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IL CREPUSCOLO DEI BORBONE

di: Intro Montanelli da: "STORIA D'ITALIA" Vol. VI - Rizzoli, Milano, 1979

Nel momento in cui Vittorio Emanuele e Napoleone cacciavano gli austriaci dalla Lombardia, a Napoli moriva Ferdinando II, l'esecrato Re Bomba. Dopo la crisi del '49, egli aveva dato libero sfogo alla propria natura dispotica, facendo e disfacendo Ministeri, ma sempre con mezze figure che non godevano di altra libertà che quella di servirlo. Pure, delle terribili accuse che gli muovevano i patrioti e di cui lo statista inglese Gladstone si era fatto il portavoce, non tutte erano fondate, o per lo meno non tutte lo erano nella stessa misura.

Che il suo regime si basasse unicamente sull'esercito e sulla polizia, era indubbio: gli oppositori erano tutti finiti in galera o in esilio. Nella repressione la sua mano era rozza e pesante. Ma non é vero ch'egli fosse un servitorello di Vienna. Anzi. Basata sul più rigoroso isolazionismo, la sua politica estera consisteva nel non farne nessuna con nessuno, nemmeno con l'Austria di cui respingeva caparbiamente, e spesso villanamente, le ingerenze. Se avesse potuto, per esserne ancora più padrone e governarselo a modo suo, avrebbe rinchiuso il suo Reame dentro una muraglia cinese. Il suo modello, più che di Re assoluto, era quello del Patriarca che amministra personalmente la giustizia sotto l'albero di fico e mozza la testa a chiunque la viola. All'ammonimento di Metternich che "é inutile chiudere i cancelli alle idee: le idee li scavalcano", non aveva creduto. Ma non era un satrapo inteso unicamente a bagordi, come molti lo dipingevano. Nella vita privata si conduceva anzi da buon padre di famiglia, e di una famiglia che da sola bastava a dargli parecchio da fare. La sua seconda moglie, Maria Teresa d'Asburgo, gli aveva snocciolato ben undici figli, di cui nove erano tuttora in vita, oltre quello che gli aveva dato la prima, Francesco, destinato a succedergli sul trono. Moglie e marito avevano pressappoco gli stessi gusti. Partecipavano alle cerimonie d'obbligo, e anzi non ammettevano sgarri all'etichetta, ma le detestavano. Avevano introdotto a Corte un regime semplice e severo, e la maggior parte dell'anno la passavano nel palazzo reale di Caserta, nelle cui marmoree sale il Re si aggirava con un bambino in collo tra fila di mutande e camiciole stese ad asciugare. A tavola era lui che faceva le porzioni, e i cibi erano quelli grossolani della povera gente: maccheroni, pizza, caponata e soprattutto cipolle, del cui odore era sempre appestato, anche perché si lavava poco. Più largo che lungo, a quarantacinque anni ne dimostrava più di sessanta: "Ha l'aria d'un macellaio benestante" scrisse una svedese. A differenza del suo omonimo nonno, il "lazzarone", lavorava molto perché voleva sapere e vedere tutto. Ma, come lui, mescolava alla padronale imperiosità una certa bonomia e anche un rozzo umorismo, che si sfogava in lazzi e nomignoli dialettali. Il suo amore per i sudditi era sincero, anche se lo manifestava opprimendoli, e abbastanza ripagato: più che un Re, i napoletani lo consideravano un "guappo", e in fondo non sbagliavano perché del guappo egli aveva infatti le prepotenze e le generosità. Ma negli ultimi tempi era cambiato, e la voce popolare ne faceva risalire la causa a un trauma. Sulla fine del '56, mentre passava in rivista la truppa, un soldato usci dai ranghi e gli vibrò una baionettata. Il Re rimase impassibile anche perché la lama, deviata dalla sella, non gli aveva inferto che una scalfittura. Ma l'episodio lo aveva scosso, sebbene l'inchiesta appurasse ch'era dovuto soltanto al ghiribizzo dell'attentatore, un certo Agesilao Milano. Da allora si era fatto più inquieto, cupo e sospettoso, e soprattutto crebbe, sino a diventare mania, la sua superstizione. Tappezzò le sue stanze d'immagini di santi, corna e altri amuleti, e mise al bando chiunque fosse indiziato di jettatura, e Dio sa a Napoli quanti ce n'era. Forse, più che l'effetto dell'attentato, questo deterioramento di umore era il prodromo della misteriosa malattia che di li a poco doveva condurlo alla tomba. Ma fatto sta che a ridargli pace e fiducia non bastò neanche il misero fallimento di Pisacane, che dimostrava la sordità dei suoi sudditi a ogni sollecitazione rivoluzionaria. Sempre fedele al motto: "Amico di tutti, nemico di nessuno", nella guerra del '59 si era attenuto alla più stretta neutralità, dicendo che la cosa "non lo riguardava", e il guaio è che lo credeva veramente. Invano suo fratello Leopoldo, Conte di Siracusa, cercò di convincerlo che il processo di unificazione nazionale coinvolgeva anche le sorti del Reame, e che restarne assenti significava lasciare l'Italia in appalto ai Savoia. Ferdinando non sentiva "il grido di dolore" perché non sentiva l'Italia e seguitava a considerarla, come Metternich, "un'espressione geografica". Se non mise al bando Leopoldo per quelle sue idee "liberali", fu solo perché, pur considerandolo la pecora nera della famiglia, aveva un debole per lui, nonostante la diversità di carattere, o forse proprio per questa. Spregiudicato, gaudente, libertino e dissipatore, Leopoldo gli dava continuamente grosse preoccupazioni non soltanto per le sue idee liberali, ma anche per la sua condotta privata. Dava feste sontuose, passava da un'avventura all'altra e si circondava d'intellettuali sospetti alla polizia. Il suo filopiemontesismo veniva attribuito al fatto che aveva sposato una Savoia-Carignano, sebbene il matrimonio fosse subito naufragato per colpa di lui. Ma Ferdinando, che per molto meno aveva mandato in esilio e teneva alla fame l'altro suo fratello, il Principe di Capua, a Leopoldo le perdonava tutte, perfino le simpatie per la causa nazionale, per Vittorio Emanuele e per la Costituzione. E Leopoldo ne approfittava e abusava per fare il progressista in una Corte reazionaria. Nel gennaio del '59, mentre Cavour stringeva i rapporti con Napoleone per la conquista del Lombardo-Veneto, Ferdinando li strinse col Duca di Baviera per dare una moglie a suo figlio Francesco.

Dopodiché si mise con tutta la famiglia in viaggio per Bari, ad incontrarvi la nuora Maria Sofia, sposata per procura a Monaco. Ma nel lasciare il palazzo, racconta Acton, vide due frati cappuccini, segno - secondo lui - di cattivo augurio. L'indomani il maltempo costrinse la reale carovana a fermarsi ad Ariano, dove l'unico alloggio disponibile era il palazzo del Vescovo, noto jettatore. Sebbene colto da un accesso di febbre, anzi proprio per questo, il Re volle subito proseguire per Foggia. Ma non si reggeva in piedi, e il suo volto era cadaverico. Tuttavia solo a Lecce chiese un medico. Gliene proposero due: uno bravo, ma liberale; l'altro somaro, ma conservatore. La Regina volle il secondo, che diagnosticò un forte raffreddore. Rassicurato, il Re andò a teatro, un locale gelido e pieno di spifferi. Ogni tanto nel suo palco si alzava in piedi, com'era solito, per tirarsi su le brache; e tutti gli spettatori, credendo che volesse andarsene, lo imitavano. La notte, la febbre riprese accompagnata da violenti dolori in tutto il corpo. Ma il Re volle proseguire per Bari, dove la sposa era in arrivo. E di li non riuscì più a muoversi. Per riportarlo a Napoli, dovette venire a prelevarlo una nave, da cui sbarcò già mezzo cadavere. Nessuno capi di cosa si trattava. Il morente diceva ch'era stata la lama di Milano ad avvelenarlo, e forse c'era del vero in quanto i sintomi erano di un'infezione streptococcica. I flebotomi non facevano in tempo a incidergli un ascesso che altri dieci se ne riformavano sul ventre e sulle gambe. Pochi giorni prima della fine, racconta Acton, Francesco entrò nella sua camera annunziando: "Papà, hanno cacciato zi' Popò!" "Quale zi' Popò?" "Zi' Popò di Toscana" (alludeva al Granduca definitivamente defenestrato dai patrioti). "Che coglione!" disse il Re. Entrò in agonia il giorno in cui a Montebello i franco piemontesi infliggevano agli austriaci la prima disfatta. Chiamò Francesco e gli fece giurare che avrebbe seguito la sua politica, amico di tutti, nemico di nessuno, senza lasciarsi coinvolgere in quel che succedeva fuori del Reame e che perciò "non lo riguardava". Francesco aveva ventitré anni, e anche fisicamente era l'antitesi di suo padre. Il popolino lo chiamava "il figlio della Santa", ma i fratellastri lo avevano ribattezzato "lasagna" per il pallore del suo volto triste e cavallino. Sebbene non l'avesse conosciuta, era vissuto nella venerazione della madre, di cui aveva ereditato la pietà. Le malelingue dicevano che gliel'aveva coltivata, attraverso il confessore, la matrigna, per estraniarlo sempre di più dalle cose terrene fino a farlo rinunziare al trono, e metterci uno dei figli suoi. Da certe lettere di lei, piene di tenerezza per il figliastro, sembrerebbe il contrario. Ma è certo ch'essa tentò di dominarlo e, rimasta vedova, non fece che intrigare contro di lui.

Francesco non reagì nemmeno quando il suo Primo Ministro Filangieri gliene portò le prove. "Era la moglie di mio padre" disse. La cosa che più lo aveva impressionato era stata la dissepoltura di Maria Cristina per la prima cerimonia della beatificazione. Il cadavere intatto emanava un gradevole profumo, e tutti ci videro un miracolo, lui per primo. Da allora egli schivò i contatti con le donne, nessuna sembrandogli all'altezza di sua madre, e crebbe casto, solitario e sognatore. Non conosceva Maria Sofia, che fu l'ultima Principessa, nella storia d'Europa, sposata per procura.

Quando la vide a Bari, ne rimase fra estatico e intimidito, e ne aveva di che. Era una bellissima creatura, fresca, gaia, semplice, naturale, e con quel pizzico di satanismo che caratterizzava tutta la sua famiglia. Bella come lei, la sorella Elisabetta, imperatrice d'Austria, la famosa Sissi, doveva mettere lo scompiglio nell'austera Corte di Vienna e finire pugnalata da un anarchico italiano. Suo cugino, Luigi Ii di Baviera, era destinato alla follia e al suicidio in un lago; il nipote Rodolfo a una tragica e misteriosa fine a Mayerling. Per lei, romantica e cresciuta in groppa a un cavallo, quello sposo dall'aria di seminarista fu una delusione, che a quanto pare diventò ancora più cocente quando li rinchiusero in camera. De Cesare dice che Francesco, spaventatissimo, si raccolse nelle preghiere e continuò a biascicarne fin quando la sposa non fu addormentata. Dopodiché si rannicchiò in un angolo del letto e dormi anche lui. Poi ci fu il ritorno a Napoli, la lunga agonia di Ferdinando, e infine l'incoronazione del nuovo Sovrano, che per Maria Sofia significò una cosa sola: la liberazione dal giogo di Maria Teresa che pretendeva comandare a bacchetta anche lei. Ma per Francesco il trono era un carico di responsabilità, cui si sentiva del tutto impari. Sebbene tuttora abbastanza quieta, anche Napoli era rimasta scossa dalle vittorie franco-piemontesi e le aveva salutate con entusiastiche dimostrazioni davanti alle Ambasciate delle due Potenze. Subito il giovane Re si trovò tra l'incudine dell'ambiente reazionario di Corte capeggiato dalla matrigna, che voleva un inasprimento del regime poliziesco, e il martello liberale capeggiato dallo zio Leopoldo che fomentava un'alleanza con Vittorio Emanuele per togliergli l'esclusiva del movimento patriottico nazionale e arrivare a una spartizione della penisola con lui. A questo spingevano l'ambasciatore piemontese su ordine di Cavour, e tutto il liberalismo moderato locale su ordine di La Farina: entrambi per prevenire scoppi rivoluzionari e sbarrare la strada a imprese garibaldine. Sballottato fra le opposte pressioni e presentendo l'emergenza, Francesco chiamò alla testa del governo un uomo che nella pubblica opinione passava per un taumaturgo: Filangieri. Era un vecchio ufficiale murattiano, che si era guadagnato i galloni di Generale combattendo sotto le bandiere di Napoleone in Spagna e Russia, aveva mantenuto il suo grado nell'esercito borbonico, lo aveva perso per la partecipazione ai moti del 1821, ma poi vi era stato reintegrato e aveva offerto indubbie prove di fedeltà alla Corona reprimendo duramente le insurrezioni del '48-'49 in Sicilia, dov'era rimasto Luogotenente per sette anni. Ora ne aveva settantacinque e dichiarava a tutti che la politica lo disgustava. Viceversa spasimava per il potere, e quando Francesco glielo diede, lo esercitò in modo da far dire alla gente: "Finora avevamo un Re che faceva il Ministro. Ora abbiamo un Ministro che fa il Re". I suoi apologeti sostengono che, se avesse potuto fare ciò che voleva, avrebbe salvato il Regno dandogli un regime costituzionale e avviandolo sulla via delle riforme. In realtà egli fece, nei pochi mesi in cui rimase in carica, quello che volle, minacciando le dimissioni ogni volta che incontrava qualche resistenza. Ma quello che volle erano soltanto dei palliativi, e non tutti a proposito. Con un'amnistia consentì il ritorno a centinaia di esuli, che alla causa borbonica non giovarono di certo. Ma il provvedimento più grave e controproducente lo prese licenziando i mercenari svizzeri, che costituivano gli unici reparti fedeli, disciplinati e agguerriti dell'esercito napoletano. Il Re non voleva, ma Filangieri ne fece una questione di orgoglio nazionale, e l'Ambasciatore piemontese scrisse a Cavour: "Senza gli svizzeri, l'esercito napoletano versa in condizioni disastrose". Nelle sue Memorie, il Generale dice che ai primi di settembre egli presentò anche un progetto di Costituzione, ma che il Re non volle nemmeno leggerlo perché aveva giurato al padre, sul suo letto di morte, che non l'avrebbe mai concessa. Ma di questo progetto, nulla risulta dai documenti. Poco dopo Filangieri prese un lungo congedo adducendo motivi di salute. In realtà era spaventato dal precipitare di una situazione in cui non voleva restare coinvolto. Il moto unitario dilagava a chiazza d'olio: Ducati Centrali, Romagne e Toscana, dopo aver scacciato i loro Principi, si pronunciavano per l'annessione, e Filangieri sentiva che anche il Reame sarebbe stato travolto da quell'ondata. Nel marzo del '60 rassegnò le dimissioni, e il Re lo sostituì col Principe di Cassaro che aveva ottant'anni, il quale nominò Ministro della Guerra il generale Winspeare, che ne aveva ottantadue. Ai primi di aprile, lo zio Leopoldo scrisse al nipote una lettera che finiva con questa esortazione: "Una sola via rimane a salvare il Paese e la dinastia minacciata da grave pericolo: la politica nazionale che, riposando sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente l'interesse del Reame a collegarsi con quello dell'Italia Superiore". Non c'è dubbio che questa lettera fosse stata suggerita da Cavour, con cui Leopoldo si teneva in contatto: essa rispondeva perfettamente ai piani del Primo Ministro piemontese. Ma il Re non fu il solo a leggerla perché, nel momento in cui gliela recapitavano, la ricevevano e la pubblicavano anche i giornali. Un'altra lettera giunse subito dopo a Francesco. Gliela scriveva il "caro cugino" di Torino, Vittorio Emanuele, che avanzava la proposta di spartire la penisola in due potenti Stati, quello del Sud e quello del Nord, arricchiti delle spoglie di quello Pontificio che doveva ridursi alla sola Roma con la sua provincia. Questa soluzione, diceva Vittorio Emanuele, gl'italiani potevano ancora accettarla purché le due politiche fossero ben coordinate e onestamente seguite. Ma "se permetterà a qualche mese di passare senza porre in atto il mio amichevole suggerimento, Vostra Maestà sperimenterà forse l'amarezza delle terribili parole: troppo tardi". Era un ultimatum. E in seguito si disse che, accettandolo, Francesco avrebbe salvato il suo Regno. Ma queste non sono che fantasie. Lo avrebbe perso ugualmente, sia pure in altro modo. Lo avrebbe perso anche suo padre, tanto più risoluto di lui. La notizia dello sbarco di Garibaldi era talmente attesa che, quando arrivò, dopo essere stata a più riprese diffusa e smentita, provocò a Napoli meno sensazione che in tutto il resto d'Europa.

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