDA |
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DI GIULIO PEZZOLA |
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di Marcello DI PIETRO (rivisto da Maurizio Roscetti) |
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dal libro: "Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo <<Memoriale>> (1598-1673) di Giorgio Morelli |
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da: html http://www.borgo-velino.it/pezzola.htm |
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CAPITOLO VII Viaggio a Madrid. Sospetti nutriti sul suo conto dal Viceré Conte di Peneranda. Con il Consigliere Porzio distrugge la banda di Martello. Sua prigionia e morte. I n considerazione dei segnalati servizi resi alla Corona spagnola durante i moti masaniellani, il Viceré Conte d'Oflate concesse al Pezzola un lungo periodo di licenza con facoltà di portarsi a Madrid per umiliare personalmente ai piedi del Sovrano una memoria che documentasse quanto egli aveva operato sotto l'insegna del più puro lealismo spagnolo e ricevere, quindi, dai Re i segni tangibili della sua augusta munificenza. Tornato l'Oflate vittorioso dalla spedizione di Portolongone e Piombino e ripreso il governo del Regno, Beltrano di Guevara, suo fratello, poté rientrare in Madrid e condusse con sè il Pezzola il soggiorno del quale in Spagna si potrasse circa un anno, dove fu ospite nella sfarzosa Corte, e dove ebbe occasione di incontrare gli ex viceré e altre personalità che egli servì e che ora si prodigavano favorevolmente per la sua persona verso il Re. Ritornò in Italia ai primi dei 1652 carico d'onori e di stima. Era naturale che tale sua fortuna suscitasse l'invidie e facesse ridestare vecchi propositi di vendetta mai abbandonati da parte dei suoi nemici. Non era trascorso molto tempo dal suo ritorno a Napoli che gli fu attentata la vita da alcuni sicari; ferito gravemente si rifugiò in Aquila e qui, nello stesso anno, prendendo le difese della famiglia Rivera durante alcune risse scoppiate tra questa e la famiglia Pascale, Giulio e suo figlio Giacomo furono fatti conferire in Venafro. Dopo la precedente sconfitta del 1648, Enrico di Lorena duca di Guisa tentò nuovamente di conquistare il Regno di Napoli. Si raccolsero nell'Abazia di Farfa, dominio dei Barberini, un migliaio di soldati francesi al comando del Duca di Collepietro, del Marchese d'Acaia e di altri capi, per invadere l'Abruzzo. In Aquila tali notizie misero sul piede di guerra le truppe che si apparecchiarono alla difesa, fortificando Antrodoco, Cittaducale e Borghetto; presiedevano le operazioni: Gio. Battista Monforte duca di Laurito e il Maestro di Campo Ettore Ravaschiero, principe di Satriano. Nel novembre 1654 l'armata francese guidata dal Guisa pose l'assedio a Castellammare di Stabia che, dopo una debole resistenza, si arrese. La gioia di una sì facile vittoria non durò molto, perché l'energica e tempestiva reazione del Viceré arrestò ogni ulteriore avanzata del nemico che fu costretto ad abbandonare la città e fuggire al largo con tutta la flotta; anche Farfa venne abbandonata. Gli aquilani esultarono di giubilo e festeggiarono lo scampato pericolo con grandi feste. Negli anni successivi, fino alla fine del 1658, quando terminò il mandato del Conte di Castrillo, l'attività del Pezzola si limitò a quella di debellare quanti più briganti potesse. La sua compagnia esercitava regolare servizio quale milizia territoriale, come diremmo oggi, e dipese per qualche tempo anche dal dipartimento militare di Sulmona: nel 1656 alcuni suoi soldati si trovavano di stanza in Pescasseroli. I particolari privilegi che il Pezzola godette durante un trentennio, straordinariamente concessi e confermati da vari viceré, cominciarono a perdere la loro efficacia da quando il governo del Regno di Napoli venne assunto, l'11 febbraio 1659, dal Conte di Pefleranda. Questi, desideroso di proseguire l'opera dei suoi predecessori, nel reprimere il brigantaggio, volle innanzitutto rendersi conto della condotta di quei banditi che avevano avuto speciali mansioni sotto altri viceré e in particolar modo durante le passate rivolte, e chiamò, verso la metà del 1659, in Napoli anche il Pezzola con tutta la sua banda. Su di lui il Viceré concepì alcuni sospetti fondati su varie voci fattesi sempre più insistenti, secondo le quali quello si sarebbe unito a Bartolomeo Vitelli, detto Martello, e con una squadra di alcune centinaia di fuorilegge, gran parte marchigiani, avrebbe danneggiate le popolazioni abruzzesi; fatto, per altro, confermato dal Parrino e dal Fuidoro. Si voleva far sorgere nel Viceré il dubbio sulla fedeltà del Pezzola e insinuare il sospetto che egli tradisse i propri principi e la causa spagnola che aveva sposato. Era notorio che Marteflo apparteneva all'ala filo francese e operava, perciò, a favore del popolo. Opposte scelte politiche dividevano quindi i due capi-banditi, i quali univa però una stessa natura brigantesca che spesso prendeva il sopravvento. Si comprende come spesso i due sentissero prudere le mani di incalliti briganti e non si lasciassero sfuggire qualche buona occasione. Tra il 1659 e il '60 il Viceré costrinse il Pezzola ad un soggiorno obbligato in Napoli, dove rimase sotto stretta sorveglianza. L'ordine, emesso anche per tutti gli altri capobriganti, venne eseguito solo dal Pezzola, sicché il Martello, contrariamente all'amico, sottoscrisse volontariamente la propria colpevolezza. Durante la permanenza in Napoli del Pezzola, il Preside d'Abruzzo duca di Laurito sequestrò tutti i suoi beni. Informato di ciò il Viceré, questi si premurò ordinargli espressamente che non si procedesse in alcun modo sulle proprietà di Giulio, ma soltanto contro il figlio Giacomo, poiché una persona favorita e protetta dal Re non fosse perseguitata in alcun modo perché fin adesso sta ben soddisfatto di Giulio e l'obbedienza riconosciuta in esso, e suoi aderenti, sono venuti ad obbedire all'ordini dati, quello che non ha fatto Martello. Pochi giorni dopo aver inviata la lettera al Duca di Laurito (29 maggio 1660), il Petieranda, avuta notizia che Savino e Alessio Falchini, nipoti di Martello, con duecento uomini infestavano l'Abruzzo, inviò il consigliere Aniello Porzio, coadiuvato dal Pezzola e da suo figlio, a quella volta per combatterli. il Martello cadde prigioniero e il 13 luglio venne impiccato con due compagni nella piazza del mercato di Teramo; altri quaranta prigionieri vennero condotti dai due al loro vittorioso ritorno in Napoli nel dicembre 1660, dopo Otto mesi di intensa lotta condotta, specie nel teramano, contro altre bande di malviventi. Di li a poco avvenne un cambiamento di scena: ecco cosa annota il Fuidoro: "Il medesimo giorno, 8 maggio, fu fatto carcerare quel Giulio Pezzola una con suo figlio e portati in Castello Novo. Quel Pezzola, un tempo capo di banditi in Abruzzo, poi aggraziato per il tradimento fatto in Roma all'innocente principe di Sansa e perciò fatto caporale di campagna, postosi in servizio regio con una squadra di masnadieri, fece diversi omicidi in Napoli e regno, e non se ne parlava. Divenuto ricco con l'industrie della campagna, essendo lui mastro di banditi e destro, che aderendo al servizio regio nelle passate sollevazioni del 1647 meritò d'avere dalla munificenza del re N.S. Filippo IV una terra vacata al Fisco del duca di Collepietra di casa Carrafa nell'Abruzzo. Ma finalmente queste teste di papaveri sogliono essere recise, poiché recano emulazione alli medesimi prati, che perciò si fa pronostico che morirà o di vecchiaia o pure strangolato nelle stesse carceri". Quali gravi fatti poterono così rapidamente far capovolgere lo stato del Pezzola? Pompeo Colonna, suo capitale nemico, scomparve dalla scena del mondo il 5 gennaio di quell'anno 1661 e sei giorni dopo Alfonso Carafa duca di Collepietro e di Castelnovo venne reintegrato nel possesso dei suoi beni, sequestratigli nel 1650, in occasione de] perdono generale concesso dal Pelleranda a tutti coloro che avevano parteggiato per la Francia. Quindi il Pezzola dovette cadere in disgrazia subito dopo rientrato dall'Abruzzo con Aniello Porzio nel dicembre '60. Ai primi di gennaio '61 venne privato del titolo di barone e del feudo di Collepietro con tutti gli altri suoi beni. È possibile credere che il Carafa possa aver contribuito - vendicandosi - alla caduta del Pezzola, avutolo in molte occasioni quale imbattibile nemico durante le sue sfortunate operazioni militari svolte in Abruzzo a favore della Francia. Ma ancora una volta è la preziosissima Cronaca del Fuidoro che ci viene in aiuto. Il Pezzola, per eseguire l'ordine vicereale, ritrovandosi con il consigliere Porzio nella sua terra che fu il teatro incontrastato delle sue azioni, liberato ormai della presenza di Martello, decise di tradire tutto e tutti e darsi nuovamente a briganteggiare. Volle però conoscere prima quali segreti ordini avessero ricevuto dal Viceré il Porzio e il Mastro d'atti che lo accompagnava e sentire il loro " intimo del cuore " circa la sorte destinata alla sua persona. La precaria condizione in cui si venne a trovare dall'inizio del governo del Pelleranda lo rese sempre più sospettoso e diffidente. Si era assicurato una forza di oltre quattrocento - cinquanta uomini che avrebbero formato la nuova banda con la quale si sarebbe dato alla campagna appena avesse saputo di trovarsi in imminente pericolo. Si servì, come informatore, di un frate, il quale non ebbe tatto sufficiente a portare a termine la delicata missione. Durante il colloquio avuto con il Porzio e col Mastro d'atti Marrello, usò un comportamento così poco diplomatico che fece intuire facilmente lo scopo della sua visita. I due accorti ministri, con prudente e sottile abilità, usarono a loro volta lo stesso frate da esca, per avere, una volta per sempre, tra le mani il Pezzola che con quella mossa si era definitivamente e irreparabilmente condannato da sé stesso. Si dette al frate ogni possibile assicurazione che verso il Pezzola non si nutriva alcun dubbio sulla sua condotta e sulla sua fede]tà. Del resto, si fece notare, anche il Viceré aveva dimostrato pubblicamente infondate le calunniose accuse e lui, l'accusato, godendo le grazie reali, era al di sopra d'ogni sospetto; invitarono quindi il frate ad assicurare il Pezzola che poteva tranquillamente e senza timore rientrare in Napoli Scrive il Fuidoro: "Non finì questa notte antecedente al lunedì 17 luglio 1673 se non con uno spettacolo maggiore, perciò da molti anni trovandosi prigione nel castello dell'Ovo Giulio Pezzola, abruzzese (tiranno di quella provincia e persona di ordinarii natali, ma di cervello assai sanguinano ed essaltato dal duca di Medina) perché avesse rapito di dentro Roma nella notte di Natale l'innocente Antonio Orefice principe di Sanza, e condottolo in Napoli, dove in brevi giorni fu fatto decollare per gare del duca di Madaluni - parente e pretensore di donna Anna Carafa, erede della casa di Stigliano, che fu data al duca di Medina viceré del regno -costui adunque, fattosi ricco con tal favore, gli erano i disservizii ammessi per servizii, trucidando chi li pareva e piaceva, col favore della corte, e come uomo di sequela servi nelle rivolte del Regno al 1647 li regi, e fu privato d'un piccolo castelletto nella sua provincia, nella quale viveva da barone, e con rispetto e sequela grande di armigeri, per lo che gareggiando con Martelli similmente famoso ladrone - erano in Apruzzo queste due teste fazionarie, li quali la corte li tenne aggraziati, ma poi, nel governo del conte ......... viceré di Napoli, dal consigliero Aniello Portio fu in quella provincia fatto appiccare Martelli, e machinando il Pizzola di tradire il consigliero ed Onofrio Marrello mastro d'atti assunto uomo saggio ed amico della giustizia, quale scoperse il tutto per via d'un frate, che venne amichevolmente e con minacce per sapere l'intimo del cuore di questo ministro e del mastro d'atti, quali portatosi con somma prudenza ed accortezza, seppe lusingare il fraticello, e li fe' credere che veramente contro di lui e di suo figlio non ci era cosa nessuna, tanto più che aveva veduto il suo emolo appiccato, ed avendo il Pezzola quattrocento uomini pronti a sua disposizione per buttarsi in campagna con l'armi in caso contrario, e potendone ancora arrollare assai più, il che fu saputo da questo ministro, che disingannando il suddetto frate, l'obbligò a crederlo, ed accompagnare in Napoli il Portio e mastro d’atti, e doppo arrivati fattolo carcerare con Giacomo suo figlio, più sanguinario e perverso che il suo padre, e tattili porre prigioni separatamente in due castelli, Giulio finalmente, vecchio di anni settantacinque in circa, non vedendo che li suoi moderni proposti partiti fatti con regi di pratticar la sua libertà e di suo figlio, sotto spezie di far nuovi servigi alla corte per dissipare banditi, ma più tosto di assediare la corte, e pattizzare quando egli o suo figlio fosse di nuovo con l'armi alle mani e sequela d'armati, di dare la libertà a lui o suo tiglio, il che non poté mai ottenere, ed ecco che mosso dalla disperazione a mezzanotte calatosi con una fune, alcuni dicono che si spezzasse, altri che non arrivasse giù, altri che non potendo per la distanza dell'altezza sostenere il peso di se stesso, e spolpatisi le palme delle mani, toccati li nervi per lo striscio, accaloratesi ed infocatesi cascò giù e s'infranse e spirò: tanto può l'effetto della scomunica, fulminatagli da papa Urbano VIII per la prigionia sudetta del principe di Sansa dentro Roma. Fu mandato ad interrare il cadavero di Giulio Pizzola al ponte della Maddalena come scomunicato. Terminava così, in modo tanto umiliante, quanto immeritato, la carriera di Giulio Pezzola che, comunque lo si voglia giudicare, scrisse una pagina, anche se delle meno piacevoli, della storia abruzzese e nazionale. Nemmeno la morte, che lo ghermì rispettando la più rigorosa tipologia codificata dalla tradizione popolare e romantica, riuscì a riscattarlo di fronte alla storia e alla tradizione popolare. |
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