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un episodio "Tipico" degli avvenimenti postunitari che caratterizzarono il Sannio: "IL 10 Agosto 1861 a PIETRELCINA"

di: Montella Carmine da: "Notabili, Clero, Contadini, Briganti nel Sannio Beneventano Postunitario" Rotary Club Benevento, Benevento 2001

 

Il 10 agosto 1861 fu, per Pietrelcina, un giorno di sangue. Nella notte parte da Benevento una colonna di soldati, agli ordini del colonnello Gaetano Negri. In contrada Mosti si divide, una parte si dirige verso Pescolamazza (Pescosannita), l'altra verso Pietrelcina. La comanda il maggiore Rossi, ed è formata da una compagnia di bersaglieri (capitano Teyas) ed una compagnia del 61° fanteria (capitano Malervini). Alle prime luci dell'alba giunge in vista del paese e subito si lancia all'attacco. I briganti della banda di Francesco Saverio Basile, detto Pilorusso, sono colti di sorpresa. Il combattimento è breve ed intenso. I briganti sono sgominati, messi in fuga, almeno trentacinque di loro restano sul terreno, uccisi. Quindici cavalli sono catturati. Dalla parte degli attaccanti, si registrano un caduto, due feriti e due dispersi. Anche il maggiore Rossi riporta una lieve ferita. Entrati in paese, i militari effettuano il rastrellamento. Invadendo le strade, sfondando le porte delle case, arrestano undici pietrelcinesi, di varia età, da settanta ai diciotto anni. Li conducono in piazza e lì, senza una parvenza di processo, li mettono al muro e li fucilano. Sono circa le dieci del mattino. Tutti muoiono all'istante. Eccetto uno, che morirà qualche ora dopo, verso mezzogiorno. Questo è l'epilogo sanguinoso di una vicenda di rivolta e di repressione cominciata tre giorni prima, in Pago Veiano. E' il 7 agosto. Si festeggia il protettore S. Donato. Molta gente segue la statua del Santo, gente del posto, gente venuta dai paesi vicini. La guardia nazionale fa ala alla processione. A un tratto, Antonio della Molinara, detto "zerpulo", nativo di Montecalvo, ma residente a Pago Veiano, ex soldato del disciolto esercito borbonico, sventola una bandiera bianca, grida "Viva Francesco II". Si raccoglie intorno a lui un "branco" di ex soldati. La gente si agita, altra ne viene da fuori a dare manforte ai rivoltosi. Si assale il posto della guardia nazionale, si brucia il tricolore, si distruggono gli stemmi sabaudi. Al loro posto vengono collocate le insegne borboniche. La reazione fa da padrona nel paese. Il giorno seguente, 8 agosto, nella chiesa parrocchiale si canta il "Te Deum", inno di ringraziamento al Signore per il ritorno del re Borbone. Intanto le violenze continuano. A farne le spese è il cavaliere Giovanni Pizzella, commerciante, possessore di due magazzini di cereali. Lo catturano, lo conducono nel bosco di Calise, lo incatenano, lo maltrattano, lo minacciano di morte e, solo dopo avergli estorto un riscatto di cinquecento ducati, lo lasciano libero. Il 9 agosto la situazione si complica e si aggrava. Giunge da San Giorgio la Molara la banda di Pilorusso, composta da circa quattrocento persone. E le violenze si fanno più efferate. Sono saccheggiate e incendiate: le case dei signori Polvere (Don Angelo, arciprete, liberale di vecchia data, tanto che, dopo i moti carbonari dell'820/21, era stato esonerato dall'incarico di insegnante pubblico, si salva a stento fuggendo in camicia. Il nipote, don Peppino, si rifugia nella stalla sotto un cumulo di letame); le case del notaio Bartolomeo Verderosa (sono incendiati anche documenti dello studio); le case di Salvatore Crovella, liberale facoltoso. Sono uccisi a fucilate due custodi alla dipendenza del cavaliere Pizzella, Michele Roselli e Nicola del Tufo. Il primo, di anni trentadue, ammazzato sulla pubblica via, il secondo, di anni quarantuno, lungo la strada di Molinello. Il cavaliere Pizzella è di nuovo arrestato dai briganti. Lo ammanettano, lo costringono ad assistere al saccheggio dei suoi magazzini. Come se non bastasse, lo legano alla coda di un cavallo e lo trascinano a Pietrelcina, col proposito di fucilarlo. Ma la fortuna lo aiuta. Alcune donne del paese, mosse a pietà, intercedono per lui presso i briganti, e gli salvano la vita. A Pietrelcina la reazione borbonica si manifesta in modi e tempi analoghi a quelli di Pago Veiano, ma con caratteristiche sue proprie. Al centro della reazione c'è una famiglia signorile, la più ricca e potente del paese, i De Tommasi. E in questa famiglia, la personalità che riveste un ruolo egemone è l'arciprete, .don Nicola. Egli è stato nominato parroco di Pietrelcina non dall'Arcivescovo di Benevento, come si potrebbe pensare, ma dal re di Napoli, Ferdinando II di Borbone, con decreto dell' 8 agosto 1840. È comprensibile, quindi, che sia legato alla causa borbonica. Già nel settembre 1860 sono scoppiati disordini a Pietrelcina contro il nuovo governo, e a fomentarli è stato don Nicola, tanto che viene condannato dal giudice di "Pescolamazza" e solo un indulto, emanato tempo dopo, lo salva dal procedimento penale. Il 7 agosto 1961 i borbonici pietrelcinesi insorgono e mettono in atto il solito rituale: abbattimento delle insegne del nuovo regime e sostituzione con quelle del vecchio. C'è in più, però, un tragico episodio. Nella notte del sette, alle ore quattro, in contrada Coste, è incendiata la masseria di Filippo Sanzamici, perché si era rifiutato di versare un contributo in denaro alla banda dei rivoltosi. Nell'incendio muore un figlio del Senzamici, Antonio, di anni ventotto. Il giorno seguente, 8 agosto, un gruppo di borbonici pietrelcinesi si reca a Pago Veiano e partecipa ai saccheggi, agli incendi, e ad altre vessazioni. Poi, assieme alla banda di Pilorusso e ai rivoltosi che ad essa si sono associati, rientra a Pietrelcina. Qui, notabili e popolani sono in festa. Antonio De Tommasi, fratello dell'arciprete, va incontro a Pilorusso e lo abbraccia. Da un terrazzino della sua casa, pronuncia un discorso di esaltazione delle gesta di lui e dei suoi uomini. Tutti entrano nel cortile e a tutti vengono distribuiti cibo, vino, denari. Il nipote Filippo, per mettere in cattiva luce i liberali e rivolgere contro di essi l'indignazione popolare, fa spargere la voce che si accingono a trafugare, per inviano a Torino, l'oro della Madonna, cioè gli oggetti d'oro, offerti dai fedeli, con cui è usanza "vestire" la Madonna della Libera, nella ricorrenza della sua festa che cade la prima domenica di agosto. La sera del 9 agosto, in Pietrelcina la reazione borbonica trionfa, coinvolge tutti, notabili, popolani, briganti nell'esultanza per il presente, nella fiducia per l'avvenire. La mattina seguente, come si è detto, il sanguinoso epilogo. L'analisi dell'episodio, mette in luce la dinamica delle componenti che entrano nel vortice della tragedia: ex soldati borbonici, clero, briganti, borghesi reazionari e borghesi liberali, soldati "nazionali". È evidente in questa fase l'ipoteca borbonica. L'ex soldato che, in Pago Veiano, dà il via alla rivolta, agisce secondo un piano prestabilito: rimettere le insegne borboniche al posto di quelle sabaude, disarmare la guardia nazionale, procurarsi denaro, dai possidenti favorevoli con le buone, con le cattive da quelli avversari. Egli sceglie bene il posto e l'ora: Pago Veiano, il giorno della festa, la processione del Santo. Una miscela esplosiva per la centralità del paese, il concorso di persone, la sollecitazione religiosa, il richiamo monarchico, la disponibilità alla violenza. Gli ex soldati borbonici si possono distinguere in due categorie, quelli che svolgono attività di collegamento tra i comitati borbonici e i loro rappresentanti con i nuclei reazionari locali, facendo propaganda, imbastendo trame, organizzando risorse; quelli che sul posto costituiscono reparti mobili pronti e disponibili per dare spinta e forza alla rivolta. Una volta avviata, un contributo determinante le viene dal clero e dai briganti. La Chiesa, ufficialmente, è dalla parte dei Borboni, ma il nostro episodio denuncia una frattura nel basso clero: don Angelo Polvere, arciprete di Pago Veiano, è liberale, don Nicola De Tommasi, arciprete di Pietrelcina, è borbonico. Si può supporre che don Arcangelo appartenga a una minoranza. Del resto, nella chiesa di Pago Veiano, la mattina dell'8 agosto, con o senza la partecipazione dell'arciprete, si canta il "Te Deum", a favore del re Borbone, e a cantarlo, ovviamente, è il clero in coro con i fedeli. Il popolo coinvolto nella rivolta è, in maggioranza, composto da contadini e da braccianti. Analfabeti, soggetti ai proprietari terrieri da cui dipendono, costituiscono una massa di manovra facilmente influenzabile in senso conservatore e reazionario. Si fa leva su due sentimenti profondamente radicati, monarchico e religioso. Il re assolutista regna per elezione divina, la sua volontà rispecchia la volontà di Dio, è persona sacra, gli si deve obbedienza e fedeltà, il trono e l'altare sono i pilastri del potere. Perciò sentimento monarchico e sentimento religioso si fondono, l'uno fa da supporto all'altro, ma entrambi tendono alla conservazione dell'esistente. Di estrazione popolare sono i briganti. Non è la prima volta che i Borboni se ne servono a scopo di restaurazione monarchica, mai però il loro impiego è stato così esteso, rilevante e duraturo. La copertura politica giustifica e nobilita le loro gesta, ma esse restano pur sempre brigantesche. Nei processi giudiziari a cui sono sottoposti, i partecipanti alla rivolta di Pago Veiano e Pietrelcina, oltre che di "attentato a distruggere la forma di governo, suscitare guerra civile....", sono accusati di '"saccheggi, incendi, estorsioni con sequestro di persona e con violenze costituenti crimini, omicidi volontari come immediate conseguenze del delitto di ribellione". Anche tra i briganti si possono rilevare differenze. Alla base della rivolta c'è un'adesione passiva della popolazione. Ma già prima che avesse inizio, si nota, sia in Pago Veiano che in Pietrelcina, la formazione di bande armate locali che tendono ad acquistare il dominio del territorio paesano e a collaborare tra di loro per estenderlo e consolidarlo. C'è poi la banda brigantesca vera e propria, che si riconosce in un capo carismatico che, nel nostro caso, è il Pilorusso, cioè Francesco Saverio Basile. Alla banda brigantesca sono affidate le azioni politico-militari di aperta rottura, di violento urto. Quella di Pilorusso, "invitata" a Pago Veiano per prendere la guida di una situazione già ribollente, vi apporta un contributo di brutale crudeltà, provoca un'esplosione di odio e di vendetta che svela, sotto la maschera patriottica, il volto sanguinano del brigante. I nemici dei reazionari sono i liberali. Appartengono alla borghesia, formano il ceto dei "galantuomini", dei "signori". Il nostro episodio consente di fare, anche per la borghesia, una ricognizione distintiva. Il bersaglio grosso sono i proprietari terrieri che nel cambiamento di governo aspirano ad acquisire maggiore potere, conservando lo stato socio-economico. Il notaio Verderosa è esponente della borghesia professionale. Nel suo studio sono incediate le schede, secondo una prassi consolidata delle sommosse di contadini, che nelle "carte" vedevano il simbolo documentale di soprusi perpetrati a loro danno col raggiro della legge. Il cavaliere Pizzella è, invece, rappresentante della borghesia commerciale. Uomo d'affari, forse di estrazione popolare, esprime il suo potere nel possesso di quei due magazzini di cereali, contro i quali si scaglia la furia dei rivoltosi, quasi a volersi riappropriare di quello che era stato loro tolto con prepotenza, inganno, speculazione. L'intervento dei soldati "nazionali" va considerato sotto un profilo politico-militare e diviso in due fasi: battaglia e rastrellamento. Il loro obiettivo strategico e "ristabilire l'ordine", cioè l'ordine del nuovo Stato, che garantisca la vita e i beni dei "liberali". Questi si vengono a trovare, in quell'estate del 1861, dalla parte perdente: in fuga dalle loro case, dalle loro terre, aggrediti, minacciati, mentre la reazione spadroneggia con dilagante violenza. La battaglia di Pietrelcina segna una svolta nella lotta al brigantaggio. È la prima volta che truppe regolari dell'esercito, in uno scontro diretto, hanno la meglio su di una banda brigantesca, numerosa, agguerrita, esaltata dal successo. La vittoria dei militari sgomina la banda, la mette in fuga, impedisce il collegamento, abbatte il morale. La rappresaglia è conforme alla logica dell'antiguerriglia. Al di là dell'indignazione e della commozione che può suscitare, essa risponde alla necessità di troncare i legami tra popolazione civile e guerriglia, che senza il consenso di quella, convinto o estorto, non potrebbe operare. Per raggiungere questo scopo si adopera l'arma del terrore. La popolazione deve convincersi che l'appoggio alla guerriglia, di fronte al rischio di rovina e di morte, non paga. E lo scopo, bisogna dire, è raggiunto, sia pure a prezzo di sofferenza e di sangue. Lo scollamento tra popolazione e guerriglia si fa sempre più accentuato e alla fine ne provoca il fallimento. Un'analisi della rivolta borbonica di Pago Veiano e di Pietrelcina rivela la complessità del fenomeno "brigantaggio". Non solo manifestazione delinquenziale, non solo reazione borbonica. Confluiscono in esso fattori di importanza determinante per il suo svolgimento e la sua conclusione. E guerra "sociale" tra gli strati bassi della popolazione e la classe borghese che detiene il potere. È guerra economica" tra i senza terra, senza istruzione, senza dignità, e i possidenti, professionisti, commercianti. È guerra "civile" tra abitanti dello stesso territorio, dello stesso paese, combattuta con asprezza disumana, con orrorosa brutalità. Al di là delle ragioni e dei torti che si possono attribuire agli uni e agli altri, della vicenda resta una scia di compassione e di pietà.

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