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RIFLESSIONE STORIOGRAFICA

IL MEZZOGIORNO E LA BASILICATA

VERSO L’UNITA’ D’ITALIA

di: Mina FALVELLA

da: http://www.basilicata.bancadati.it/ricerche.html

 

CAPITOLO I

Le regioni meridionali con la campagna garibaldina del 1860 e il successivo plebiscito vennero annesse al resto dell’Italia unificata

CAPITOLO II

Contesto Socio-economico del mezzogiorno e della Basilicata preunitari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO I

Le regioni meridionali con la campagna garibaldina del 1860 e il successivo plebiscito vennero annesse al resto dell’Italia unificata.

Il territorio, per sei secoli identificato come "Regno di Napoli", diventa un insieme di province soggette agli ordinamenti liberali del nuovo Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Molti sono i cambiamenti prodotti e dovuti a tale passaggio politico nella realtà del Mezzogiorno, pertanto è opportuno considerare, a grandi linee, la situazione di quest’area prima del determinarsi di tale mutamento. Nel Mezzogiorno d’Italia, risultano di particolare interesse, ai fini del mutamento sociale, le riforme di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, le quali favorendo le leggi eversive della feudalità e il rinnovamento amministrativo svincolano l’attività produttiva e la proprietà terriera dai vecchi legami; ma nonostante le spinte verso il progresso economico e sociale non si verificò un netto e definitivo distacco dal sistema feudale (1). Questa situazione pur creando malcontento, non determina il sostegno unanime ai francesi; durante il Decennio piccoli e medi proprietari, maestri di bottega, artigiani, si costituirono in Sette segrete con programmi diversi: alcune erano repubblicane, altre auspicavano il ritorno dei vecchi sovrani. "Quando giunse notizia che il 3 maggio del 1815 l’esercito napoletano era stato sconfitto a Tolentino dagli austriaci e che Gioacchino Murat non era più re di Napoli, anche i carbonari lucani innalzarono il vessillo borbonico e si affrettarono a riconoscere loro sovrano Ferdinando di Borbone" (2). Ferdinando I re delle Due Sicilie, trovò una società diversa da quella che aveva lasciata: la posizione sociale ed economica, la professione, l’esercizio del mestiere distinguevano gli abitanti del Regno in gentiluomini, galantuomini, civili e popolani. Per il Racioppi fu il decennio napoleonico a determinare una vera e propria rivoluzione nella società della Basilicata (3). Restarono in vigore le leggi eversive della feudalità. Divisi i demani feudali tra il barone ed i Comuni, bisognava procedere alla distribuzione tra i contadini poveri della quota assegnata ai Comuni. Cominciata durante il governo decennale con la spartizione della terra ai nullatenenti, la questione dei terreni demaniali si era arrestata e contribuiva a tener vive le controversie sociali. Ferdinando di Borbone tentò di risolverla senza riuscire a riscuotere esiti favorevoli ai contadini: la borghesia terriera non intendeva rinunziare al possesso delle terre demaniali. Nel 1820 anche la camera dei Deputati, nella seduta del 26 settembre, discute sull’opportunità di rivendicare le terre demaniali che i Comuni avevano affidato, in attesa delle quotizzazioni, a proprietari fondiari o mantenere questi nel possesso. Contro la direttiva seguita dal Sovrano, la Camera dei Deputati valutò più conveniente per i Comuni concederle a censo ai possessori anziché rivendicarle per attribuirle ai contadini poveri (4). Intanto gli affiliati alle società segrete continuano a riunirsi nelle loro Vendite per discutere e programmare l’attuazione dei loro principi ispiratori: con il ritorno dei Borboni la Carboneria aveva realizzato parte del suo programma, continuava ad auspicare il conseguimento delle riforme amministrative orientate alla partecipazione attiva dei ceti medi alla vita politica del paese, aspirava inoltre all’istituzione, regolata da una Costituzione, di una Camera dei Deputati elettiva, con il potere di promulgare leggi dello Stato osservate anche dal sovrano. In Basilicata fino al 1820-21 vi erano solo Carbonari e Calderari; questi ultimi erano particolarmente numerosi nel Rivellese e nei dintorni e venivano anche chiamati "Veri amici" o "Trinitari". I Rivellesi, che per il loro mestiere di ramai, giravano nel potentino, fecero numerosi proseliti nei centri da loro visitati (5). Nei primi giorni del luglio 1820 l’insurrezione scoppiò nel napoletano, a Nola, ad opera di due tenenti di cavalleria, M. Morelli e G. Silvati i quali riuscirono a distaccare un contingente armato dall’esercito. Ai ribelli si unirono i carbonari di Nola guidati dal prete Luigi Minichini. L’insurrezione dilagò nel Leccese, nella Capitanata e nella Basilicata. Il Re, dinanzi all’amara constatazione che l’esercito appoggiava la rivolta, annunciò in un proclama, il 6 luglio, di concedere la Costituzione, giurata sul Vangelo il 13 luglio (6). Ferdinando I nominò un nuovo governo, concesse la Costituzione e, con il pretesto di essere molto malato, lasciò il Regno al suo primogenito, Francesco, nominato suo vicario generale. Napoli era un Regno Costituzionale e tale restò per un nonimestre: fino al marzo 1821 (7). Si fece grande festa nei principali centri della Basilicata, venne alzato il tricolore carbonaro: la bandiera rossa, celeste e nera, la notizia della concessione della Costituzione andava diffondendosi. L’entusiasmo per l’elezione del Parlamento fu immenso, il voto fu espresso tenendo in considerazione il censo. Ma fu un entusiasmo di non lunga durata, il re di Napoli partecipando al Congresso di Lubiana, nonostante la promessa di difendere la Costituzione, spergiurò e chiese l’intervento dell’esercito per soffocare ogni moto. L’esercito austriaco calò in Italia per reprimere ogni ideale di costituzionalismo e ripristinare il regime assoluto. Gli avvenimenti bellici non furono gloriosi né per il Governo costituzionale né per i Carbonari. La repressione non si fece attendere: Morelli e Silvati affrontarono il supplizio della forca. La Basilicata ebbe numerosi focolari di ribellione che si attivarono al fine di ristabilire la Costituzione revocata. I due grandi centri dell’insurrezione lucana furono Laurenzana e Calvello, dove i patrioti poterono avvalersi anche dell’intervento delle forze contadine che, oltre alla libertà rivendicavano nuove leggi agrarie. In Potenza, nell’aprile 1821, le schiere austriache entrarono come in una città nemica (8). Nell’ottobre 1821 giunse nel capoluogo il maresciallo Roth, Commissario del Re, con 600 militari austriaci per processare e punire i ribelli. La Corte Marziale si riunì anche a Calvello e molti furono i condannati a morte, i sospettati o i presunti cospiratori. Le persecuzioni della polizia si prorogarono per anni: la circolare del 12 marzo 1827 n. 2033, fissava dei criteri per accertare la buona condotta di un cittadino che si rifacevano ai comportamenti tenuti tra il luglio 1820 e il marzo 1821 (9). In Basilicata le società segrete a poco a poco si occultarono o subirono evoluzioni non sempre documentate. Dopo la morte di Francesco I, salì al trono Ferdinando II il quale fece sperare, essendo stato estraneo ai grandi fatti politici del passato, in un governo più liberale, ma tale aspirazione non venne realizzata. Nel 1832 Giovanni Palchetti, un giovane fiorentino venuto a Napoli per vendere le opere di Vincenzo Gioberti, è autorizzato a recarsi anche in altre province del Regno. Giunto a Potenza, il Palchetti avvicina galantuomini e professionisti; pochi mostrano interesse alle opere del Gioberti, soltanto in casa d’Errico se ne acquistano 3 copie (10). I d’Errico e i loro amici decidono di costituirsi in un Circolo di galantuomini, denominato "Giovine Italia", ma nonostante l’omonimia con la società segreta fondata da G. Mazzini, gli associati a questo circolo non condividono lo stesso ideale di una Italia unita e non sono repubblicani come i mazziniani; il loro intento è solo quello di conseguire la Costituzione e alcuni di essi ritengono opportuna la Federazione degli Stati Italiani sotto la presidenza del Papa. "Vogliono la Costituzione ma non fanno nulla per ottenerla. Sono tutti fedeli sudditi dei Borboni e incapaci di turbare l’ordine pubblico" (11). Un folto gruppo di democratici progressisti si riuniva intorno al sacerdote Enrico Maffei che divenne il fulcro di riferimento attivo del movimento antiborbonico ed unitario della Basilicata. La visita del re nelle Province del Regno, a Potenza dal 26 settembre al 4 ottobre 1846 (12), non sopì il desiderio delle libertà Costituzionali. Per ingraziarsi la benevolenza del popolo Ferdinando II abolì la tassa sul macinato e diminuì il prezzo del sale con il decreto del 13 agosto 1847. Ma questi come altri provvedimenti non bastarono ad evitare la rivolta del 1848. L’insurrezione si propagò da Palermo, il 12 gennaio 1848, e si estese ben presto in tutto il Regno. Ferdinando II non poté affidarsi all’aiuto della gendarmeria austriaca a cui il papa non concesse il permesso di transito e si vide costretto, primo fra tutti i sovrani italiani , a concedere la Costituzione il 29 gennaio 1848, promulgata il 10 febbraio tra il giubilo della popolazione e degli ambienti liberali. L’esultanza in Basilicata all’annuncio della concessione della Costituzione fu grande (13). Le leggi elettorali del 29 febbraio e 10 marzo 1848 assegnarono alla Basilicata un deputato per ogni quarantamila abitanti. I votanti erano determinati dal censo: gli elettori dovevano possedere almeno una rendita di 24 ducati, gli eleggibili dovevano avere una rendita di gran lunga superiore: circa 240 ducati; dal titolo di studio e dal sesso maschile. I deputati furono stabiliti nel numero di 5 per Potenza, 2 per il distretto di Matera, 3 per Melfi e 3 per Lagonegro (14). In questo clima di entusiasmo i contadini fecero sentire la loro voce, spesso anticipando l’azione dei liberali e ricevendo l’appoggio della borghesia, le rivendicazioni sociali, che interessavano tutta la regione, furono particolarmente estese nel Materano dove sia il d’Errico che l’arcivescovo Di Macco sollecitarono la divisione delle terre (15). Mentre i dimostranti si appropriavano delle terre usurpate, si diffondeva la notizia che il Re aveva sconfessato la Costituzione ed esautorato il Parlamento. Napoli era insorta e molti lucani accorsero a sostenere la resistenza. Per preservare la Costituzione da possibili voltafaccia monarchici, nacque il 29 aprile 1848 un "Circolo Costituzionale". Il "Circolo Costituzionale", costituitosi in Potenza, il 29 aprile 1848, sotto la guida del d’Errico e del Maffei, divenne l’anima dell’azione antiborbonica e fece approvare un documento che trasformava il Circolo in un "Comitato per la difesa della Costituzione violata dal Re" (16) . All’inizio di giugno dal Comitato venne sottoscritta una "Dichiarazione di Principi Costituzionali", approvata dalla Dieta provinciale e da quella federale (17). All’interno del Circolo si registrano delle fratture nell’ambito del pensiero politico, sorgono due correnti: la corrente radicale, guidata dal Maffei, cui interviene Ferdinando Petrucelli, assumerà un indirizzo politico reazionario antiborbonico; la corrente più moderata ma comunque di orientamento costituzionale, formata dai grandi proprietari e notabili del luogo, con a capo i Branca, gli Scafarelli e i Ricotti, si ritiene soddisfatta di quanto il re ha già concesso (18). Sebbene sia i moderati sia i radicali auspichino l’autonomia e l’indipendenza del Regno, a Napoli come in Basilicata, entrambe le correnti considerano i limiti della Costituzione concessa da Ferdinando II. La parte moderata, pur condividendo alcune idee dei radicali ne ritiene controproducente la complessiva visione rivoluzionaria, il loro atteggiamento è flebile, essi temono di provocare la reazione del sovrano e quindi di essere lesi nei propri interessi. La parte radicale si lancia in ripetuti appelli a sostegno della lotta che si è ingaggiata: vogliono insorgere in armi e instaurare un governo provvisorio nettamente antiborbonico, ma solo poche squadre di volontari partono per Napoli e comunque non riusciranno ad impedire il ripristino dell’assolutismo monarchico. Non essendo stato raggiunto alcun compromesso, si decide di convocare per il 25 giugno 1848 una Dieta Federale al fine di favorire una stabile alleanza fra le province di Basilicata, Puglia e Molise. Nel corso di quella Dieta venne approvato e firmato un documento politico unitario, un Memorandum, nel quale si chiedeva il mantenimento del regime costituzionale; l’ attuazione dello Statuto e l’annullamento di ogni atto del Governo promulgato dal 15 maggio in poi - data dello scioglimento del Parlamento da parte del Re -.Il 28 giugno 1848 il Circolo Costituzionale assume la denominazione di Lucano, e rimettendosi nella mani di una "Commissione di Centralizzazione e Corrispondenza", cessa di esistere dileguandosi dalla scena politica (19). L’8 luglio 1848 segna la fine delle agitazioni lucane ed il coronamento dell’opera politica della borghesia moderata. Avversa ad ogni movimento armato per paura di complicazioni sociali, essa si era limitata a difendere la Costituzione con mezzi pacifici lasciando agli insorti calabresi l’onore di garantirla con le armi (20). Dopo l’8 luglio i democratici, essendosi convinti che la rivoluzione fosse fallita per il mancato appoggio dei moderati, orientano il loro programma in senso mazziniano, ponendo al centro dei loro obiettivi l’abbattimento del Borbone. Nel partito democratico sembra ormai giunta a maturazione l’idea dell’Unità nazionale, ma le condizioni materiali della provincia sono tali da rendere inutile una sollevazione popolare. L’insurrezione non fu e non poteva essere opera dell’intera popolazione (21). Non esistendo un quadro sociale ben articolato e socialmente definito nelle proprie componenti, la lotta delle masse contadine non coincideva con la lotta per l’emancipazione del proletariato dal dominio borghese congiunto alla lotta per l’indipendenza politica dallo straniero. L’unico mezzo per difendere la libertà sotto un governo dispostico è la cospirazione segreta. Nasce allora a Potenza la "Setta dell’Unità italiana", ad opera di Emilio Maffei (22). L’entusiasmo, sorto intorno alla Setta ed al suo programma, fu ben presto smorzato quando a Potenza giunse il Giudice della Gran Corte Criminale Domenico Iuliani, cui era demandato il compito di istruire un processo sui fatti politici del ’48. Il primo processo avviato per i fatti politici del ’48 venne denominato con la locuzione di "Causa Potentina", sebbene fossero interessate oltre alla Basilicata, anche le Puglie e il Molise (23). Durante il processo, durato dal 1849 al 1852 e raccolto in 40 volumi, furono esaminati 1500 testimoni e 1116 imputati (24). Comune alibi di difesa dei membri del Circolo Lucano è l’uso della motivazione del fine sociale: organizzare i proprietari a garanzia dell’ordine pubblico a difesa dei loro beni negli eventuali turbamenti politici; questa strategia veniva usata con la speranza di discolparsi dall’imputazione a sfondo politico e di uscire incolumi dal processo. L’atteggiamento assolutamente e sistematicamente negativo assunto dalla Corte nei confronti di tutti gli imputati, durante il processo, si risolse però soprattutto a vantaggio dei notabili, i quali riuscirono a dimostrare che solo grazie alla loro condotta si era potuta frenare la rivoluzione, la quale avrebbe assunto esiti ben più funesti per l’ordine pubblico ed il potere costituito. Intanto, Sette antiche e altre di nuova costituzione si rafforzavano e si diramavano orientandosi verso programmi di libertà, unità, indipendenza. Fra gli uomini che si attivarono per riorganizzare le forze liberali fu Giacinto Albini che essendo a diretto contatto con i giovani di benestanti famiglie lucane, studenti a Napoli, divenne il punto di riferimento fra tutti i conterranei che credevano nella possibilità di attuazione di un programma liberale, ma l’arresto di Albini e di altri liberali costrinse all’inazione (25). L’aspirazione al conseguimento dell’ideale di un’Italia unita è sempre più fervente e la popolazione insorge senza indugio, nonostante le persecuzioni politiche, i processi, gli esili di uomini liberali, le privazioni, le pesti, le carestie e i terremoti: catastrofico risultò quello del 16 dicembre 1857 che raggiunse l’11° grado della scala Mercalli, l’epicentro fu individuato in Basilicata, delimitato dai territori di Saponara, Montemurro e Viggiano, il bilancio dell’evento fece registrare complessivamente 13.000 vittime, di cui 7.000 nei Comuni di Saponara e Montemurro. Le carte dell’Intendenza di Basilicata parlano di "danni incalcolabili...tutte le abitazioni di questi Comuni sono adeguate al suolo e non vi si scorge che un mucchio di rovine senza poter discernere i confini di ciascuna di esse..." (26) L’ostilità all’assolutismo borbonico diventava sempre più esplicito e sempre più pubblici erano i plausi per le vittorie dei garibaldini. Giacinto Albini, scarcerato nell’agosto 1857 e relegato a Montemurro, paese di origine della sua famiglia, e poi a Corleto Perticara, proseguiva l’attività politica ricostruendo il partito liberale lucano con l’appoggio del progressista Nicola Mignogna e del colonello cavouriano Camillo Boldoni, e nei primi giorni di luglio a Corleto, sede del Comitato insurrezionale lucano per la sua ubicazione centralizzata fra le Puglie e le Calabrie, dichiararono decaduti i borboni proclamando l’unità nazionale (27). Gli insorti intrapresero la marcia verso il capoluogo dove inefficienti ed inefficaci risultarono le resistenze borboniche; a Potenza, il 18 agosto 1860, fu insediato il Governo Prodittatoriale di Albini e Mignogna. Tutto questo prima che Garibaldi passasse lo stretto di Messina (28). In tutti i Comuni lucani si costituì una Giunta Municipale insurrezionale con i poteri necessari per attuare le disposizioni emanate dal Governo Pro-dittatoriale con sede a Potenza (29). Le forze insurrezionali avevano il compito di occupare le gole, i valichi delle montagne e le posizioni strategiche per sbarrare la strada alle truppe borboniche dirette in Calabria o in ritirata da quella regione e costringerle alla resa incondizionata, di soffocare ogni tentativo di reazione borbonica e di fronteggiare i rinforzi borbonici che sbarcavano sulla costa tirrenica dalla foce del fiume Noce al Golfo di Policastro. Fu questa strategia militare di sbarramento e l’azione dei calabresi in armi a consentire la capitolazione dell’esercito borbonico, comandato dal Generale Brigadiere Giuseppe Caldarelli, a Cosenza il 27 agosto dinanzi al Comitato Insurrezionale e a chiedere e a ottenere la ritirata senza combattere e a tappe prestabilite fino a Salerno. Il 30 agosto anche il Generale Giuseppe Ghio si arrese a Garibaldi. Garibaldi nella sua marcia non trovò più alcuna resistenza militare fino a Napoli. La Rivoluzione passò vittoriosa e alcuni patrioti lucani seguirono Garibaldi, molti entrarono a far parte della Brigata Basilicata, comandata dal Colonnello Brigadiere Clemente Corte e parteciparono alle operazioni di guerra sul Volturno. Il 5 settembre, ad Auletta, Garibaldi riceve G. Albini e lo nomina Governatore della Basilicata. Il nuovo Governatore nomina suo segretario generale Giacomo Racioppi, questi diviene di fatto l’arbitro della provincia (30). Il giorno del plebiscito, 21 0ttobre , non per tutto il territorio della Basilicata fu un giorno di festa: a Carbone, Castelsaraceno, Calvera, Latronico ed Episcopia scoppiarono tumulti ed agitazioni contadine che col manifesto intento della restaurazione borbonica miravano ad ottenere terre da coltivare (31). La rivolta fu spenta con una dura repressione: parecchi i morti, molti rinviati a giudizio, 5 condannati alla pena di morte, 25 all’ergastolo ed altri a pene minori (32). Il plebiscito espresse il SI all’Annessione: secondo i dati riportati dal Racioppi in Storia dei moti della Basilicata, 98.202 votarono a favore dell’annessione e 110 contro. Il voto non fu segreto: le schede del SI e quelle del NO, prelevate nelle rispettive urne venivano deposte in un urna centrale (33). Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta dove si era rifugiato Francesco II, che partì per Roma, e il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale proclamò a Torino Vittorio Emanuele II re d’Italia "per grazia di Dio e volontà della Nazione". La legislazione del regno di Piemonte e Sardegna venne applicata anche alla Basilicata, senza tener particolarmente conto della situazione economico sociale della Regione. Alla delusione dei ceti liberali medio-alti , si sommò lo stato di grande miseria di quelli popolari, sfruttati e umiliati in maniera ancora più disumana che per il passato. Sulla società della Basilicata post-unitaria pesava l’insostenibile fardello della mancata soluzione della "Questione demaniale". Apertasi con la promulgazione delle leggi eversive del feudalesimo, essa era approdata nel 1860 alla piena trasformazione della nobiltà feudale in nobiltà fondiaria, latifondista ed assenteista. Agli albori dell’Unità la condizione della Basilicata appare deplorevole: il malcontento e la miseria dei contadini sfociarono nel brigantaggio che venne abilmente utilizzato dalla propaganda filoborbonica (34). Spesso considerato "malattia" fisiologica di un territorio che per le sue determinanti tipologiche offriva un ideale substrato alla diffusione (35).

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NOTE AL CAPITOLO I

(1) "...In base ad essa i baroni non vennero solo a perdere diritti, che alimentavano ancora consistenti prelievi dal lavoro dei contadini e dei cittadini sottoposti, ma furono costretti a cedere anche porzioni dei loro possedimenti... In base ad essa venne dunque avviata la cosiddetta <divisione in massa> delle terre demaniali... Né bisogna immaginare che le quotizzazioni eliminassero quella che a lungo resterà una caratteristica prevalente dell’agricoltura meridionale: l’irregolare distribuzione della proprietà fondiaria e l’eccessivo accentramento della terra nelle mani di poche famiglie... Il fine sociale di quelle leggi, destinate a creare nelle campagne una stabile e diffusa piccola proprietà contadina, fallì... Le quotizzazioni rafforzarono dunque soprattutto la borghesia terriera, nelle sue varie articolazioni, contribuendo a darle un profilo materiale più consistente nella fase storica in cui il baronaggio meridionale veniva definitivamente distrutto come ceto ..." P. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia Meridionale dall’ Ottocento ad oggi, Donzelli editore, Roma 1996, pagg. 3, 4, 5.

(2) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 218.

(3) scrive: "...Gli è mutato l’aspetto della superficie del suolo e la qualità delle culture, poiché vennero mutando le condizioni sociali del popolo tra il secolo XVIII e il XIX. Tra l’una e l’altra epoca c’è di mezzo il mondo nuovo, cioè l’abolizione della feudalità, l’assetto della proprietà secondo il Codice civile, la sparizione tra ceri limiti della mano morta o del fidecommisso, la suddivisione del demanio comunale, l’ordinamento dell’economia pubblica e finanziaria secondo i nuovi concetti del secolo XIX". G. RACIOPPI, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Vol. I, Roma Loescher 1889 (Ristampa anastatica Matera BMG, 1970) pag. 222.

(4). T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 212.

(5) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata, Vol. II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 523.

(6) Ivi, pag. 527.

(7) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 226.

(8) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata, Vol. II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 531.

(9) Ivi pag. 533 .

(10) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 235.

(11 ) Ivi, pag. 240.

(12) Ivi, pag. 253.

(13) "…I radicali si abbandonano ad un clima di euforica esaltazione, quasi ubriachi di libertà quantunque non avessero fatto granché per ottenerla..." G. MONDAINI, I moti politici del ’48 e la Setta dell’ Unità Italiana in Basilicata, Ed. Dante Alighieri, Roma 1902, pag. 65.

(14) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata ,vol . II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 548.

(15) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 272.

(16) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata ,Vol . II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 550.

(17). T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 286.

(18) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata ,vol . II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 557.

(19) Ivi, pag. 556.

(20) G. MONDAINI, I moti politici del ’48 e la Setta dell’ Unità Italiana in Basilicata, Ed. Dante Alighieri, Roma 1902, pag. 217.

(21) " Non potevano parteciparvi i grandi proprietari, cui legami di interessi rendevano affezionati al vecchio regime, e che da un cambiamento politico avean tutto da perdere; e tanto meno poteva interessarsi ad una forma di governo piuttosto che ad un’altra il contadino, che dello Stato conosceva una manifestazione soltanto, quella del Fisco... la media borghesia, poteva e doveva concepire l’ideale di un’Italia libera ed unita, a cui la portavano gli studi più progrediti...e la chiara coscienza dei propri interessi... Vi era bensì rappresentata anche la gente dei campi... in parte indotti ad arruolarsi da un sentimento di ossequio verso i loro padroni, in parte da vero entusiasmo, aveano esercitato una grande influenza le promesse di un immediato miglioramento economico." G. LUZZATO, La reazione borbonica in Basilicata nel 1861. La caduta del Regno borbonico e l’ opinione pubblica in Basilicata, in "Rivista storica Lucana", Potenza, v. I, fascicoli 1 e 2, dic. 1900-gen 1901. Cit. in G. D’ANDREA, La Basilicata nel Risorgimento, Fonti e Studi per la storia della Basilicata, Vol. V, Deputazione di Storia Patria per la Lucania Potenza 1981, pagg 234-235.

(22) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag. 290.

(23) Ivi, pag. 297.

(24) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata, vol. II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 562. Per le conclusioni della Gran Corte Speciale della Basilicata, v. pag. 33, fonte: T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag.309.

(25) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata, Vol. II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 592.

(26) A. S. PZ.- Fondo Intendenza, cart. 1378, fasc. 163.

(27) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pagg. 341- 369.

(28) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata, Vol . II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 593.

(29) T. PEDIO, Storia della Basilicata raccontata ai giovani, Vol. I, Appia 1 Editrice, Venosa 1997, pag 376.

(30) Ivi, pag. 379.

(31) D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata, Vol. II , Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 601.

(32) Ivi, pag. 598.

(33) Considerando che lo svolgimento della votazione fu la stessa nei vari centri della Basilicata, PESCE descrive lo svolgimento della votazione nel giorno del plebiscito a Lagonegro, trascrivendo dal verbale della votazione trovato nell’Archivio del Comune di Lagonegro: "...innanzi l’atrio suddetto si è una panca con tre urne, una delle quali in mezzo vuota per ricevere i voti, un’altra a destra contenente i bollettini col SI, e l’altra a sinistra contenente i bollettini col NO: Radunato il popolo in comizio avanti l’atrio suddetti, dal Sindaco Presidente, dopo essersi dispensate le tessere ai votanti, si è letto il plebiscito ad alta voce, cioè: Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e i suoi legittime discendenti, e si è specificato che delle tre urne situate sulla panca, quella a destra contiene i voti del SI per l’affermativa, quella a sinistra contiene i voti del NO per la negativa, e quella di mezzo è vuota per deporvi i voti. Ciascuno è libero di dare il SI O IL no a suo piacimento..." C. PESCE, Storia della città di Lagonegro , ed. Pansini, Napoli 1913, pag. 416

(34) "Dolorosissimo spettacolo ha offerto ed offre il paese e di cui è certo impossibile il farsi idea a chi non conosce i luoghi, l’indole e il costume degli abitanti: La miseria e la rozzezza del popolo, la assoluta mancanza di strade, di mezzi di comunicazione, i grandi continui boschi... la mancanza di tutto ciò che caratterizza la civiltà attuale concorrono a rendere tale una immagine da far dimenticare che si vive nella seconda metà del sec. XIX. La campagna è deserta...gli agricoltori vivono agglomerati nei paesi, in comune coi loro animali, in certe casupole...Le vie sono putride per una melma che non prosciuga mai, deserte e percorse da ragazzi scarni, infermi e seminudi... La plebe è generalmente più proclive al saccheggio e alla rapina, aspetta con malcelata impazienza l’avvicinarsi dei briganti, spesso li invita e in molti comuni fa con essi causa comune... I reazionari, poi... fanno in nome di Francesco II le più strane promesse, e le masse, sempre più credule, vi prestano fede. Queste sono le cause principali per cui la plebe si mostra propensa ai briganti... S’ha da sperare che l’arrivo di nuove truppe e l’esempio della triste fine di coloro che hanno preso parte al brigantaggio, faranno fare meno ai malintenzionati, e le masse si persuaderanno che il governo è saldamente costituito e che l’annunzio dell’imminente ritorno di Francesco II, e la presa di Napoli e lo sbarco di 10 mila borbonici sono arti scaltre dei reazionari che profitteranno dell’ignoranza loro per farne sicuro istrumento dei rei disegni..." in A.S.PZ, "Brigantaggio",Relazione del Prefetto di PZ Giulio De Rolland al Ministro degli interni, 1 dicembre 1861, cart. I, fasc. 12.

(35)"... Motivi di indole geografica, economica e sociale spiegano anche troppo il sorgere e lo svilupparsi di una tal malattia....la Basilicata dal tempo degli Svevi in poi era stata la più trascurata fra le provincie meridionali; rarissimi erano stati i suoi rapporti col governo centrale e col resto d’Italia, difficilissimi gli scambi fra paese e paese all’interno della regione. Nel 1863 essa aveva 495 Km di strade ruotabili sopra una superficie di 10mila Kmq; su 124 comuni 91 erano completamente sprovvisti di strade; le sole che essa avesse erano quelle da Melfi a Potenza, da Potenza a Salerno, da Sicignano a Lagonegro.La strada da Potenza a Matera era interrotta a Grottole; nessuna via di comunicazione vi era verso il mar Ionio..."

G. LUZZATO, La reazione borbonica in Basilicata nel 1861. La caduta del Regno borbonico e l’ opinione pubblica in Basilicata, in <<Rivista storica lucana>>, Potenza, v. I, fascicoli 1 e 2, dic. 1900-gen 1901. Cit. in G. D’ANDREA, La Basilicata nel Risorgimento, Fonti e Studi per la storia della Basilicata, Vol. V, Deputazione di Storia Patria per la Lucania Potenza 1981, pagg 232-233.

INDIETRO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO II

Contesto Socio-economico del mezzogiorno e della Basilicata preunitari

Prendere atto dell’eredità che il Mezzogiorno portava con sé al momento dell’Unificazione può risultare utile per determinare il quadro di riferimento generale nel quale, alla luce delle specifiche situazioni socio-economiche, vengono a delinearsi le cause e le conseguenze del fenomeno dell’emigrazione. La vita economica e sociale del Regno risulta essere fortemente condizionata e influenzata dalla legge del 2 agosto 1806, con la quale il governo di Giuseppe Bonaparte abolì la feudalità del Regno di Napoli. Con l’eversione della feudalità i baroni diventano proprietari del feudo e dei demani. I feudi si trasformano in proprietà allodiale o burgensatica, ossia proprietà libera da ogni servitù e da ogni peso. Il demanio veniva messo a coltura dopo essere stato quotizzato dietro pagamento di censo al comune, ma chi non poteva permettersi questa acquisizione non poteva esercitare i diritti di pascolo e di semina, stabiliti e praticati prima dell’eversione sui demani civici. Dall’erosione di strutture che costituivano le basi del sostentamento materiale dei contadini, identificati come "bracciali" perché in possesso di un unico fattore di produzione: le braccia, venne a determinarsi un ulteriore danno rispetto a quello preesistente della servitù feudale; comunanze, demani ad usi civici, utilizzazione delle terre ecclesiastiche e l’aggravarsi dell’alterazione dei quadri ambientali dovuti al mancato rispetto dell’equilibrio tra coltura-bosco-pascolo peggiorarono le condizioni, già precarie, di una società in prevalenza contadina. Eliminato come ceto, in realtà il baronaggio sopravvive come forza sociale in grado di condizionare e determinare i rapporti produttivi: sono i soli a potersi permettere di pagare i censi ai Comuni, appropriandosi di vaste estensioni di demani. Gli ex feudi, con tali leggi, divengono di piena e libera proprietà e la classe degli ex feudatari è sempre più assorbita dai profitti ricavabili dai grandi patrimoni accumulati, ma preferiscono non dare destinazione capitalistica al loro denaro (1), pertanto i rapporti di produzione e le destinazioni colturali non subiscono grandi trasformazioni. I contadini sempre più ai limiti della sopravvivenza, accettavano con pacata rassegnazione rapporti capaci di assicurare l’indispensabile sostentamento. Nonostante il Real Decreto del 4 settembre 1809, con il quale si ordinava la vendita all’asta pubblica dei beni dello Stato le terre continuavano a restare in proprietà dei vecchi possessori. Il Decreto Reale non trovava attuazione per vari pretesti, ma soprattutto per la cattiva volontà delle autorità locali preposte alla sua esecuzione che avevano interesse a far perdurare uno stato di cose dalla cui alterazione non avevano nulla da guadagnare (2). Del resto distribuzioni di terre vennero fatte eseguire in applicazione della legge 30 Aprile 1812, distribuzioni, invero, molto esigue e non tali da poter migliorare il tenore di vita del proletariato lucano privo di capitali da investire su tali terreni. Il ministro dell’Interno Zurlo aveva compreso che non bastava dare la terra al contadino, ma occorreva mettere a sua disposizione il capitale circolante necessario all’esercizio dell’attività agricola, in una circolare del 1811, raccomandava agli Intendenti di cercare dei mezzi efficaci per eliminare simili ostacoli, contrari ai progressi dell’agricoltura, sollecitava a fare in modo che qualche luogo di pubblica beneficenza, qualche Monte, od altro pubblico stabilimento avesse potuto offrire fondi ed agevolare ai contadini le prime spese e fornire le prime sementi (3). Molti demani restavano indivisi od usurpati. L’Intendente il 20 maggio 1836 comunicava che un reale rescritto del 24 febbraio 1836 ordinava ai sindaci e decurionati di compilare "uno stato di tutte le usurpazioni commesse a danno dei comuni, tanto sui fondi demaniali che su quelli patrimoniali"(4). Nel discorso pronunziato in occasione dell’apertura del Consiglio Provinciale il 15 maggio 1845, l’Intendente lamentava che i Comuni di Basilicata ben poco avessero fatto per dare esecuzione alla legge sulla divisione di tutti i demani ex feudali ed ecclesiastici (5). In data 12 luglio 1846, lo stesso Intendente emanava nuove disposizioni per la ripartizione dei demani. Ma il problema non trovò pratica risoluzione e una nota del Ministero dell’Interno del 1848 richiamava l’attenzione dell’Intendente di Basilicata affinchè. "... le usurpazioni si rivendichino, le divisioni demaniali si eseguano..." (6). I contadini assistevano alle ingiustizie che si commettevano ai loro danni senza ribellarsi ma probabilmente serbavano in cuore un risentimento profondo contro coloro che frustravano il loro persistente bisogno di terra, di quella terra che poteva dar loro il sostentamento. I rapporti proprietario-coltivatore divennero sempre più impersonali, perdendo il contenuto paternalistico e protettivo, l’affittanza coltivatrice con canoni fissi in natura o in denaro divenne la forma più diffusa e le clausole si fecero dettagliate e favorevoli al proprietario. Il contadino non si preoccupava di quanta parte del raccolto doveva corrispondere al proprietario, il suo interesse era diretto a quanto gli restava per sostenere se stesso e la famiglia; accadeva spesso che l’irregolarità del raccolto, dovuta all’instabilità climatica, alle condizioni pedologiche non sempre favorevoli ed alle tecniche colturali poco adeguate, non consentisse il pagamento dell’estaglio, per cui il contadino diveniva debitore ed era costretto ad ipotecare il futuro raccolto o a ricorrere al prestito di denaro ad usura. L’inserimento nel circolo vizioso debito-ipoteca sul raccolto/prestito- debito era automatico e la spirale che proiettava il contadino verso situazioni di miseria fluttuante diveniva sempre più insostenibile. Alla ricerca di condizioni che assicurassero la sopravvivenza, la mobilità delle popolazioni agricole diviene una costante del Mezzogiorno, le migrazioni stagionali erano tipiche: nel cosentino i "vanghieri" si spostavano nelle provincie di Catanzaro e Reggio e spesso finanche in Sicilia, da Lecce e da Taranto si spostavano i potatori, da Potenza si riversavano al Tavoliere delle Puglie i mietitori, mentre affluivano nella pianure cerealicole del melfese e del materano mietitori, reclutati con contratti stipulati tra i conduttori delle grandi masserie e gli "antenieri" gia all’inizio dell’anno solare (7). La conformazione del suolo, il regime irregolare dei fiumi , l’instabilità climatica, la mancanza di commercio dovuta alla carenza di vie di comunicazione, risultavano cause determinanti della miseria del Mezzogiorno, aggravata e resa insostenibile dal sistema di riscossione del canone delle terre avente ad oggetto i cereali. Questo sistema di riscossione non permetteva di diversificare le produzioni agricole, in quanto i cereali erano indispensabili per corrispondere ai proprietari del terreno il canone (8). Generalmente il sistema produttivo era caratterizzato da una variabilità colturale capace di soddisfare il fabbisogno alimentare della famiglia coltivatrice. Spesso i fondi alberati venivano coltivati a cereali o legumi trascurando l’equilibrio richiesto tra esigenze del suolo e quelle del soprassuolo. Si trattava di un’agricoltura poco produttiva e progressivamente sempre meno in grado di soddisfare i fabbisogni, soprattutto per la pressione esercitata dalla popolazione in crescita. All’aumento numerico della popolazione corrispondeva una maggiore richiesta di risorse produttive, ciò tradotto in termini agricoli significava sfruttamento e ampliamento dello spazio di produzione, considerata la stazionarietà della produttività dovuta alle non adeguate tecniche agronomiche e alla carente, e talvolta assente, meccanizzazione. Vaste superfici di pascoli, boschi furono dissodate ed adibite a coltura (9). In Basilicata, in deroga alla legge forestale del 1826, si destinavano a coltura terreni in pendio con i quali non si riusciva a far fronte alle aumentate richieste di produzione ma si aggravavano i già preoccupanti problemi di dissesto idro-geologico. La rapida e non controllata rottura degli equilibri ambientali ebbe i suoi effetti sul territorio: le alture private del manto forestale furono interessate da processi di erosione, ricorrenti furono le frane, i corsi d’acqua non controllati crearono impaludamenti e ristagni. La situazione socio-economica dell’area venne ad essere direttamente determinata dall’ambiente idro-geologico di riferimento. Durante il decennio francese vengono istituite in ogni provincia del Regno le Società di Agricoltura, tale istituzioni permettevano agli studiosi di occuparsi dei problemi economici della provincia (10). Il primo novembre 1810 in Potenza venne inaugurata la Società di Agricoltura della Provincia di Basilicata, G. Grandinetti , V. Pascale e G. Viggiani discutono delle condizioni in cui versano l’agricoltura e le manifatture nei paesi lucani. L’agricoltura del tempo era soggetta a pratiche consuetudinarie perlopiù arcaiche. La superficie agricola, limitata nella sua estensione, era caratterizzata da una estrema promiscuità colturale. Poco conosciuto era l’avvicendamento colturale e proibitivo il riposo infracolturale e la pratica della rotazione. Le basse rese, oltre al clima, erano da imputarsi a tecniche di produzione poco sviluppate: l’uso del vecchio aratro a chiodo che sfiorava soltanto il terreno impedendo la restituzione dell’humus asportato dalla precedente coltura; spesso il grano si seminava su terreni nemmeno arati, coltivati in precedenza a fave o a granturco nella parte montuosa o a cotone nella parte pianeggiante. Le condizioni della Provincia vengono esaminate per rispondere ai quesiti per la Statistica del Regno di Napoli, disposta da G. Murat nel 1811 e completata con la restaurazione dei Borboni, coordinatore delle relazioni statistiche per la provincia di Basilicata fu Giulio Corbo, il quale non riuscì a descrivere la condizione unitaria dello stato economico della Basilicata limitandosi ad inviare a Napoli i dati relativi ai singoli paesi della Provincia (11). Ma questo fu sufficiente ad attestare lo stato di profonda miseria materiale e di abominevole precarietà della popolazione. Apparve subito chiaro che l’eversione della feudalità non aveva migliorato in maniera sostanziale la situazione , al contrario in alcuni casi l’aveva peggiorata: gli usi civici erano stati limitati, gli enti religiosi privati dei loro beni non sostenevano più la povera gente con aiuti ed elemosine. Le vie di comunicazione insufficienti e malsicure, non favorivano le relazioni sociali e lo sviluppo: le difficoltà delle comunicazioni, l’assenza di scambi commerciali che impediva l’approvvigionamento delle materie e degli utensili necessari al progresso costringevano la popolazione a provvedere direttamente, e con i soli mezzi disponibili, ai propri bisogni. Soltanto nei centri più popolati vi erano "mastri fabbricatori, mastri falegnami, ferrari e scarpari per quanto basta al comodo del pubblico"(12) Lo stato di miseria in cui vivono artigiani e contadini influenza anche gli altri strati sociali, costretti per conseguenza alle relative privazioni. I risultati dell’inchiesta fanno notare che in Basilicata la maggioranza della popolazione è dedita all’agricoltura che sola riesce a fornire i mezzi per sostenersi in vita. Le rare e scarse produzioni manifatturiere non trovano sbocco, oltre che per carenze di strade anche per la "...rozzezza dei popoli e perché gli artieri si adducono ad altre cure per cercare di poter far fronte alle necessità ed ai bisogni più indispensabili delle proprie famiglie..."(13). Prevalentemente familiare la produzione manifatturiera provvede alle ordinarie necessità della popolazione: nei centri più progrediti si svolgono contemporaneamente più mestieri, o mestieri diversi nelle diverse stagioni; spesso i contadini nel periodo invernale s’impegnano in attività di filatura o tessitura, falegnameria od altro. Ma nonostante l’adattabilità ai diversi mestieri e l’impegno continuo la situazione resta comunque miserevole. Alla filatura si dedicano soprattutto le donne, di solito le filatrici lavorano a cottimo riuscendo a produrre, in media, circa un a libbra di lino al giorno. Difficilmente vengono assunte a giornata, guadagnando un massimo di 5 grani, pari a 21 centesimi (14). In quasi tutti i paesi della Basilicata, nel periodo della statistica, il lino è tra le colture più diffuse ed insieme alla lana ed al cotone, costituisce una delle materie maggiormente impiegate nelle manifatture tessili locali. La tecnologia dei telai è ancora poco sviluppata "...A Saponara - l’attuale Grumento Nova - si conosce il meccanismo della specola; a Calvera e nella zona di Sant’Arcangelo si fa uso della spola... Moliterno, San Severino nel lagonegrese ed in pochi altri centri della Regione si conosce e si adopera il meccanismo della navetta volante o saetta..." (15). La produzione dei manufatti di lino è tale da non soddisfare nemmeno il consumo locale. In alcuni paesi del distretto di Potenza e di Matera è praticato l’allevamento del baco da seta, ma l’industria serica registra una certa diffusione solo in alcuni paesi del lagonegrese. Anche la produzione di tale settore è insufficiente al consumo locale "...oltre alla mancanza d’istruzione, si oppongono all’avanzamento di tali manifatture il trovarsi più vantaggioso il comprarle a Napoli..."(16). A complicare questa già insostenibile situazione si aggiunge la crisi agraria del 1815-17. Non limitata solo al Regno di Napoli ma dato comune a tutto il continente europeo: iniziò con un forte rialzo dei prezzi verificatosi nella primavera-estate del 1815. Inizialmente a provocare il rincaro delle derrate furono le vicende politico-militari, ma nei mesi di maggio e giugno si prospettò la possibilità di uno scarso raccolto. La causa fu attribuita alle condizioni meteorologiche: piogge insistenti e nebbia che compromisero il buon andamento della vegetazione (17). Di fronte al profilarsi sempre più minaccioso della crisi e alle ripetute sollecitazioni degli Intendenti, il governo cercò di adottare provvedimenti che servissero ad arginare gli effetti più gravi della crisi, emanando decreti a breve scadenza temporale - anche se periodicamente rinnovati -, sia per non suscitare allarme nella popolazione, sia per non ledere gli interessi dei ceti proprietari che, con l’imposta fondiaria, erano il sostegno fondamentale delle finanze statali. Il problema della circolazione del grano era un assillante questione che si presentava al governo, la libertà del commercio era ritenuta una conquista estremamente importante, ed il governo cercò di farsi sostenitore delle tesi liberiste, contro le tesi protezionistiche che s’innalzavano dalle diverse parti del Regno. D’altra parte emergeva il problema di intervenire a favore delle classi popolari, soprattutto per problemi di ordine pubblico. Non mancarono infatti nelle province episodi di protesta e violenza, causate dall’elevato prezzo del grano e dalla cattiva qualità del pane e soprattutto dal verificarsi di grosse incette tese a far aumentare i prezzi. Emerge dalla crisi del 1815-17 il problema di fondo che ostacolava l’agricoltura del Regno: la mancanza di capitali da investire sulle terre. In quasi tutte le province infatti la carestia significò indebitamento contadino e crisi delle piccole proprietà. Per i contadini dediti ad un’agricoltura di pura sussistenza o soggetti ai grandi commercianti, la crisi comportò una restrizione delle semine ed una forte contrazione nei consumi alimentari, con il ricorso a surrogati spesso dallo scarso potere nutritivo. Pochi furono i miglioramenti e le trasformazioni colturali si ebbero con la crisi: le società economiche cercarono di favorire la semina del grano a solchi, che avrebbe garantito un risparmio di semenza di almeno tre quarti, e coadiuvarono il governo nell’opera di propaganda a favore dell’estensione della coltivazione delle patate. La crisi agraria del 1815-17 sembra essere stata l’ultima crisi con andamento tipico: sottoproduzione, carestia, alti prezzi, mortalità elevata; questo andamento tipico appare superato negli anni successivi con l’apertura delle frontiere ai cereali stranieri e con il massiccio afflusso di grani russi sui mercati europei: tale rivoluzione commerciale eliminò il pericolo di carestie generali e devastatrici (18). La difficile situazione annonaria ebbe temine solo con i raccolti del 1817. I prezzi delle derrate diminuirono notevolmente su tutti i mercati; nel 1818 si verificò una diversa crisi del settore agricolo dovuta alla sovrapproduzione ed ai bassi prezzi per la concorrenza dei grani russi sui mercati europei. Ma in Basilicata i prodotti dell’agricoltura, della pastorizia e delle manifatture, soltanto eccezionalmente superano l’autoconsumo e vengono destinati al commercio, una modestissima attività commerciale si esplica nell’alta valle dell’Agri dove il commercio è favorito dal facile raggiungimento dei paesi del napoletano attraverso la strada che congiunge le campagne di Marsiconuovo, di Moliterno e di Tramutola alla valle del Tanagro da cui è facile raggiungere la valle del Sele e la strada che da Salerno porta a Napoli ed in Terra di Lavoro (19). La produzione manifatturiera è così irrilevante che la "Basilicata è la sola provincia del Regno che non partecipa alla "Esposizione delle Manifatture del reame" tenutasi in Napoli nel 1834" (20). La precaria situazione economica sollecita, nel febbraio 1830, il presidente della Società Economica di Basilicata A. Lombardi, a diffondere una circolare diretta a raccogliere notizie sullo stato dell’agricoltura lucana ed a prospettare l’opportunità di migliorare i metodi delle tecniche agronomiche adottati nella regione al fine di indurre i proprietari e i contadini a seguire le norme scaturite dalle esperienze e dalle ricerche scientifiche svolte per il miglioramento dell’agricoltura lucana. Allo stesso fine è diretta l’opera del successivo presidente della Società Economica, Vito Antonio Filippi, che si fa promotore della pubblicazione del "Giornale economico letterario della Basilicata", organo della Società che sollecita gli studiosi lucani ad attivarsi per la ricerca delle cause della persistente miseria che interessa la Regione. Gli studiosi lucani attraverso i loro studi acquisiscono la consapevolezza e rendono atto che il problema economico è strettamente legato a quello sociale e che l’inferiorità economica in cui versa la Basilicata è diretta conseguenza delle condizioni di vita di una popolazione prevalentemente agricola costretta a coltivare un suolo poco fertile o addirittura sterile, una terra in cui se vi è acqua in abbondanza i ristagni sono usuali e gli acquitrini malsani tengono lontano i lavoratori, e se l’acqua manca la situazione è ancora più avversa perché la siccità rende improduttivo il suolo. A questi mali si aggiunge l’isolamento dovuto alla carenza di strade di collegamento tra i vari centri abitati e tra la Basilicata e le province limitrofe. L’Attivismo della Società Economica di Basilicata per risolvere i problemi legati all’agricoltura è sempre più impegnativo: V. d’Errico divenuto presidente, nel discorso tenuto il 30 maggio 1844, propone l’opportunità di istituire premi di incoraggiamento per sviluppare l’agricoltura e l’attività artigiana, sollecita iniziative dirette a lenire la disoccupazione usufruendo di agevolazioni del credito agrario dirette a dotare l’agricoltura degli strumenti necessari ed indispensabili per trasformare i poco evoluti metodi seguiti nelle pratiche di messa a coltura e di coltivazione (21). Il d’Errico individua le cause della pubblica miseria nel territorio lucano nell’instabilità climatica, nei fattori di precarietà idrogeologica, nella carenza di infrastrutture; cause avallate e persistenti a motivo del disinteresse delle autorità istituzionali, scarsamente documentate sui bisogni e le necessità della popolazione. A partire da queste consapevolezze la Società Economica di Basilicata interviene a sollecitare la discussione nelle assemblee annuali del Consiglio Provinciale (22), ma nessuna proposta concreta viene formulata e di conseguenza nessun rimedio viene attuato. Sebbene, lo stesso Intendente di Basilicata, Duca della Verdura, dichiara :"il fine che mi sono proposto reggendo la Basilicata , si è lo sviluppo progressivo delle dovizie naturali molte che la medesima contiene. Ella, Signor Presidente... dotto di dottrine e di sperienza agronomica , ben antevede qual interessante posto potrà la Lucania occupare nella economia del Regno conseguendo lo scopo" (23). Tuttavia, sotto l’aspetto strettamente economico il Regno delle due Sicilie registra tra il 1815 ed il 1848 un certo sviluppo. Era, come si dice, uno sviluppo a "macchia di leopardo", dove il dato positivo si concentrava su aree limitate mentre il quadro generale manifestava condizioni precapitalistiche ed arcaici rapporti di produzione non del tutto dissimili, però, da altre aree più economicamente sviluppate della Penisola. Le emergenze pur avvertite e discusse non trovavano un reale innesto con la trasformazione economico - produttiva del Regno in senso industriale. Erano, infatti, cresciute, le attività cantieristiche, metallurgiche , tessili, seriche, laniere, mercantili, ecc. Lo sviluppo di queste attività, però, era circoscritto ed assistito, beneficiandone soprattutto la capitale e il suo hinterland. Mancò, dunque il processo di omogeneizzazione del Regno. Non bisogna trascurare che il Mezzogiorno è un’area prevalentemente montana e collinare. Le poche zone pianeggianti paludose e malariche dissuadevano lo stanziarsi della popolazione, instaurando il circolo vizioso tra spopolamenti e mancata gestione del territorio che si rifletteva sempre più in un crescente disordine idraulico. Per risanare il territorio furono necessari progetti di "bonifica" consistenti in opere di sistemazione e rimboschimento, occorreva creare strade nelle zone pianeggianti per richiamare popolazione e intensificare le coltivazioni. Venne varata la legge dell’11 maggio 1855 con la quale venne creata la "Amministrazione Generale delle bonificazioni" e le aree da bonificare vennero raggruppate in 46 Confidenze. Ma questa legge non ebbe molto tempo per essere applicata; dopo l’Unificazione l’attività bonificatrice venne considerata un fatto privato, da lasciare alla libera iniziativa dei proprietari (24) Dal punto di vista politico il governo borbonico pur sforzandosi di favorire la borghesia, ben poco fece per trasformare la borghesia terriera in borghesia capitalistica, perciò la vita economica della maggior parte del Regno rimase profondamente arretrata. Il Candeloro ha sostenuto che gli uomini della borghesia meridionale avvertirono abbastanza chiaramente la contraddittorietà della politica borbonica e stimolarono nella loro classe uno stato d’animo di opposizione al governo(25). La generale miseria può spiegare anche per il Mezzogiorno, "...la violenza e l’estensione che nel 1848 ebbero i moti contadini ..." (26). Nei sudditi borbonici pesava l’azione asfissiante della rendita agraria. In questa condizione di penuria generale del Mezzogiorno la situazione della Basilicata risultava ancora più critica: l’economia agraria era stata messa a dura prova da gravi carestie esasperate periodicamente dalle frane del territorio, sconvolgente fu quella che interessò il paesaggio di Marsiconuovo nel 1843. Nel 1851 un’invasione di bruchi distrusse i raccolti della zona metapontina, nello stesso anno un terribile terremoto provocò 671 morti e circa un milione e duecento mila ducati di danni (27). Nessuno intervento economico da parte del governo sostenne la popolazione interessata, la quale tre anni dopo fu infettata dal colera. Ad inasprire l’immiserimento intervenne nella notte tra il 16 e il 17 dicembre 1857 un terribile terremoto che arrecò immani danni e sconvolgenti lutti(28), anche questa volta non ci fu nessun azione rilevante di soccorso da parte del governo. Il malcontento per il governo borbonico lievitava, nonostante gli interventi infrastrutturali: la costruzione della prima linea ferrata in Italia nel 1839, la Napoli-Portici, e nel 1842, la Napoli-Caserta e l’introduzione tecnologica del telegrafo a Lagonegro nel 1857. I vari Intendenti che si susseguono nella Provincia durante l’ultimo periodo borbonico non possono fare a meno di considerare gli studi e le tesi che animano la Società Economica, anche se continuano ad evidenziare nelle loro relazioni la ricchezza della regione loro affidata non possono fare a meno di notare lo stato in cui vive la popolazione e condannare il sistema con cui viene praticata l’agricoltura. Nel 1857 l’Intendente A. Rosica prende atto della realtà, denotando una situazione che non prospetta di certo la ricchezza della regione (29): pochissime case palazziate, quasi tutte le abitazioni costituite da vani inabitabili, molti dei quali situati al di sotto del livello stradale, prive di fognature e ancora in attesa dell’acquedotto, spesso addossate sulle cime di monti inaccessibili per mancanza di strade e a rendere ancora più misera la situazione la mancanza di ogni spirito di iniziativa da parte della popolazione. E nel 1858 l’Intendente della Provincia, con una circolare dell’ 8 ottobre, sollecita i Sindaci dei paesi lucani a contribuire alla realizzazione di progetti per la costruzione di infrastrutture, principalmente strade, che favorendo la comunicazione, sviluppando il commercio e creando occasione di lavoro per i braccianti avrebbero contribuito a migliorare le condizioni della classe operaia (30). Le strade progettate nell’ultimo decennio borbonico non riescono a trovare pratica attuazione; la realizzazione e l’ampliamento dei progetti sarà curata "tra inaudite difficoltà" dal Consiglio provinciale di Basilicata (31). Sul finire del 1859 l’Intendente della provincia promuove un indagine per uniformarsi alle direttive impartite da Napoli atte a dimostrare l’interesse del Borbone e del potere centrale ai problemi della Provincia. Leonardo Morelli, succeduto al Rosica nell’Intendenza di Potenza, invia nei paesi della provincia funzionari con l’incarico di sentire e raccogliere le lamentele della popolazione. L’indagine non è estesa a tutti i paesi della provincia, ma i dati reperiti, soprattutto per i paesi del Lagonegrese, ispezionato da Raffaele Aiello consigliere dell’Intendenza a Potenza e delegato ad indagare con funzioni di Viceintendente, riescono a fornire la chiara immagine del degrado e dell’abbandono determinato dal non interesse del potere centrale (32). Pessimo è lo stato degli edifici pubblici e delle chiese, in molti paesi manca il cimitero, non sono presenti fontane pubbliche e la presenza di molini è rara per cui la gente è costretta a sfarinare i cereali con metodi primitivi. Lo stato della viabilità è disastroso e non permette lo scambio con i paesi limitrofi , mancano le strade ed ove esistono la mancata manutenzione e il dissesto idrogeologico le ha rese impraticabili. Ai Comuni mancano i fondi per intervenire nei miglioramenti infrastrutturali nonostante l’esosità dei dazi comunali sui beni di prima necessità - sul macinato, sulle carni macellate, sul vino ed altri generi - unica fonte di entrata in molti Comuni della Provincia. Ovunque si sollecita l’intervento delle Autorità Provinciali per l’apertura di nuove strade e per la riattivazione di quelle impraticabili, per la costruzione di nuovi ponti. L’Aiello non manca di denunciare il suo allarmismo per i disboscamenti incontrollati e lo scarso interesse per la tutela del patrimonio silvano, incurie che accrescono sempre di più il pericolo di gravi disastri e frane. Molte strade sono rese impraticabili dalle frane scese a valle, il conseguente impedimento al deflusso dell’acqua e il ristagno di materiali accumulati sono pregiudizievoli per la salute pubblica. Il delegato all’indagine prende atto della situazione e delle richieste che vengono sollevate e promette il sicuro e sollecito intervento da parte del Sovrano. Questa situazione economico ambientale denota un esasperato squilibrio fra le risorse presenti e disponibili e la richiesta di bisogni della popolazione. Situazione che anche dopo l’Unità persiste, rimarcando ed ampliando le divergenze di livello economico e civile che continuano a sottolineare la "divisione" sociale dell’Italia. Nel primo decennio dell’Unità la situazione della Basilicata non offre un quadro molto diverso da quello presente prima dell’unità d’Italia. Attesta il Prefetto di Potenza: " i paesi sono quasi tutti posti in cima a erte montagne; l’accedervi è difficile; quindi nessuno o scarso lo scambio di prodotti e di idee: rimangono intatti i vecchi pregiudizi, non è in modo alcuno modificata la natura aspra e quasi selvaggia"(33). Le regioni meridionali conservavano notevoli residui di carattere "feudale": la grande proprietà terriera, il latifondo, non corrispondeva alla grande azienda agricola di tipo capitalistico, ne era l’opposto. Il latifondo di estensione media di circa 1.000 ettari, ma con punte massime sino a 6.000 ettari, era diviso in piccoli appezzamenti sui quali le famiglie contadine lavoravano con propri mezzi di produzione: aratri, buoi, cavalli e soprattutto braccia, corrispondendo al proprietario una parte del prodotto che esse coltivavano a proprio rischio. Il proprietario della terra, identificato come il "padrone", percepiva in natura o in denaro la rendita fondiaria senza investire capitali di gestione o di miglioramento, al "padrone" erano dovuti una serie di tributi e prestazioni fissati da secolari consuetudini. Si trattava di una forma di economia seminaturale legata ad un tipo di rapporto sociale che si basava sulla dipendenza personale perché i coltivatori della terra producevano praticamente per il sostentamento familiare e per il pagamento al proprietario del canone in natura, date le esigue rendite produttive venivano ad essere esclusi dal "mercato" configurato come la struttura dove i rapporti di produzione si spersonalizzano consentendo un potenziale accumulo di capitale e l’avvio ad eventuali forme di produzione capitalistiche. Il malcontento delle popolazioni meridionali ebbe le sue manifestazioni eclatanti e sanguinose , sin dallo stesso 1860, attraverso sommosse verificatesi in Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata, che culminarono nei moti a carattere separatistico di Palermo nel 1866. Massima espressione di questo malcontento è da considerarsi il brigantaggio che metteva a nudo un male antico delle popolazioni meridionali: la loro disgregazione sociale, derivante e giustificata da una cronica condizione di penuria economica, accentuata dalle costrizioni del nuovo regime, complice del quale erano ritenuti i borghesi o "galantuomini" grandi latifondisti, dopo il 1860, detentori gelosi del potere amministrativo locale esercitato a proprio ed esclusivo vantaggio. L’Unità tanto agognata appariva carica di delusioni, asservita agli interessi della trionfante borghesia, indifferente alle speranze e ai bisogni delle classi più misere e disagiate: gli incendi e le devastazioni dei simboli e degli uffici dello Stato sembravano essere la sola risposta che si potesse dare a quello Stato ostile, esoso percettore di imposte. Da parte dello Stato i problemi sociali ed economici del Mezzogiorno, ingigantiti dalla presenza del brigantaggio, saranno visti come problemi puri e semplici di sicurezza militare e di polizia. Il brigantaggio, dopo il 1870, sfocia nel determinante fenomeno dell’emigrazione (34).

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NOTE AL CAPITOLO II

(1)"...Ma una parte di uomini che, per un’industria circoscritta ed una severa economia, formava vistosi capitali, non apparteneva alla classe media che notammo, se non in certo modo, giacché non aveva né educazione né idea e nemmeno la volontà di elevarsi... era contenta, perché economizzava, ed era riconoscente di buona fede, quando si vedeva trattata con riguardi, ed aveva capitali che l’altra non aveva..." L. BLANCH, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in B. CROCE (a cura di), Scritti storici, vol. I, Bari 1945, pag. 42.

(2) " Malgrado la tanto premura, che il Governo ha dimostrato, e continuamente dimostra per vedere celermente terminata la ripartizione delle Terre Demaniali, nondimeno questa salutare operazione si vede camminare a rilento. Io mi sono avveduto, che per lo più le dilazioni, che si frappongono per ritardare o rendere affatto inutile l’esecuzione della Legge derivano per lo più da’ Signori Sindaci, e Decurionati, i quali per continuare a mantenersi nel possesso delle usurpazioni da essi, o da’ loro maggiori commesse a danno delle proprietà Comunali; o per godere il libero pascolo, e senza alcun pagamento, sulli fondi delle Comuni, oppongono degli ostacoli per non far eseguire la ripartizione..." in A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, ANNO 1810, Lettera del 16 dic. 1810 dell’Intentende di Basilicata Alli Signori Sottointendenti, Sindaci ,e Decurionati.

(3) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, ANNO 1811.

(4) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, ANNO 1836, Lettera del 20 maggio 1836 dell’Intentende di Basilicata A’ Signori Sindaci della Provincia, pag. 113.

(5) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, ANNO 1845, pag. 211.

(6) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, ANNO 1848, pag. 346.

(7) F. ASSANTE, Proprietà, impresa e mano d’opera nell’agro calabro-lucano tra ‘700 e ‘800, in: Rapporti tra proprieta’, impresa e mano d’opera nell’agricoltura italiana dal IX secolo all’unita’, Verona 1984, pagg. 513-514.

(8) T. PEDIO, Brigantaggio e questione meridionale, ed. Levante, Bari 1979, pag. 56.

(9) "… In un ambiente in genere privo d’acqua, senza alberi, dominato da terre argillose dove solo il grano cresceva bene, spopolato per la presenza della malaria o per le particolari forme dell’insediamento locale, le attività produttive della cerealicoltura estensiva producevano notevoli ricchezze per proprietari e grandi fittavoli, ma pochi effetti indotti sulle restanti economie, pochissime innovazioni, sull’assetto e strutture del territorio ..." P. BEVILACQUA, Breve storia dell’ Italia Meridionale dall’ Ottocento a oggi, Donzelli editore, Roma 1996, pag. 16.

(10) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, anno 1810, pagg. 51,52 e 53.

(11) "... La impreparazione allo studio delle questioni politico-economiche che caratterizza la cultura lucana nei primi anni dell’Ottocento, è ampiamente documentata proprio dal metodo seguito in Basilicata dal compilatore della ‘Relazione Statistica’ disposta da Gioacchino Murat per una completa e dettagliata ‘Statistica del Regno di Napoli’. Mentre nelle altre provincie le rispettive relazioni vengono compilate con metodo tale da fornire una esatta visione dello stato economico della zona, a Potenza non si è in grado di coordinare i dati raccolti ed a Napoli vengono inviate tante relazioni per quanti sono i paesi della provincia..." T. PEDIO, La Basilicata borbonica, Ediz. Osanna, Venosa 1986, pag. 19.

(12) Condizioni economiche artigianato e manifatture in Basilicata all’inizio del XIX secolo nella Statistica Murattiana In Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, a.XXXII (1963), pagg. 235-273; XXXIII (1964), pp 5-53. Cit. in T. PEDIO, La Basilicata borbonica, Ediz. Osanna, Venosa 1986, pag. 95.

(13) Inchieste e studi economici sulla Basilicata durante la Dominazione Borbonica In " Annali del Mezzogiorno", a. V (1965), pp. 11 ss. Cit. T. PEDIO, La Basilicata borbonica, Ediz. Osanna, Venosa 1986, pag. 21.

(14) Condizioni economiche artigianato e manifatture in Basilicata all’inizio del XIX secolo nella Statistica Murattiana In: <Archivio Storico per la Calabria e la Lucania>, a.XXXII (1963), pp 235-273; XXXIII (1964), pp 5-53. Cit. in T. PEDIO, La Basilicata borbonica, Ediz. Osanna, Venosa 1986, pag. 123.

(15) Ivi, pag. 123.

(16) Ivi, pag. 155

(17) W. ABEL, Congiuntura agraria e crisi agrarie, ed. Einaudi, Torino 1976, pag. 337.

(18) A. MASSAFRA, Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, Dedalo libri, Bari 1981, pagg. 388-389.

(19) Condizioni economiche artigianato e manifatture in Basilicata all’inizio del XIX secolo nella Statistica Murattiana In: <Archivio Storico per la Calabria e la Lucania>, a.XXXII (1963), pp 235-273; XXXIII (1964), pp 5-53. Cit. in T. PEDIO, La Basilicata borbonica, Ediz. Osanna, Venosa 1986, pagg. 155-156.

(20) T. PEDIO , La Basilicata durante la Dominazione Borbonica, In "Primo centenario della Stato Unitario - Contributi e ricerche storiche" a cura del Comitato Provinciale di Potenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano , F.lli Montemurro editori, Matera 1961, pag.83

(21) Cfr. T. PEDIO, La Basilicata borbonica, Ediz. Osanna, Venosa 1986, pag.26.

(22) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, anno 1847, Programmi scientifici (Estratto della deliberazione del 27 giugno 1847) pag. 576-577.

(23)A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, anno 1847, Discorso pronunziato dall’Intendente di Basilicata nell’apertura del Consiglio Provinciale (1° maggio 1847).

(24) P. BEVILACQUA, Breve storia dell’ Italia Meridionale dall’ Ottocento a oggi, Donzelli editore, Roma 1996, pag. 14.

(25) "...Il liberalismo meridionale fu frenato nella sua azione dal carattere prevalentemente terriero della borghesia, perciò la situazione di crisi che esisteva nelle campagne dove il profondo disagio delle masse contadine spesso sfociava nel brigantaggio, solo fino ad un certo punto poteva essere utilizzata dagli agitatori borghesi: infatti i proprietari erano spinti dal timore delle rivendicazioni contadine, a cercare un appoggio proprio in quel governo assolutistico che i patrioti avrebbero voluto abbattere o perlomeno riformare..." G. CANDELORO, Storia dell’Italia Moderna, vol. II, Feltrinelli ed., Milano1971, pag. 322.

(26) A. LEPRE, Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento, Ed. Riuniti, Roma 1974, pag.181

(27)R. RIVIELLO, Cronaca potentina dal 1799 al 1882, ed. Santanello, Potenza 1882, pag. 185 in: D. D’ANGELLA, Storia della Basilicata ,vol. II, Edizione Arti Grafiche E. Liantonio, Matera 1983, pag. 587.

(28) A. S. PZ.- Fondo Intendenza, cart. 1378, fasc. 163.

(29) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, anno 1857, Relazione annuale del Consiglio Generale della Provincia, letta dall’Intendente A. Rosica 5 maggio 1857, pagg. 265-310.

(30) A.S.PZ, Giornale dell’Intendenza di Basilicata, anno 1858, Circolare 8 ottobre del Viceintendente R. Aiello- Costruzione infrastrutture-.

(31) V. VERRASTRO, Cento anni di vita del Consiglio Provinciale di Basilicata, Potenza, Quaderni della Nuova Libreria, 1961, pagg. 8 e ss.

(32) Della inchiesta promossa nel 1859 dall’Intendente Morelli è fatto cenno nel fondo Prefettura 1860-1870, A.S.PZ, manca il testo della relazione finale. Per quanto qui riportato: T. PEDIO, Le condizioni della Basilicata in una inchiesta del 1859, In "Primo centenario della Stato Unitario - Contributi e ricerche storiche" a cura del Comitato Provinciale di Potenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano , F.lli Montemurro editori, Matera 1961, pagg. 119 -126.

(33) A.S.PZ,. - Fondo Ordine pubblico, b. 284, Relazione del Prefetto di PZ del 2 febbraio 1875.

(34) F.S.NITTI, Scritti sulla questione meridionale, Edizione Nazionale delle Opere, Vol. I, ed. Laterza, Bari 1968, pagg. 364-365.

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