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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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LE RADICI DEL POTERE CRIMINALE MAFIOSO |
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Fonte: R. Minna – Breve storia della mafia – Editori riuniti, 1984 |
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Le prime notizie sulla mafia siciliana risalgono alla prima metà dell’Ottocento. Da allora ad oggi, la mafia si è dovuta confrontare con tutti gli eventi e con le diverse fasi storiche che hanno caratterizzato la storia d'Italia. E tuttavia è possibile trovare un filo unitario che attraversa gli oltre 150 anni di vita della mafia, ed è possibile trovarlo dentro la storia della mafia stessa. La mafia è nata durante l'ottocento nel triangolo che ha ai vertici Palermo, Trapani e Agrigento, ma il termine "mafia" è apparso per la prima volta nel 1862-1863, quando a Palermo venne rappresentata - con larghissimo successo - la commedia I mafiusi di la Vicaria, scritta da Giuseppe Rizzotto. Occorre allora chiedersi se la mafia sia nata con l'unità d'Italia, oppure se al neonato regno d'Italia essa fu consegnata in eredità dai Borboni. La risposta è nel feudo. Gli assolutisti Borboni vivono a Napoli, e affidano il governo ad un vicerè; diffidano dei nobili siciliani che, nel periodo, hanno imparato a conoscere il costituzionalismo inglese e nel 1848 - l'anno delle rivoluzioni per la Costituzione - dichiarano decaduto Ferdinando Il di Borbone. Il re, ripreso il potere assoluto nel 1849, visiterà la Sicilia nel 1852, rifiutandosi tuttavia di mettere piede a Palermo. La nobiltà siciliana non è mai stata "nobiltà di corte", ma non fu neanche "nobiltà di armi", perché il Borbone affidava la sua sicurezza personale - tante volte messa in pericolo dal tempo dei Giacobini in poi - a truppe, mercenarie, composte da svizzeri. La Palermo degli inizi dell'Ottocento non ebbe neppure una vita politica, al di fuori di congiure o di intrighi intorno al vicerè o di brillantissimi studi teorici compiuti da pochissimi nobili. A Palermo, anzi, - per una lunga storia risalente ai Normanni - non c'era, se non in misura molto ridotta, "un terzo ceto" - distinto da nobili ed ecclesiastici - che premesse sui nobili con una apprezzabile consistenza numerica e con una buona base di reddito e perciò movimentasse la vita delle istituzioni ufficiali. I borghesi - che proprio agli inizi dell'Ottocento si espandevano ed affermavano in tutta Europa – vivevano a Palermo in pochi, appiattiti all'ombra dei signori feudali: si trattava di una dipendenza "personale", strutturata cioè su rapporti fra il singolo signore e il singolo, piccolissimo, borghese; personalità e personalismi perciò, che inquinavano di favoritismi e di corruzione le strutture e le misure burocratiche dei Borboni. I nobili della Sicilia occidentale - principi, duchi, conti, marchesi, grandi di Spagna col diritto di tenere il cappello in testa davanti al re e di vendere titoli nobiliari - vivevano dei feudi che possedevano. A quei tempi, il feudo medio superava tranquillamente i mille ettari, ma il signore non poteva amministrarli direttamente, perché lavorare comportava la perdita di privilegi e usi del proprio stato sociale. A partire dal Settecento, il continuo deprezzamento della moneta e il desiderio di sfruttare per intero i feudi, portarono allo spezzettamento del latifondo feudale nelle "masserie", grandi agglomerati edili che dominavano decine di ettari. Il feudo, suddiviso in masserie, veniva dato in affitto col sistema delle gabelle: per una somma annuale fissa – anche se talvolta in natura - a prescindere dall'andamento dell'annata agraria. Di conseguenza il canone d'affitto è più basso della rendita effettiva del terreno per garantire un guadagno all'affittuario che, dal sistema, prende il nome di "gabellotto". A loro volta, i gabellotti coltivano direttamente la terra - e in questi casi si prendono "il cuore" della masseria - oppure la subaffittano dopo averla suddivisa in lotti di diverse dimensioni; così il feudo è sfruttato tutto e i gabellotti imparano subito il sistema di giocare fra affitti in natura o in denaro a seconda dell'andamento dei prezzi delle merci: è il naturale adattamento alla Sicilia del "truck system", conosciuto già da qualche secolo nell'agricoltura inglese. I GABELLOTTI I gabellotti rappresentano il gruppo sociale nuovo nelle campagne siciliane dei primo Ottocento. Essi sono i discendenti dei "servi" del feudatario e provengono dalla corte del signore; alcuni - pochi - fra essi guadagnano tanto da arrivare a comprare interi feudi o parti di cui il signore si libera; fra di loro nascono i "baroni", che, con la terra, comprano il titolo dai feudatari in difficoltà economiche. Sono in stragrande maggioranza "capitalisti" ma non proprietari, perché la terra è ancora in mano ai nobili; i gabellotti hanno il denaro contante, le sementi, le macchine agricole, il bestiame; soprattutto dalle loro file escono i preti, gli avvocati, i medici. Sono in prima linea, insieme coi nobili, in quella usurpazione e occupazione delle terre demaniali e degli usi civici che i contadini patiranno senza avere le armi per opporsi. E’ loro necessaria una violenza privata: qualcuno che sorvegli l'andamento dei lavori, qualcuno che riscuota gli affitti anche con la forza, qualcuno che protegga fisicamente la terra; le guardie dei gabellotti, anche dai titoli, richiamano funzioni della vecchia feudalità: curatoli, campieri e via dicendo. Gabellotti e loro dipendenti sono gli unici che hanno cavalli ed armi nelle campagne siciliane. I gabellotti segnano il passare del tempo nelle arcaiche comunità agrarie della Sicilia: possono rompere tutte le teste che vogliono, fare e disfare matrimoni, dare e togliere lavoro. Dentro il feudo, ma sotto tutti - e proprio quasi dentro gli inferi - stanno i braccianti "senza fuoco, né tetto", figli dell'abolizione della servitù della gleba iniziata nel 1781, o, nella sola Palermo, "40.000 proletari la cui sussistenza dipende dal caso o dal capriccio dei Grandi": una plebe cioè dalla miseria infinita quanto infinito è lo sfruttamento che le classi superiori esercitano. In città, l'ordine pubblico è assicurato dai gendarmi, che sono del re; tradizionale diventerà per i Borboni anche l'impiego e l'arruolamento di "malandrini" dentro la polizia, in quanto essi - cosa non sconosciuta alla Francia di Luigi Filippo – sono considerati i più adatti per arrestare i malandrini ufficiali: si tratta di una polizia molto violenta e odiata, che non usa mezze misure e che ha rapporti "diretti" con la malavita; essa diventerà ancora più occhiuta quando i Borboni le chiederanno di sorvegliare "i politici". In campagna imperversano "i briganti", nei cui ranghi confluiscono i contadini inferociti dalla fame e ribelli alla loro miseria, latitanti che, se catturati, saranno ammazzati per le imprese del loro passato, soldati disertori, nonché qualche fratacchione espulso o autoesiliatosi dal convento. Contro i briganti, i signori usavano "i bravi", cioè quei loro servi bravi e addestrati nell'uso delle armi. Nel 1812 i Borboni abolirono la feudalità in Sicilia, ma stabilirono - sicuramente su imposizione dei nobili siciliani – che "tutte le proprietà, diritti e pertinenze in avanti feudali" rimanessero "giuste le rispettive concessioni" in proprietà "allodiali", cioè in proprietà economiche individuali. Quindi il feudo, nonostante altre misure legislative del 1838, resterà in vita fino al 1860, quando nel nuovo regno d'Italia la terra della Sicilia occidentale (Palermo, Trapani, Agrigento) per il 90 per cento risulterà ancora in mani feudali. Fino al 1860, dunque, i gabellotti furono il perno dell'economia quasi esclusivamente agricola della Sicilia occidentale. In tutti questi anni, anche all'interno di una dipendenza "personale" dal signore feudale, i gabellotti seppero consolidare la loro posizione sociale, perché provvidero a tramandare all'interno delle loro famiglie e i redditi e lo stesso mestiere di gabellotto. Sempre nel 1812 i feudatari siciliani imposero al Borbone di Napoli di istituire "Compagnie d'armi" per stanare i briganti nelle campagne. Le Compagnie erano gruppi, armati e a cavallo, di privati che non facevano parte di una polizia ufficiale; essi venivano reclutati sul posto e quindi provenivano o dai bravi o dalle guardie dei gabellotti, conservandosi sotto le personali influenze dei nobili e dei gabellotti stessi. Nelle campagne siciliane sotto i Borboni si fronteggiavano tre "eserciti": i briganti, le Compagnie d'armi, i gabellotti e i loro uomini che più direttamente proteggevano "i burgesi", cioè gli abitanti del borgo. I rapporti fra questi tre gruppi armati furono contemporaneamente di conflitto e di comunione d'interessi; agli ammazzamenti generali si alternavano l'acquisto di bestiame e di merce rubata che il gruppo dei gabellotti faceva dai banditi; la non aggressione che i compagni d'arme garantivano ad alcune comunità previo pagamento anticipato di una congrua somma; l'incarico che poteva essere contratto con i briganti di andare a fare razzie e atti di terrorismo in altre zone e magari specificamente contro quel feudo o quel proprietario, in maniera che da quella aggressione il mandante occulto avesse i suoi vantaggi; i sequestri di persona che ai briganti fornivano lauti riscatti in denaro contante. E questa situazione generale fu tanto forte e radicata che anche í feudatari la subirono sulla propria pelle e sui propri beni. Già prima del 1840 i Borboni - signori di una "monarchia amministrativa" simile al regime asburgico - furono apertamente e specificamente informati di situazioni ormai cronicizzate. Lodovico Bianchini - alto e colto funzionario borbonico - avvertì Napoli che nelle campagne siciliane quasi tutti i proprietari pagavano "le componende", una cifra annuale per tenere calmi i banditi. Pietro Calà Ulloa, procuratore del re a Trapani, avvisò Napoli che "vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze - specie di sette - che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d'incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo". In questa situazione, allora, di mafia ce n'è tanta nella Sicilia prima dell'Unità. Ma gli stessi gabellotti - pure se alcuni fra essi entrarono nel ceto dei "cavaleri", di quelli che non si sporcano le mani per campare - non ebbero mai nella Sicilia di quegli anni uno sbocco pubblico e restarono "sotto" i feudatari e i nobili siciliani, che conservavano nelle loro mani a Palermo tutto il potere ufficiale o ufficioso, sia con incarichi governativi, sia agendo come gruppi di pressione sul viceré o contro i Borboni. Ma – come ha osservato lo storico Virgilio Titone - questi nobili e i borghesi loro assimilati fecero politica con sistemi particolari. All'ombra di studi anche pregevoli, o di incontri e discussioni accanitissime da cui sortivano "programmi e proclami", i nobili siciliani non nascosero mai la paternità dei loro movimenti politici e coraggiosamente presero, dai Borboni, carcere e morte. Ma i nobili rifiutarono sempre di sporcarsi le mani nell'esecuzione materiale dei loro propositi. Così, nel 1860 i giovani nobili siciliani aiutarono in maniera decisiva Garibaldi, ma rimbrottarono aspramente "i sensali di cavalli" che, arruolati dagli stessi nobili, chiedevano se anche i signori sarebbero scesi in piazza. LO SBARCO DEI MILLE Nel 1860 Garibaldi sbarcò in Sicilia, ed è storia riconosciuta da tutti che i suoi sistemi da guerriglia ricevettero un aiuto determinante dai "picciotti" dell'isola, dai contadini arruolati per Garibaldi dai nobili, come Rosolino Pilo dei conti di Capaci. Molti dei picciotti seguirono Garibaldi, e per due ragioni: prima di tutto per il "cordone ombelicale" che ancora nel 1860 legava indissolubilmente nobili e plebe in Sicilia; ma anche perché al Popolo arrivò l'idea generica ma trascinante che la libertà di Garibaldi sarebbe stata accompagnata da misure economiche in agricoltura, favorevoli ai più poveri. Altrettanto fuor di dubbio è che alcuni mafiosi - non molti, né determinanti - aiutarono Garibaldi. Nelle campagne donde uscivano i picciotti garibaldini, i mafiosi avevano armi e cavalli e già facevano, per mestiere e natura, i capipopolo e conoscevano strade e percorsi ad altri ignoti, ragion per cui si adattarono perfettamente alla guerriglia sudamericana in cui il Generale era esperto. Ma c'è di più: uno storico liberal-moderato, il senatore del Regno Raffaele De Cesare, testimone diretto, amico e confidente di molti protagonisti di quei tempi, ha scritto che già sul finire del 1859 i liberali italianizzanti di Palermo avevano commissionato alla mafia l'incarico di uccidere Maniscalco, intelligente capo della polizia borbonica e perciò il primo degli ostacoli per la futura rivoluzione, che proprio quei nobili andavano preparando in vari comitati. In uno di questi gruppi figurò Filippo Cordova, poi Gran Maestro della Massoneria italiana nel 1867. Sicurissima e ben documentata, infine, è rimasta la presenza nelle file garibaldine dei mafiosi Miceli e Badia e di altri meno noti. Finito lo shock dell'epopea garibaldina – con il suo carico di picciotti messi al muro quando volevano prendere davvero qualche proprietà agraria anche loro - a Palermo sbarcarono i piemontesi. Ma Palermo non fu immobile: molti erano i "revenants" dagli esili e dalle galere borboniche, e qualcuno fra costoro ebbe preoccupazione di sistemare i propri conti; molti erano i garibaldini che volevano spazzare tutto il vecchio e agitavano la bandiera della democrazia; tanti furono "i siciliani intelligenti" che - come notò il console inglese Goodwin poco prima dell'arrivo di Garibaldi - tenevano soprattutto all'autonomia. Tutti i possidenti intendevano respingere ogni assalto al regime giuridico e sociale su cui si poggiava, dal tempo dei tempi, la loro proprietà. I numerosi borbonici sicuri cominciarono a riprendersi dalla stupefacente e velocissima caduta dei regno (e fra l'altro Francesca II di Borbone avrà sempre buoni voti nelle prime elezioni siciliane). In Sicilia col 1860 arrivò la politica, che fra l'altro significò direttamente e immediatamente elezioni pubbliche per quasi tutte le cariche. Accaddero, così, episodi particolari: il barone di Alcamo sequestrò la vettura con il nuovo intendente, che andava ad Alcamo proprio per dirigere le operazioni elettorali; alcuni girarono le case degli elettori e passarono la lista delle persone da votare se non si volevano "soffrire dispiacenze"; un deputato nazionale fu il mandante di chi sparò contro il consigliere di Corte d'appello Guccione, che era stato garibaldino, e il cui assassino si rifugiò nella villetta di un avvocato di Palermo; altri due garibaldini, sempre a Palermo, si videro presi a fucilate, e per uno di essi qualcuno s'affretterà a stabilire che "gli è toccata perché a danno di altri contentava tre o quattro innamorate, a parte della giovane moglie". Ma a questi fatti, da non valutare più di quello che sono, si aggiunsero, subito nel 1860-1861, problemi politici di grande rilevanza. Nell'ottobre 1860 Garibaldi costituì a Palermo un Consiglio straordinario di Stato, in cui entrarono anche intellettuali illustri come Michele Amari, come Perez, come Ferrara. Questi affermarono che bisognava tener conto delle caratteristiche peculiari della Sicilia e che quindi all'isola doveva essere concessa una consistente autonomia. Fu la linea politica della "annessione condizionata" al Piemonte. Il governo italiano, invece, dopo la morte di Cavour, era rappresentato dalla Destra storica, che fu molto meno forte di quanto volle e cercò di essere. In Sicilia respinse ogni istanza autonomistica e democratica e, come fece del resto per tutto il Mezzogiorno, scelse la linea politica dei moderati, quella della "annessione incondizionata" dell'isola al Piemonte: repressione feroce di ogni anarchia antiunitaria. Occorreva cioè "centralizzare, addossare carichi alla stremata economia meridionale, monopolizzare il potere"; occorreva estromettere i garibaldini dalle strutture amministrative dove si erano infiltrati nel breve periodo di potere effettivo di Garibaldi e perseguitarli capillarmente. Ha scritto lo storico Franco Molfese che in questo modo la classe politica allora dominante non seppe neppure "appropriarsi al momento opportuno, che può anche essere il momento critico, delle istanze fondate o quantomeno di una parte essenziale delle istanze fondate" che agitava l'opposizione. Eppure un consiglio analogo era venuto al governo già nel 1861, da Diomede Pantaleoni, che era stato mandato in Sicilia dallo stesso governo per riferire sulla situazione reale dell'isola. In Sicilia la linea governativa scontentò quasi tutti; e nel settembre del 1866 scoppiò a Palermo "la rivolta del sette e mezzo", che durò - come dice il suo nome - poco più di una settimana. La rivolta "fu moto istintivo, caotico, nebuloso, senza mete", e una scintilla qualsiasi coagulò i sentimenti antigovernativi maturati un po' dovunque nei - sei anni di governo unitario. Vi parteciparono - senza alcun collegamento organico fra loro - preti e garibaldini, borbonici e repubblicani, e tutta la miseria del popolo palermitano; vi ebbe occasione di distinguersi più d'un gruppo mafioso, fra cui il celebre capomafia Turi Miceli da Monreale - quella Monreale da cui altri mafiosi di nome Miceli, nel 1950, consegneranno il bandito Giuliano ai carabinieri. La rivolta, in sostanza, non uscì da Palermo e fu stroncata in breve tempo dalle truppe del generale Cadorna. I FALLIMENTI DEL GOVERNO NAZIONALE Ha scritto Gaetano Falzone che in Sicilia, passata la buriana del sette e mezzo, "è la mafia". In effetti, il governo nazionale in Sicilia fallì anche riguardo al mantenimento dell'ordine pubblico. Le campagne contro il brigantaggio siciliano si susseguirono, a partire dall'unità d'Italia, con un andamento quasi ciclico, circa ogni due anni, ma rimasero slegate e scoordinate fra loro e mai risposero ad un disegno organico. E’ vero che il governo vi impiegò anche truppe regolari dell'esercito, ma neppure la loro quantità fu soddisfacente, tanto che uno storico moderno, Giampiero Carocci - sulle orme di S. F. Romano - ha affacciato l'ipotesi che la Destra storica mandasse a bella posta i carabinieri col contagocce per fomentare le paure dei proprietari siciliani "come una pedina nel suo giuoco con la rivoluzione". I banditi furono affrontati coi sistemi dei Borboni: nel 1863 rinacquero le Compagnie d'armi, che erano state abolite da Garibaldi, ma che adesso vivranno, sempre come truppe semiprivate, fino al 1892, col nome di "militi a cavallo" o di "guardie di pubblica sicurezza a cavallo". Di nuovo si arruolarono nella polizia i "malandrini" per meglio arrestare quelli veri, e poi si scoprirà che i poliziotti di Palermo erano direttamente implicati in alcuni furti clamorosi, per svariati milioni dell'epoca; il cavalier Paleologo confiderà in gran segreto e personalmente al generale Medici i nomi dei malfattori di alcune zone di campagna, ma presto sarà avvertito da alcuni "amici" di aver parlato troppo: scapperà, dunque, dalla campagna. Il governo dette fuoco alle polveri con le sue stesse mani, perché continuò a imporre il servizio militare obbligatorio – mai preteso dai Borboni - e si ritrovò già nel 1861 con più di mille disertori per la sola zona di Palermo: persone che non potranno che commettere reati. I siciliani sentirono direttamente che la repressione governativa del brigantaggio era in sostanza fallita: non solo permaneva quella situazione d'illegalità diffusa, caratteristica degli anni dei Borboni, ma ad essa si aggiungeva il continuo stato d'assedio che il fallimento governativo non risparmiò ai siciliani. Questa lotta non toccò per nulla la mafia, come benissimo avvertirono i contemporanei; il 29 maggio 1875 il cavalier Soragni, reggente la prefettura di Palermo, scrisse al ministro degli interni che "la mafia ("... quella vasta organizzazione...che tutto occupa il corpo sociale e con opposti sensi dell'intimidazione e del patrocinio se stessa cerca di sostituire al pubblico potere...") ha forza maggiore del Governo e della legge": la prefettura di Palermo - che così, per la prima volta in sede ufficiale, separò la mafia dal brigantaggio - vedeva ogni volta letteralmente distrutte intere bande di briganti, ma registrava che "la mafia, causa principalissima del male, è indomita sempre e mantiene vigorosamente se stessa e rinnova le assottigliate schiere dei malandrini". E sì che di mafia, agli occhi del governo italiano, ne fu offerta tanta e subito. Il 25 luglio 1861 il principe di Mirto rivolse una petizione al luogotenente del re a Palermo e lamentò che "i gabellotti" usavano "la vendetta" sia contro i contadini sia contro i proprietari; lo stesso luogotenente del re, già dal gennaio 1861, aveva notificato al governo il persistere di una serie di omicidi e di sequestri di persona: questi ultimi si chiudevano generalmente con il pagamento di un riscatto fra le tre e le seimila onze. Tutti i funzionari governativi – in rapporti che diventeranno pubblici molti anni dopo - informarono il ministro dell'Interno che la popolazione non collaborava affatto per la scoperta degli autori dei reati; che i siciliani risolvevano le questioni fra di loro; che giudici e poliziotti erano spesso corrotti e si mostravano molto remissivi dinanzi ai silenzi dei loro amministrati. Sembra che in tema di conservazione dell'ordine pubblico in Sicilia la preoccupazione massima del governo subito dopo il 1860, sia stata quella di stroncare la rivoluzione, ipotetica o reale che fosse. Solo in questa ottica, infatti, può spiegarsi quello che altrimenti sarebbe un errore colossale. Nell'aprile del 1865 il prefetto di Palermo, marchese Filippo Gualterio, in un rapporto ufficiale diretto al ministro dell’Interno usò per la prima volta la parola mafia: tutta la preoccupazione di Gualterio fu di avvertire il governo che la situazione a Palermo era sul punto di esplodere perché le organizzazioni mafiose avrebbero potuto decidere di aiutare il latitante Badia, il quale, a sua volta, aveva già seguito Garibaldi in Aspromonte nel 1863. Gualterio temeva cioè che la forza della mafia facesse deflagrare rivoluzioni, sommosse, sovversioni nella popolazione palermitana. E bisogna pur riconoscere che Gualterio, funzionario di un ministero dell’Interno rigidamente gerarchico, usò e adattò le interpretazioni della mafia secondo quelli che erano i desiderata e i programmi generali dei governo. Eppure, anche Gualterio mise in mostra una realtà di fatto: egli, infatti, informò il governo che molti proprietari – pur conservandosi "onesti" - si erano alleati "almeno col silenzio" con la mafia "per timore di gravi danni" e che i mafiosi si erano già avvinghiati alle molte famiglie che andavano arricchendosi dopo l'unità d'Italia. Nell'Archivio di Stato di Palermo - da dove, con gli immancabili "anonimi", oggi vengono fuori tutti i documenti autentici di quei giorni - le carte insistono già da quegli anni sia sulla necessità sia "sull'interesse" di molti ricchi nel mantenere rapporti con la Mafia, visto che nessuno li proteggeva. E’ una classe possidente, quella palermitana, che già Pantaleoni, a partire dal 1861, e Zenner, a partire dal 1863, indicano come dedita alla violenza, alle soperchierie, agli imbrogli. Prefetti, questori, magistrati e anche giornalisti, sempre in questi anni, cominciano a denunziare interventi mafiosi nelle elezioni politiche e amministrative a Palermo, Trapani e Agrigento. I fatti, poi, si incaricano di dimostrare che i siciliani dell'epoca conoscono una Mafia "banditesca", ma sono sicuri che le fila di questa sono rette da una Mafia che chiamano dai "guanti gialli". Il 31 luglio 1874 il prefetto di Palermo Rasponi, sempre scrivendo ufficialmente al ministro dell'interno, afferma che bisogna distinguere "il mafioso malfattore operante" "da quello che non si mostra apertamente ma si fa centro delle notizie e delle confidenze riguardanti la premeditazione e l'esecuzione dei reati"; Rasponi è sicuro che "il ricco si avvale del mafioso per serbare incolume dalla piaga incurabile del malandrinaggio la sua persona e le sue proprietà, o se ne fa strumento per mantenere quella preponderanza che ora vede venirgli meno per lo svolgersi e progredire delle libere istituzioni". E’ successo anche che i siciliani hanno visto vincere seccamente, in ben tre occasioni, quella "mafia dai guanti gialli" contro cui, vanamente, si è scagliato già dal 1868 il procuratore generale di Palermo, Borsani. Nel 1871 il procuratore generale del re a Palermo, Tajani, spicca un ordine di cattura contro il questore di Palermo, Albanese, accusato di collusione con la mafia; ma Albanese sarà prosciolto e rimarrà questore, mentre Tajani - che pure, in seguito, compirà una notevole carriera fino a diventare ministro - lascerà Palermo. La polizia, nel 1875, ha la fortuna di arrestare insieme, "armati e riuniti in fraterno banchetto", molti componenti della banda Sajeva, nonché il barone Calauro e i possidenti Cesare e Innocenzo Trainiti che "erano i capi della così detta maffia dei guanti gialli di Girgenti": tutte le influenze, tutte le arti, tutti i raggiri della "vecchia maffia", che il prefetto di Palermo temeva quando ne riferiva al ministro, alla fine vincono; i banditi sono giudicati a parte, e prendono condanne fino ai lavori forzati a vita; i baroni invece - giudicati da soli e lontano dai banditi - hanno condanne da tre a sei anni di carcere. Infine, il prefetto di Palermo Manusardi - uomo dalla mano feroce contro i briganti - nel 1878 denunzia al Governo che il marchese Spinola, amministratore a Palermo dei beni della Real Casa, è un manutengolo della mafia: il risultato è che solo Manusardi finirà col vedersi accettate le dimissioni. Eppure, sostengono nel 1876 Franchetti e Sonnino, "basterebbe agire d'accordo per tre giorni per far sparire dall'isola l'industria della violenza". Ma "chi" bisognava mettere d'accordo? Fuori da ogni discorso politico sono i braccianti agricoli e i proletari di città; ad essi il prefetto di Palermo, nel 1876, riconosce ammirazione "per la grande sobrietà" di vita: "per forza o per abitudine" queste famiglie strutturate sulla miseria "campano di minestra fatta di erbe selvatiche cotte e di fichi d'India", mentre fra loro i fumatori di tabacco sono "un'eccezione". Questi gruppi sociali, che pure costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, sono esclusi dalla lotta politica, e sono ampiamente sfruttati dai possidenti. Quando, dopo il 1870, inizieranno a Palermo i primi movimenti socialisti, la polizia temerà e denunzierà un loro possibile accordo con la mafia, ma, invece di questa, manderà in galera tutti i primi dirigenti socialisti della città. Su un'intesa antimafia non possono, ovviamente, convenire "i facinorosi" che, secondo quanto vedono Franchetti e Sonnino, "mantengono degli agenti perfino a Roma e li mandano su e giù per i ministeri a spiare, intrigare e intercedere". Un accordo del genere, infine, non ci sarà mai perché, come annotano Franchetti e Sonnino, in Sicilia "la classe dominante è portata fatalmente a proteggere i malfattori"; è una classe dominante che, per quei tempi, "si compone della gente in Europa più gelosa dei privilegi e della potenza che dava, in Sicilia ancora più che altrove, la ricchezza; più appassionatamente ambiziosa di prepotere; più impaziente nelle ingiurie; più aspra nelle gare di potere, d'influenza e anche di guadagno; più implacabile negli odi, più feroce nelle vendette". Franchetti e Sonnino ("due bravi giovani, colti e disinteressati, ricchi, con mente ben fornita di studi storici, economici e amministrativi, preparati - alla maniera degli uomini politici inglesi - alle funzioni della vita pubblica", li definirà anni dopo, non senza qualche acrimonia, Luigi Capuana) passano in quegli anni, secondo alcuni siciliani, per "i due calunniatori" che hanno scritto "quell'infame libello". Ma se si pensa soprattutto a Sonnino - che per il resto della vita rimarrà l'ultimo esponente della Destra storica - è da escludersi che i due giovani fossero rivoluzionari, garibaldini e peggio. La gran massa di atti ufficiali - prima indicati – afferma le stesse identiche cose riferite da Franchetti e Sonnino, che invece ignoravano quei documenti, ai loro tempi ancora coperti dal segreto di Stato. E’ la stessa natura dei fatti cui facciamo riferimento che dimostra la verità dei problemi indicati da Franchetti e Sonnino. Tutte le fonti rilevano, infatti, che, per i primi anni dopo l'Unità, non sono i mafiosi che conducono il gioco politico. Secondo la legge elettorale allora vigente, dal 1861 al 1882, ha diritto al voto solo il 2 per cento di tutta la popolazione italiana, e in Sicilia gli elettori superano di poco le 40.000 persone, delle quali circa un 20 per cento - una percentuale enorme per quelle cifre elettorali - si astengono dal votare. In quel 2 per cento di uomini col diritto al voto, i mafiosi sono mosche bianche: non vi entrano certamente i campieri e i guardiani perché non hanno il censo necessario, ma pochi sono anche ì gabellotti che andranno alle urne, perché, non essendo proprietari ma capitalisti ("barattieri"), hanno difficoltà a dimostrare per vie ufficiali un certo reddito; tra l'altro, nel gruppo dei gabellotti e dei loro dipendenti, è l'analfabetismo che taglia i possibili diritti al voto. Del resto, i primi eletti alle prime elezioni sono nella stragrande maggioranza membri della nobiltà o di quella borghesia cittadina strettamente legata ai nobili. Nel 1861, dunque, l'onorevole deputato che dal mafioso fa uccidere il garibaldino, o il barone che dai mafiosi fa sequestrare la corriera con l'intendente per poter manovrare le elezioni, o colui che minaccia seriamente gli elettori che non obbediranno, non possono essere che membri della classe dominante. La mafia, nei primi anni dopo l'Unità, è uno strumento nelle mani di altri, e sono questi altri che si servono della mafia per fare i propri interessi secondo i criteri di "personalismo e violenza" che erano stati propri della feudalità siciliana. E’ un fatto, cioè, che la classe dirigente siciliana non ha in politica "una tradizione signorile", come Titone chiama quella toscana o piemontese o lombarda o veneta. I mafiosi seguono le politiche altrui per le quali vengono arruolati. Nel 1866 partecipano alla rivolta del "sette e mezzo", che è la prima manifestazione ufficiale del fallimento della politica governativa in Sicilia. Anzi, neppure la rivolta fa riflettere il governo sulla propria inadeguatezza: la Camera dei deputati, nel 1867, manda a Palermo una commissione per appurare lo stato della città, ma la stessa Camera rifiuta e boccia una delle proposte di quella commissione, e cioè l'istituzione di "un fondo speciale" per "l'obbligatorietà" della costruzione di strade nella zona di Palermo; la decisione provoca le dimissioni, dal governo di quella provincia, dei Di Rudiní, uomo della stessa Destra e vero domatore politico della rivolta del "sette e mezzo". L'atteggiamento negativo del governo dà ampio spazio perché "diverse frazioni d'opinione" si raccolgano in un fronte compatto d'opposizione alla Destra storica; i regionisti o gli autonomisti, i borbonici, i clericali, i massoni repubblicani di Finocchiaro Aprile, i garibaldini democratici fanno blocco unico intorno alla richiesta di "un decentramento amministrativo e politico" dell'isola; qui confluiscono una serie di proteste: quella contro lo Stato del ceto baronale che respingeva anche l'Unità se questa voleva cambiare la sostanza del governo feudale in Sicilia; quella di portata ideologica di una serie di minoranze, ciascuna diversa e in antitesi con l'altra. Alle elezioni del 1874 l'opposizione coalizzata prende ben 43 deputati su un totale di 48 deputati eletti in Sicilia. E per la prima volta nella storia d'Italia, le elezioni siciliane sono importantissime per tutto il Paese: la Destra storica cade in parlamento e, siccome nelle nuove elezioni del 1876 l'opposizione sicula prende ancora 43 deputati su 48, i siciliani risultano determinanti per l'elezione del nuovo governo Depretis, con cui la Sinistra va al potere. La Sinistra, tuttavia, capeggiata dal massone Depretis non ha un programma e una linea politica chiari e netti come invece, al di là di ogni giudizio di valore, aveva avuto la Destra. La Sinistra nasce dall'unione di parlamentari eletti in un collegio uninominale e nell'assenza pressocchè totale dei partiti politici, ed è formata con una serie di accordi "personali", diretti o a risolvere questo o quell'errore già compiuto dalla Destra, oppure indirizzati a dare un assetto a questa o quella richiesta di questo o quel gruppo. Gli stessi contemporanei vedono subito che "il trasformismo" è il pantano in cui non può non cadere chi proclama di garantire "la governabilità", ma la riduce alla semplice sostituzione di chi ha sbagliato. Da Firenze, nel 1877, il giornalista tedesco Hillebrand domanda con molto scetticismo se Nicotera, nuovo ministro dell'Interno nel governo della Sinistra, riuscirà a stroncare, anche con leggi eccezionali, "la mafia dai guanti gialli". Nicotera, in effetti, attua interventi molto pesanti nei confronti dei soliti briganti siciliani, ma questa volta - in misura decisamente maggiore delle opposizioni che pure i siciliani avevano fatto contro i procedimenti analoghi usati dalla Destra - dalla Sicilia partono una raffica di proteste e una marea di commenti negativi perché lo stato d'assedio attuato in pratica dal governo porta soltanto ondate di illiberalità. Prefetti, questori e semplici cittadini continueranno a documentare che la mafia si fa sempre più forte. Da ciò la sensazione sempre più chiara che con l'avvento della Sinistra al potere, in Sicilia ha vinto "l'opposizione mafiosa" cui "lo Stato liberale abdicò a favore del baronato ", come ha documentato lo storico Marino; e molti cominciano ora a dire che la stessa vittoria elettorale della Sinistra è stata agevolata in Sicilia proprio dai mafiosi. E’ in questo periodo che "il potere mafioso" diventa ogni giorno più aperto e più noto, proprio perché è il più nuovo. I campieri, i curatoli, i guardiani - gli uomini armati del gabellotto - trasformano "diritti feudali del signore" nel "pizzo" (la punta della barba) che il mafioso deve bagnare nel piatto altrui, come acutamente ha notato il sociologo tedesco Hess. Il proprietario e l'affittuario durante il feudalesimo hanno sempre pagato "il diritto del maccherone" alla persona che guardava i campi e il bestiame dai ladri: era una parte del "diritto di guardia" che si pagava al signore per rifondere le spese che il signore sopportava - per il mantenimento di uno stuolo di guardiani nelle campagne. Adesso, sparito il feudalesimo dopo il 1860, non si paga più il diritto di guardia a un "signore" che più non esiste, ma il guardiano intasca il suo "diritto di maccherone" perché, se il proprietario e l'affittuario non pagano questo tipo di guardia, gli saltano letteralmente le viti e il grano e il bestiame. Progressivamente, poiché nessuno ha la forza di arrestarlo, il "pizzo mafioso" diventa una tangente, ovvero una parte degli utili che il proprietario o l'affittuario devono pagare al mafioso se vogliono continuare ad avere utili dal proprio fondo e non lo vogliono vedere ritornare "a deserto". Il nobile paga e sta zitto: non può fare denunzie anche perché, nell'atto in cui si presenta ai regi carabinieri e chiede che lo Stato gli arresti il mafioso estorsore, "si abbassa a confessare la propria impotenza". Il povero paga e sta zitto: sa di essere assolutamente indifeso di fronte al prepotente armato, perché per un mafioso che va in galera ne rimangono cento e tutti pronti a lavare l'onta subita. Le violenze mafiose non sono gradite, ma al mafioso nulla importa di crescere e rafforzarsi nell'odio generale: se nel 1894 in parlamento il marchese di San Giuliano dirà che in Sicilia il popolo non odia i nobili ma ce l'ha a morte con i gabellotti perché sono questi che decidono l'affitto che i poveri devono pagare ai nobili proprietari, tutti ormai constatano che il potere mafioso si afferma e si radica all'interno della gerarchia di poteri vigente in Sicilia. La violenza della mafia, a questo punto, conosce come stanno davvero le cose. Il feudalesimo venne davvero abolito in Sicilia nel 1860, ma la sostanza economica dell'isola continuò ad imperniarsi sempre sul latifondo, il cui declino - ma solo per interne ragioni economiche - diventerà netto soltanto dopo la seconda guerra mondiale. La terra rimase sempre sfruttata secondo il sistema delle affittanze ovvero delle "gabelle": qui i mafiosi gabellotti si conservavano insostituibili perché restavano gli unici che sapevano far andare avanti quel mondo. Essi devono pagare l'affitto in denaro - ma a un prezzo largamente stabilito in anticipo – quando i prezzi salgono continuamente, mentre devono pagare in natura quando i prezzi scendono. I mafiosi sono sempre in prima fila a riscuotere gabelle; impongono essi stessi il prezzo del fitto dei terreni ai proprietari: se qualcuno di questi ha davvero voglia di reagire, c'è sempre "una fucilata di chiaccheria" che gli passa un palmo sopra la testa e ne porta via i fumi. Il gabellotto ricco e mafioso ha un esercito di campieri e curatoli e guardiani per costringere i subaffittuari e i braccianti a pagare i canoni del subaffitto ed a lavorare duramente in silenzio. Ma soltanto i nemici (o, più spesso quelli che appaiono tali) della mafia fossilizzano i mafiosi nel ruolo deputato di parassiti dell'agricoltura siciliana. I mafiosi, invece - proprio per essere riconosciuti dalla voce pubblica come tali - dalla nascita lavorano per tre, e perciò si installano dovunque vi sia denaro da accumulare e potere da esercitare. Anche le miniere di zolfo e le saline sono proprietà nobiliari e anche qui sono i mafiosi che le prendono in affitto o addirittura le comprano, e comunque alla fine le gestiscono quasi tutte. Il grano, l’uva, le olive sono prodotti agricoli che devono essere lavorati e trasformati in farina, vino e olio prima del consumo; in un mondo arretrato e vecchissimo come la campagna siciliana della fine dell'ottocento, le strutture che fanno questi lavori stanno direttamente in campagna, sui luoghi di produzione: mulini, frantoi (a forza di animali) per le olive, torchi (a forza di piedi) per l'uva sono incorporati nei fabbricati, grandi come un paese, che costituiscono "le masserie" siciliane; e le masserie sono il potere mafioso. I cavalli, i muli, gli asini, i carri e i carretti - soprattutto quando vengono impegnati in agricoltura o nei trasporti - sono in mani mafiose, anche perché servono alla comunicazione degli ordini che i mafiosi mandano in giro. Ma l'olio e il vino, gli ortaggi e la frutta, il sale e lo zolfo, devono essere venduti, ed è così che piano piano, sull'onda del commercio che per estendersi "deve" passare dalle loro mani, i mafiosi dalle campagne scendono in città ed arrivano a contare (ad essere) qualcosa anche in Palermo, dove già nel 1875 creano associazioni commerciali che all'inizio riguardano soprattutto i mugnai e i pastori. Il mafioso di campagna diventa anche l'unico banchiere della campagna siciliana. Il meccanismo è semplice. Il mafioso gabellotto "presta" al contadino affittuario le sementi e se le fa restituire, con i dovuti "interessi", sempre in natura, ma maggiorate di un buon 20-30 per cento. Il mafioso gabellotto è l'unico ad avere denaro contante e può prestarlo all'occorrenza, per un matrimonio, per un funerale, per una malattia, per una emigrazione; "lo zio" riceve le persone senza bisogno delle formalità bancarie; "lo zio" ha l'intuito delle persone e sa che a Tizio il debito può essere prorogato, senza bisogno di scrivere niente, perché, se il debito alla fine non verrà estinto, sarà "lo zio" a diventare il padrone dell'asino o della casuccia, o addirittura dell'anima del contadino debitore che dovrà sparare quella tal fucilata di morte contro la persona indicata dallo "zio". Subito, dunque, "usura" e "morte" vanno insieme nella struttura del potere mafioso. Non v'è dubbio, quindi, che sulla fine dell'Ottocento, attraverso queste vie, la mafia si assesta sempre più come perno dell'economia nelle campagne di Palermo, Trapani e Agrigento, dove nulla accade che possa dispiacere la mafia stessa. Dal 1875 in poi anche i mafiosi, dunque, esercitano la loro "accumulazione primitiva" e prendono su di sé sempre più denaro e sempre più potere. Ma l'importanza - ogni giorno più grande - della mafia nell'economia della Sicilia occidentale tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento è relativa. Da una parte, è eccessivo affibbiare alla mafia, per la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, l'etichetta di "borghesia in formazione", perché nell'arretratezza dell'agricoltura siciliana di quei tempi il termine "borghesia" (che noi bene intendiamo in riferimento alla civiltà industriale) può anche sembrare un nonsenso. Le dimensioni generali dell'economia siciliana di allora non sono grandi in assoluto; il mafioso non diventa ancora padrone di sconfinate distese di terra, cosa che invece rappresenta il metro con cui misurate chi è davvero ricco nella Sicilia di quegli anni. Quando il mafioso muore (allora spessissimo di lupara) non lascia ai suoi figli un "capitale" con cui vivere di rendita: i figli dei mafiosi dovranno continuare e migliorare (salvo le consuete e ricorrenti morti precoci) le attività e le posizioni paterne. D'altra parte, i mafiosi (che fisicamente sono un'esigua minoranza nella popolazione dell'epoca) continuano a "stare sotto" gli altri gruppi sociali. In primo luogo la nobiltà non è affatto finita. Per anni, ancora dopo l'unità d'Italia, i signori riceveranno sempre in pubblico "il baciamano" dagli uomini non appartenenti alla loro casta. Fino al 1946 - quando in Italia cade la monarchia, che proprio in Sicilia e in tutto il meridione, del resto, continuerà per un'altra ventina d'anni ad essere una forza politica - i nobili avranno in Italia il monopolio quasi assoluto delle alte cariche della diplomazia e dell'esercito; poteri statuali che rimarranno sempre, anche sotto il fascismo, quasi un feudo dei Savoia. Ma se nel 1860 i nobili possiedono circa il 90 per cento della terra e se agli inizi del Novecento essi ne sono proprietari per tre quarti, ancora nel 1946 i nobili risulteranno proprietari del 27 per cento della terra; ed è facile indovinare che lo scorporo, prima, e la vendita, dopo, delle terre nobiliari sono il frutto delle divisioni ereditarie, ormai imposte dalla eliminazione totale degli effetti giuridici del feudo. E i nobili, sotto i disastri economici provocati in Sicilia dalla guerra doganale per il vino aperta contro la Francia dal filogermanico governo della Sinistra, nel 1881, altro non sanno fare che continuare a dare "a gabella" le loro sterminate proprietà. Anzi, più la fama della mafia cresce, più c'è una corsa a scegliere il mafioso gabellotto più forte (litigi, questi, che divideranno i nobili anche dopo il 1945 per accaparrarsi i servigi del celebre "zu Calò" Vizzini). Al fianco della nobiltà, dopo il 1875, si afferma poi, ogni giorno di più, quel ceto del "baronato" che più o meglio può essere individuato come "la borghesia agraria" della Sicilia fino al 1920. Sono i professionisti, i capitalisti, i possidenti, anche la crema dei gabellotti, che, in quella corsa alla proprietà della terra tipica della Sicilia postunitaria, acquistano i beni feudali ora in libero commercio; loro fanno germogliare i gruppi mercantili-finanziari-industriali dei Florio e dei Rubattino, loro comprano i circa 200.000 ettari confiscati alla Chiesa dallo Stato liberale, che andranno ceduti a privati dal 1860 al 1890, e che risulteranno dati nella misura del 93 per cento circa a persone già possidenti; loro alla fine dell'Ottocento portano da 200.000 a 650.000 gli ettari di terra non in mano a nobili; loro chiudono la rapina degli usi civici e delle terre comunali (iniziata dai feudatari) con una sanatoria del 1893 a favore di chi ha preso quelle terre, e perciò a favore di se stessi; loro, nei soli anni dal 1870 all’1874, fanno erogare dal Banco di Sicilia prestiti per tre milioni del tempo, salvo incrementare queste cifre dopo l'avvento della Sinistra al potere. Con questa borghesia la mafia ha rapporti anche di sangue, perché più "d'un mafioso fa i propri figli e preti e medici e avvocati, e così li infila tra i cappeddi". Da sempre, alla cosca mafiosa è necessario "un protettore, come la proboscide all'elefante". Ai mafiosi è necessario "un patrono" che sia "un civile": una persona che se ne intenda di tasse e di notai, che sappia far manovrare le cause penali, che possa intercedere presso la polizia. Il patrono diventa così il "guanto giallo della mafia": il borghese-barone è persona non mafiosa a cui i mafiosi (nella quasi totalità analfabeti) delegano i rapporti col mondo civile, con lo Stato, cioè, e con i suoi apparati. Ed è umano, che più d'un borghese-barone dia informazioni ai mafiosi e ne guidi e ne indirizzi le vendette e le azioni criminose, per cui nel 1910 l'ennesima (e sempre riduttiva) inchiesta parlamentare sulla Sicilia affermerà che "qualche ambizioso delle classi dirigenti" è un vero e proprio "capomafia". In questa congerie di rapporti economici e umani, è il "personalismo" della classe dominante siciliana che agevola coscienziosamente l'ascesa della mafia, che si esprime in primo luogo con "l'impunità" dei mafiosi, una cui caduta verticale (la galera) stroncherebbe sia il sistema delle gabelle sia il lucrosissimo mestiere del patronato. I nobili e i baroni, infatti, "se vogliono adoperare la classe facinorosa ai propri fini, devono pur permetterle di curare i suoi interessi particolari ed indipendenti", perché l'impunità mafiosa "rappresenta il prezzo pagato da coloro che dominano per avere sempre a disposizione dei mezzi di violenza", come spiegano Franchetti e Sonnino. E così, accanto "alla dolcezza" con cui i mafiosi praticano le estorsioni, che sono la loro attività preferita, si stagliano patroni che siedono alla Camera (dove approda il baronato) e in Senato (dove per lunghissimo tempo siedono soltanto principi e marchesi). I mafiosi gabellotti nelle campagne comprimono il salario reale dei braccianti agricoli sotto il livello di sussistenza: da qui inizia quel meccanismo di "promozione-espulsione" che fa emigrare ("la cacciata via") dalla Sicilia, dal 1880 al 1913, più di 800.000 persone, di cui 200.000 circa rientreranno entro il 1915. Ma già dal 1890 (quando a Genova nasce il Partito socialista italiano) i lavoratori siciliani e in primo luogo i braccianti aderiscono al socialismo e lottano per cambiare decisamente le cose; allora il governo non li vedrà più come "cospiratori e congiurati" ma li valuterà come una forza politica che addirittura può stroncare come prima cosa il sistema mafioso dell'economia siciliana. Al governo torna per l'occasione il siciliano Ctispi (massone ed esponente del baronato), che col cannone e con anni ed anni di galera batte sul momento i lavoratori dei Fasci siciliani. La Mafia scende personalmente in campo: i campieri, i guardiani, i curatoli (che stanno nelle Compagnie d'armi ancora rimaste in vita e che poi, sciolte queste, andranno a fare le guardie campestri) sono in prima fila a sparare contro le manifestazioni socialiste e a provocare veri e propri eccidi, come a Grammichele, dove nel 1905 vengono uccisi 18 contadini, e 200 sono feriti. E’ la Mafia che negli anni del giolittismo ammazza i sindacalisti Panepinto e Vetro. Ma sono i baroni che nel 1896 fanno abortire un più che timido tentativo di riforma agraria suggerito da Crispi. Con l'avvento della Sinistra, le condizioni politiche della Sicilia cambiano di molto dal 1875 al 1915, e intanto i legami politici fra classe dominante e mafiosi diventano più personali, diretti, pubblici, di colleganza cioè. Dal 1882 in poi la legge elettorale subisce varie modifiche; così, in rapporto alla popolazione di tutta l'Italia, gli elettori passano dal 2 per cento (600.000 persone circa in tutta Italia) del 1861, all'8 per cento (2.000.000 circa di persone) nel 1882, fino al suffragio generale (maschile) che è conquista del 1913. Aumentano perciò in primo luogo gli eleggibili, e mentre principi e marchesi si rifugiano (chi può) al Senato, che è di nomina regia, numerosi baroni (i professionisti, i possidenti) concorrono e lottano fra di loro per andare alla Camera dei deputati. Da qui una serie di episodi comunissimi in Sicilia negli anni a cavallo fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Il barone "guanto giallo" impiega i suoi "clienti" mafiosi a fare "coppini e pastette": certificati elettorali distribuiti soltanto agli elettori valutati per sicuri, interludi di fior di fucilate e di vigneti le oliveti e aranceti che saltano, morti e ciechi che votano, elettori che si affezionano ai loro diritti e tornano più volte a votare, urne prefabbricate o incendiate o distrutte: tutto, perché dalle urne escano eletti sempre e soli i candidati sicuri. Il massone Nunzio Nasi - che sarà ministro e verrà pronosticato gran capo politico nazionale, ma che cadrà ai primi del Novecento per uno scandalo un po' misterioso circa la natura e le finalità di chi volle scoprirlo - fa come tutti gli altri e ad ogni elezione passeggia per le strade dei centri abitati ed esibisce "le panze parate" dei "suoi" mafiosi, che gli fanno luccicante corona. |
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