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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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LA QUESTIONE MERIDIONLE |
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di Denis Mack Smith |
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da: "Il Risorgimento italiano" Edizioni Laterza, Bari, 1973 |
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I ministri e i prefetti che ora subentrarono nell'amministrazione dell'Italia meridionale erano quasi tutti del nord, e quei pochi meridionali, come, ad esempio, La Farina e Filippo Cordova, avevano per lo più trascorso lunghi anni di esilio, senza molti contatti, cioè, con le regioni di Origine. Cavour, all'infuori che per il Piemonte, non sapeva quasi nulla di prima mano sulle varie regioni italiane, neppure della Sardegna, dove non era mai stato. Il profondo sud non era un problema facile per lui. Quando, ad esempio, Ferrari affermò che il brigantaggio meridionale non sarebbe mai stato vinto se non realizzando le riforme agrarie promesse da Murat e dai Borboni, Cavour non soltanto non accettò la posizione di Ferrari, ma non la giudicò neppure meritevole di discussione. La camera aveva approvato nel 1856 un modesto piano di riforme sociali per la Sardegna, che fu poi lasciato cadere, e un progetto del canonico Robecchi per un'inchiesta parlamentare sulla condizione contadina non ebbe nessun seguito. Nel '48 e nel '60, proprio in Sicilia erano scoppiate le due più importanti iniziative rivoluzionarie italiane, anche se i siciliani colti parlavano della loro isola come di un'antica e gloriosa nazione a sé. Per parecchi di loro, la causa delle rivolte del '48 e del '60, a parte la terribile miseria, era stata la forte antipatia verso Napoli: in altre parole, una reazione contro la terraferma, più che un'attrazione verso di lei; e, altro evidente paradosso, all'interno della stessa Sicilia, i proprietari terrieri, ostili alla rivoluzione finché i suoi successi erano incerti, erano stati i primi a diventare ardenti patrioti quando i soldati e i poliziotti di Cavour avevano offerto loro l'occasione di eliminare i disordini sociali; per lo stesso motivo, molti dei contadini che avevano inizialmente partecipato alla ribellione, l'abbandonarono, vedendo che la rivoluzione sociale non veniva realizzata. Non soltanto i contadini, poi, ma anche altre città siciliane nutrivano dei risentimenti contro Palermo, residenza della maggior parte dell'aristocrazia, e città che godeva di una posizione quasi monopolistica per molti posti di lavoro, nonché dei sussidi governativi e di altri vantaggi. Nel trionfo garibaldino del 1860 furono pertanto coinvolti numerosi problemi sociali che gli estranei difficilmente potevano capire. La gente del nord, in genere, sapeva così poco dell'Italia meridionale, che spesso si aspettava di trovare un'area potenzialmente ricca che abbisognava soltanto di un'amministrazione onesta e modellata su quella del nord per diventare prospera. Non avevano imparato dall'esperienza della Sardegna quanto questa aspettativa fosse ingannevole (e come avrebbero potuto farlo, se non ci erano mai stati?), né avevano interamente compreso il significato di un analfabetismo che raggiungeva quasi il 100 %, di una campagna ancora completamente feudale, di una lingua incomprensibile, e di costumi esoterici che si accompagnavano alla camorra napoletana e alla mafia siciliana. Fu introdotta la tanto sbandierata libertà di stampa, anche se pochi sapevano leggere e scrivere. Furono introdotte procedure complesse come le elezioni e le giurie, anche se in un ambiente semifeudale queste pratiche liberali potevano assumere un significato completamente diverso e meno liberatore che nel nord. Furono imposte - crudelmente, o forse soltanto sconsideratamente - tasse più elevate e tariffe più basse, adatte a un paese con un livello di sviluppo economico molto più avanzato. Fu introdotta, in base alle leggi piemontesi, l'istruzione obbligatoria, senza essere in grado di fornire dall'oggi al domani gli insegnanti e gli edifici scolastici necessari, per non parlare del desiderio di essere istruiti; e allorché vennero allontanati dei professori universitari, spesso per rancori privati o per motivi puramente politici, non tutti approvarono che farabutti come Liborio Romano intervenissero nella scelta dei nuovi professori. Furono sciolti i monasteri, senza tener conto dell'effetto di tale decisione sull'esistente sistema di beneficenza, sulla disoccupazione e sui sentimenti religiosi di una popolazione profondamente cattolica. A quasi nessuno di questi amministratori settentrionali piaceva di essere inviato a Napoli o in Sicilia: ben presto tutti urtavano contro i sistemi locali di patronato, clientelismo e nepotismo, e pochi furono capaci di evitare il compromesso. Si sviluppò in breve una vasta e multiforme opposizione di fronte alla quale la quasi unanimità dei plebisciti precedenti diventava davvero imbarazzante e assurda. L'unica facile risposta possibile era o una connivenza del governo nella corruzione locale, o la legge marziale. Le cose arrivarono ben presto al punto che Nicotera poté dire in parlamento: "La libertà individuale, l'inviolabilità del domicilio, la libertà della stampa, il diritto di associazione e l'inviolabilità dei rappresentanti della nazione sono una chimera e [il governo] spinge tanto oltre il disprezzo della legge che in certi momenti sorpassa il governo borbonico, che è la negazione di Dio". Massimo D'Azeglio, il più anziano statista italiano, aveva disapprovato molti dei metodi impiegati da Cavour nel processo di unificazione nazionale. Con parole che avrebbero potuto essere usate da Mazzini, notava amaramente che "non si fonda un'associazione umana qualunque su una serie di furberie, di perfidie e di bugie". Né si trattava di un'obiezione esclusivamente moralistica: vi erano anche seri motivi concreti per deplorare la scarsa attendibilità generale delle parole del primo ministro. Mentre Gino Capponi e qualche altro cattolico avevano scrupoli di carattere religioso nei confronti del progetto cavouriano di trasportare la capitale del Regno a Roma, D'Azeglio era contrario per ragioni opposte. Egli era uno tra i pochissimi leaders nazionali che fossero vissuti a Roma, e temeva l'effetto di quest'ambiente clericale e "meridionale". "Ora scontiamo noi", aggiungeva parlando di Cavour, "la sua ignoranza delle varie parti della penisola. Voler agire su un paese senza averlo neppure veduto, è questo un problema che nessun gran talento basta a risolvere". In privato, poi, sosteneva che l'annessione di Napoli equivaleva a dividere il letto con qualcuno malato di vaiolo. Secondo lui, i molteplici indizi di opposizione nel sud erano una chiara dimostrazione che si era fatto un errore. La sua lettera privata al professor Matteucci a questo proposito venne ben presto pubblicata da un giornale francese, al quale giunse forse non del tutto casualmente. L'esplosione di D'Azeglio era stata provocata principalmente da quello che il governo educatamente chiamava "brigantaggio". Tipi normali di banditismo avevano già acquisito nel 1861 una forte coloritura politica filoborbonica, e, spesso, aspetti di reazione cattolica contro il comportamento provocatorio e meschino nei confronti del clero, che pur si era prodigato, in qualche occasione, a favore del nuovo regime. Alcuni "briganti" erano semplici contadini che reagivano alle esecuzioni di Cialdini negli Abruzzi, o si opponevano con disperazione al rincaro dei prezzi e alla recinzione delle terre comuni. La classe dei proprietari terrieri ottenne, risultato indiretto del Risorgimento, il governo effettivo, senza il controllo di un re paternalistico. Come scrisse "La Stampa" con giustificabile orgoglio, "il moto italiano non è stato fatto dalle masse, né mediante le masse, ma bensì dalle classi educate e colte della nazione". Esse formavano l'elettorato; controllavano, più di prima, l'amministrazione locale; dipendevano dalla loro volontà le assunzioni, l'appalto delle imposte e quello delle opere pubbliche; potevano ora ignorare la legislazione sociale borbonica e recintare la terra comune dei villaggi a proprio esclusivo vantaggio, con il risultato che le famiglie contadine venivano private dei pascoli che per secoli avevano rappresentato la base della loro sussistenza. Questa vittoria della borghesia nelle campagne, per quanto inevitabile possa essere stata, era destinata a esacerbare una rivoluzione contadina, tenuta malamente a freno, che poteva essere profondamente distruttiva. Questi contadini sarebbero diventati socialmente e politicamente conservatori, disse Marc Monnier, se l'Italia avesse dato loro qualcosa da conservare invece, per come erano andate le cose, "Una rivoluzione di borghesi!: ecco la principale accusa del popolo ai moti del 1860". Cavour lasciò ai suoi successori il problema del brigantaggio con tutte le sue implicazioni. Non vi era una facile soluzione immediata, nè si avevano ancora a disposizione i dati fondamentali sui quali poter impostare una politica. Quando fu chiesto a Cavour in parlamento perché non facesse niente per la Sardegna, egli rispose che in realtà aveva fatto qualcosa: aveva mandato un altro battaglione di bersaglieri, e non fu facile allora capire quanto la risposta fosse inadeguata. In breve tempo furono inviati nell'Italia meridionale 90.000 soldati con il compito di controllare gli elementi dissidenti della popolazione; tale cifra era superiore al numero dei soldati che avevano combattuto contro l'Austria nel 1859, e tuttavia non erano sufficienti a svolgere il compito loro assegnato. Per molti anni si continuarono a spendere enormi cifre nella repressione del banditismo siciliano e meridionale in genere, e questa lunga campagna contribuì a dividere, più che a unire, nord e sud. Furono gli errori di tale situazione quelli che colpirono soprattutto l'animo di un pessimista come D'Azeglio; nel nord d'Italia, disse, si processano i criminali prima di mandarli a morte; "con che diritto, al di là del Tronto, li si impicca prima di processarli?". Altri vi scorsero anche elementi incoraggianti. Il compito di diffondere un autentico sentimento nazionale si accompagnava necessariamente a complessi problemi, e non si può accusare Cavour e i suoi successori se la rapidità degli avvenimenti impedì loro di trovare una soluzione adeguata. |
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