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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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L'ITALIA DEL NORD E L'ITALIA DEL SUD |
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di Francesco Saverio Nitti |
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da: "Scritti sulla questione meridionale" - Editrice Laterza, Bari, 1958 |
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Le mie parole, per quanto siano dettate da un vivo desidero di verità, possono dispiacere al maggior numero. Riconoscere con lealtà che l'Italia meridionale ha ora in Italia una situazione relativa minore che nel 1860 e che il regime finanziario e il regime doganale hanno molto giovato al Nord e molto nociuto al Sud, è cosa che non può piacere ai settentrionali; ma dire che di quanto è accaduto la colpa più grande spetta al Mezzogiorno, che sono le sue abitudini e le sue tradizioni, le quali nocciono più d'ogni cosa, può piacere anche meno ai meridionali. La ricerca della verità non ha blandizie, e chi in questioni di natura così difficile porta animo sereno rischia di offender tutti. Ma poiché quanto dirò è frutto di coscienziose ricerche, di quattro anni di lavori assidui e di pazienti indagini, spero che mi varrà almeno il lungo studio. E se le mie parole saranno qualche volta aspre, io vorrei che fossero come l'aratro, il quale strazia e feconda la terra. Potrà uno sforzo di sincerità andare interamente dispersi. Due cose sono oramai fuori di dubbio: la prima è che il regime unitario, il quale ha prodotto grandi benefizi, non li ha prodotti egualmente nel Nord e nel Sud d'Italia; la seconda è che lo sviluppo dell'Italia settentrionale non è dovuto solo alle sue forze, ma anche ai sacrifizi in grandissima misura sopportati dal Mezzogiorno. Quando per la prima volta sollevai la questione del Nord e del Sud e cercai farla passare dal campo delle affermazioni vaghe, in quello della ricerca obiettiva, non trovai che diffidenze. Molti degli stessi meridionali ritenevano pericolosa la discussione e non la desideravano. La vita politica del Mezzogiorno è assai misera, abbondano in essa avvocati dal ricco eloquio e dalle povere idee, cui nulla più giova dello stato presente di anarchia morale e di disordine. I deputati del Mezzogiorno - fatte alcune stimabilissime e veramente nobili eccezioni - sono i bassi fondi di tutte le maggioranze; disposti nella più gran parte per una piccola concessione attuale a rinunziare a ogni avvenire. E fra essi che si reclutano i difensori di qualunque violazione allo Statuto; è fra essi che pare abilità e intelligenza il passare per tutti i partiti, e vi è chi, tra i più fortunati, ha avuto tutte le gradazioni dell'arcobaleno, e pure non è in ragione di disprezzo, ma piuttosto di successo e di invidia. Poiché si crede che giovi alla carriera, mostrano attaccamento cieco alle istituzioni, uomini che non farebbero nulla le per salvarle; e spesso il pretesto delle istituzioni serve a ingrandire opere fatue, o a creare pericoli immaginari, o a scopo di basse vendette. Così a me, che ho cercato di portare in questa questione che mi pareva la più grave della politica italiana, tutta l'anima, è stato fatto anche rimprovero di esaltare il passato e di offendere i sentimenti patriottici. On ne parle jamais de sans perte, ha detto il vecchio grande maestro della prosa francese. Pure qualche volta occorre parlarne per distruggere le prevenzioni. Il mio temperamento spiega la mia filosofia, scriveva in una celebre lettera Fichte a Reinhold: la nostra vita spiega le nostre idee. Come io potrei il tentare un'apologia del passato? E che cosa potrei lodare di un passato che non ha se non tristezze? La mia famiglia è stata tra le più perseguitate, anzi tra le più tormentate del passato regime, e quando io di esso ho voluto parlare con serenità, com'era dovere, coloro che lo avevan servito o sfruttato, o almeno non avevan combattuto contro di esso, han detto che io volessi fare l'apologia dei Borboni. Poiché appartengo a una razza di perseguitati e non di persecutori, ho appunto perciò maggiore dovere della equità; e trovo che a quaranta anni di distanza cominciamo ad avere l'obbligo e il bisogno di giudicare senza preconcetti. Quando il re Umberto giunse a Napoli per inaugurare, nella primavera del 1900, quella Esposizione d'igiene, che fu una grande sofisticazione e una grande vergogna imposta alla città di Napoli da avventurieri piovuti da ogni parte, alcune amministrazioni, di cui fu provata la disonestà e che poi caddero in seguito a clamoroso processo penale, vollero tentare ancora una volta la speculazione, così dannosa al Mezzogiorno, di far credere ch'esso sia una grande Vandea, una specie di baluardo delle istituzioni. La verità è che la educazione politica del Mezzogiorno non si è peranco formata; che, considerato nella forma più generale, esso non e ne conservatore, né liberale né radicale. Non è alcuna cosa: è un paese povero, che si è visto tormentare ancor più dal nuovo regime; dove la coscienza collettiva non ha saputo reagire, e che è ancora in preda ai peggiori avventurieri della politica. Una delle letture più interessanti è quella dell'Almanacco Reale dei Borboni e degli organici delle grandi amministrazioni borboniche. Figurano quasi tutti i nomi di coloro che ora esaltano più le istituzione nostre; o figurano tra i beneficati, i loro padri, i loro fratelli, le loro famiglie. E sono in generale costoro che più parlano di danni del passato regime; e ne parlano coloro che lo avrebbero dovuto servire da ufficiali dell'esercito, da funzionari largamente retribuiti. Capita perfino di trovare tra i nomi dei revisori del Borbone coloro che adesso più si offendono di vedere del passato regime dare giudizio onesto. E' sistema troppo comodo di spiegare la storia quello di attribuire ogni causa di malessere o inferiorità a un uomo o ad una monarchia. La savant doit avoir l'esprit donteur ha detto Claudio Bernard: noi dobbiamo accogliere con animo esitante i giudizi che abbiamo ereditati, premurosi solo della verità, che è preferibile sempre ad ogni cosa. Ora, ciò che noi abbiamo appreso dei Borboni non è sempre vero: e induce a grave errore attribuire ad essi colpe che non ebbero, ed è fiacchezza d'animo per noi tutti non riconoscere i lati manchevoli del nostro spirito e della nostra educazione, e voler attribuire ogni cosa a cause storiche. Questi concetti ebbi già a formulare in Nord e Sud. Scrivevo allora a proposito delle famose accuse mosse alla vigilia della caduta dei Borboni da Antonio Scialoja: "Se gl'italiani, diceva Antonio Scialoja, avessero dovuto scegliere fra le imposte e i debiti del Piemonte e la floridezza del reame di Napoli, avrebbero optato per il Piemonte. Bisognava dire: se la parte più eletta dell'Italia. È un grave torto credere che il movimento unitario sia partito dalla coscienza popolare: è stata la conseguenza dei bisogni nuovi delle classi medie più colte; ed è stato più che altro la conseguenza di una grande tradizione artistica e letteraria. Ma le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re ed i liberali, sono stati sempre per il re: il '90, il '20, il '48, il '60, le classi popolari, anche mal guidate o fatte servire a scopi nefandi, sono state per la monarchia e per il re. Questo concetto popolare (che ho studiato largamente altrove) non è, come si dice, effetto dell'ignoranza o del caso. I Borboni temevano le classi medie e le avversavano; ma tenevano anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro concezione gretta e quasi patriarcale non si preoccupavano se non di contentare il popolo, senza guardare all'avvenire, senza aver vedute, prospettive. Bisogna leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull'amore delle classi popolari. Il re stesso scriveva agl'intendenti di ascoltare chiunque del popolo: li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti, li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni. Leggendo quei rapporti, quelle lettere, quelle circolari si è spesso vinti da quel caldo senso di simpatia popolare che traspira da ogni frase. Ma anche da ogni frase esce l'idea che il popolo possa essere contento solo se ignorante, se vivente nell'amore dell'altare e del trono. Fra il 1848 e il 186O si cercò di economizzare su tutto, pure di non mettere nuove imposte: si evitavano principalmente le imposte sui consumi popolari. Niente scuole, ma niente balzelli; poche opere pubbliche, ma pochi oneri. Il re dava il buon esempio, riducendo la sua lista civile spontaneamente di oltre il 10 per cento; fatto questo non comune nella storia dei principi europei, in regime assoluto o in regime costituzionale. Era spesso un "paternalismo" corrompente, volgare: si cercava contentare un po' tutti. Piccoli impieghi e la maggior parte di poco conto e senza diritto a pensione; ma folla enorme di impiegati. Chi sapeva leggere, se non diventava un liberale, diventava senza dubbio un impiegato. I figli degli impiegati erano spesso impiegati a dieci anni, come al Banco di Napoli; qualche volta prima dei dieci anni. Si amava la vita quieta, il vivere di tradizione e di ammirazione del passato. E quando il passato non era glorioso vi erano sempre i poeti compiacenti: e gli storici erano anche più compiacenti dei poeti. Il Mezzogiorno, che non ha avuto né una grande arte, né una grande letteratura, veniva in quelle pubblicazioni enfatiche mostrato come il centro della storia di Europa. Da Archimede, che fu un greco di Siracusa, a Pitagora, che fu un greco della Magna Grecia, tutto era pretesto a parlare di glorie passate: e quando i paesi non avevano glorie di alcun genere, si gloriavano che nel loro territorio fossero avvenute delle piccole o grandi battaglie, o che le loro terre fossero state dominate da un feudatario piuttosto che da un altro. Anche ora le vecchie idee di quei tempi non sono affatto scomparse, e si continua a parlare della grandezza passata piuttosto che del dovere presente. La borghesia non amava la lotta e la monarchia l'amava anche meno. Era la vecchia Europa con tutte le sue avversioni per ogni cosa nuova, con tutte le sue debolezze. Si evitavano le concessioni industriali; si evitava che si formassero banche o società per azioni; si temeva che la speculazione penetrasse e con essa il desiderio di cose nuove. Si amava un quietismo monacale: un popolo contento per vita tranquilla, una borghesia da tenere a bada con gl'impieghi e con la cura; una nobiltà ossequente e legata alla tradizione. Si amava molto di divertirsi, di svagarsi; si temevano le grandi energie individuali: la vecchia Europa, con tutti i suoi pregiudizi. Masse di monasteri, la carriera del sacerdozio facile; il brigantaggio come minaccia perenne; una grandissima città per capitale con un gran numero di province quasi impenetrabili. Ma si voleva un'amministrazione prudente, accorta. La finanza era rigida, la banca onesta. Il Banco di Napoli dal 1818 al 1861, sopra una media annuale di 69 milioni di anticipazioni e di sconti, non perdette che 65.000 lire all'anno, meno della Banca d'Inghilterra, meno della Banca di Francia, meno forse di qualsiasi grande banca al mondo. Con un'assai più grande ricchezza il Regno delle Due Sicilie rimaneva in una fase statica; il Piemonte fra il 1848 e il 1868 fu sempre in una fase dinamica. Lo squilibrio grandissimo imponeva di accelerare il movimento. Quale era la situazione dei vani Stati al momento dell'annessione? Quando l'unità si formò, quali erano gli oneri che ciascuno Stato portava? Quali erano i vantaggi? È fuori di dubbio che a Napoli le imposte erano, data la ricchezza degli abitanti, almeno tre volte inferiori che in Piemonte: di molto inferiori senza dubbio a quelle degli altri Stati della penisola. Nel 1800, la situazione del Regno delle Due Sicilie, di fronte agli altri Stati della penisola, era la seguente, data la sua ricchezza e il numero dei suoi abitanti. l. Le imposte erano inferiori a quelle degli altri Stati;2. I beni demaniali e i beni ecclesiastici rappresentavano una ricchezza enorme e, nel loro insieme, superavano i beni della stessa natura posseduti dagli altri Stati;3. Il debito pubblico, tenutissimo, era quattro volte inferiore a quello del Piemonte e di molto inferiore a quello della Toscana;4. Il numero degli impiegati, calcolando sulla base delle pensioni nel 1860, era di metà che in Toscana e di quasi metà che nel Regno di Sardegna;5. La quantità di moneta metallica circolante, ritirata più tardi dalla circolazione dello Stato, era in cifra assoluta due volte superiore a quella di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme .Il Mezzogiorno era dunque, nel 1860, un paese povero; ma avea accumulato molti risparmi, avea grandi beni collettivi, possedeva, tranne la educazione pubblica, tutti gli elementi per una trasformazione. Invece la opinione diffusa allora in Italia (è scomparsa ora del tutto?) era che il Mezzogiorno fosse un paese assai ricco; un paese naturalmente ricco, e che solo per colpa di governi non avesse dato ciò che poteva: bastava la libertà, magari aggravata da imposte, per dare la ricchezza a tutti. Quando il primo re d'Italia entrava in Napoli, Ruggero Bonghi dettava per lui, in nome del popolo napoletano, indirizzo in cui l'Italia meridionale era dipinta come paese troppo ricco e perciò appunto preda di stranieri e di male dinastie. I primi deputati meridionali, scelti presso che tutti fra i patrioti più notevoli, ignoravano quasi completamente il Mezzogiorno. Erano in gran parte ideologi; antichi profughi; avvocati, maestri della parola e viventi di vecchie tradizioni letterarie. In ogni occasione ripetevano che l'Italia meridionale era ricca; che bastava venissero la istruzione a illuminare le menti e la libertà a far nascere le industrie. Ond'è che la illusione della immensa ricchezza naturale, lasciata languire solo per colpa del dispotismo, era diffusa dovunque, anche e soprattutto fra i settentrionali. Valentino Pasini affermava Napoli ricchissima; Depretis, alle difficoltà del nord d'Italia contrapponeva la prosperità delle "ricche province del Regno di Napoli"; Sella chiamava Napoli la città più cospicua del nuovo Regno. I meridionali, lungi dal diradare questi pericolosissimi pregiudizi, li eccitavano, anzi spesso li determinavano: per ignoranza della realtà, per quella vaghezza di frasi che è stata sempre la nostra rovina, per pregiudizio spagnolesco di grandezza. Ora, se l'Italia non è un paese naturalmente ricco, l'Italia meridionale è la parte più povera di tutta l'Italia, e, date le condizioni attuali della produzione, è anche quella in cui il miglioramento è più difficile. L'Italia meridionale del continente quasi non ha alcuna ricchezza del sottosuolo; e non ha mai avuto un grande sviluppo industriale. Base di tutta la vita sociale è l'agricoltura, unica fonte di ricchezza. Ancora adesso, come quaranta anni or sono, la grande industria manifatturiera non è quasi sorta. Se si tolgano gli stabilimenti governativi, non vi è traccia di opifizi se non in una piccola zona dintorno a Napoli, a Bari, nella valle dell'Irno e in una piccola parte di Terra di Lavoro. L'agricoltura è fatta soprattutto di acqua: ora la grandissima parte dell'Italia meridionale difetta di acqua. Non è solo l'Apulia siticulosa, ma è gran parte del Mezzogiorno. L'umidità relativa appare quasi generalmente scarsa; non vi sono veri fiumi navigabili; i corsi d'acqua per lavori d'irrigazione sono nel versante adriatico pochissimi; nel versante tirreno in maggior quantità, ma non utilizzati che in poca parte e, per lo stato in cui sono ridotti, utilizzabili solo con molti sforzi e grandi spese. La popolazione del Mezzogiorno è agglomerata quasi dovunque: esistono alcune oasi di popolazione sparsa in Abruzzo, in Campania, in Terra di Bari e in Terra d'Otranto. La malaria è generalmente più diffusa che nelle altre parti d'Italia. La sola Basilicata, che rappresenta appena l,74% tutta la popolazione del Regno, e nel 1897 aveva appena 549.771 abitanti, ha dato più morti di malaria di tutta l'Italia settentrionale, la quale ha 11 milioni e mezzo di abitanti e rappresenta 36,8% della popolazione del Regno. Tranne qualche piccolo lembo litoraneo e qualche piccola zona di Abruzzo, non vi sono che tre punti i quali abbiano una fertilità naturale notevole: la Campania così detta felice; la piccola conca di Avellino e una gran parte della Terra di Bari. Ma in queste zone, dove la vita era più facile, la popolazione è cresciuta in forma vertiginosa; in forma che non par quasi credibile per paesi i quali non hanno altra risorsa fuori dell'agricoltura. La provincia di Napoli, nel 1898, avea per chilometro quadrato 129 abitanti; Caserta 142, a causa del circondano di Nola, dove la fertilità ha spinto la popolazione fino a 402 abitanti per kmq. La provincia di Salerno ha 116 abitanti per kmq., e dove è fertile, come nel circondano di Salerno, giunge a 334; la Terra di Bari, densa dovunque, raggiunge 154. Anche le province più sterili, come Cosenza, raggiungono 71 abitanti, e Potenza 55. Dov'era possibile cercare la vita, in questo sterile Mezzogiorno, l'uomo l'ha cercata; spesso con un'asprezza di lavoro che non pare credibile; con una tenacia di attaccamento che non par verosimile. Ora si può affermare che, dato il grado di fertilità naturale della terra, e data la mancanza di industrie, nessun paese è più denso del Mezzogiorno, che pare viceversa scarso di uomini. Prendiamo i più ricchi dipartimenti agricoli della Francia: Lot-et-Garonne, dove sono grossi centri e industrie potenti relativamente al territorio, ha assai meno della metà degli abitanti della provincia di Salerno; Pas-de-Calais, dove sono industrie solide, ha assai meno abitanti di Bari; la Cote d'Or, le Alpes-Maritimes, la Charente, hanno meno abitanti della Basilicata, nella più gran parte sterile e malarica. Quando si rifletta che in media la Prussia ha presso a poco la stessa densità delle Calabrie; che le Puglie hanno quasi la densità del Wurtemberg, mirabile per progressi industriali; che le Puglie hanno poi una densità che supera quella della prospera Baviera di 22 abitanti per kmq., non si può pensare senza una punta di malevolenza a quegli ideologi, che hanno descritto il loro, il nostro paese come naturalmente fertile e felice. Povera campagna di Basilicata, ove la malaria attossica; povere terre di Calabria, senza letizia; Capitanata triste e senz'acqua; poveri monti del Sannio, ancora più deserti che in passato, come la ideologia vi è stata funesta. Valutazioni recenti della ricchezza privata italiana non vi sono: io spero poterne presto dare una. Ma quelle fatte dieci anni or sono si trovan tutte concordi nell'attribuire una grande povertà a questo Mezzogiorno, ch'era stato descritto come una specie di terra promessa, a cui il dispotismo avea impedito che altri popoli affluissero. Dieci anni or sono il professore Pantaleoni, in un suo notevole studio, ragguagliando a 100 la ricchezza dell'Italia, attribuiva a ciascuna regione la seguente proporzione: Piemonte e Liguria 16%, Lombardia 14, Lazio 10, Veneto 9, Italia meridionale 7 e mezzo, Marche e Umbria 7, Sicilia 6 e mezzo, Sardegna 5. Un meridionale, secondo il Pantaleoni, ha mediamente la metà della ricchezza di un settentrionale, e cinque cittadini dell'Italia centrale hanno poco più della ricchezza di quattro settentrionali e di sette meridionali. Sono calcoli di relativa approssimazione; ma si può dire che tutte le ricerche coincidano più o meno con queste cifre. Da dieci anni la ricchezza dell'Italia settentrionale è grandemente cresciuta; nel Mezzogiorno vi è invece arresto e in qualche provincia vi sono anzi tutti i sintomi della depressione. La Lombardia, il Piemonte e la Liguria, godendo tutti i benefizi di un regime doganale fatto quasi ad esclusivo loro benefizio, dopo avere goduti i frutti di una politica finanziaria, che per quaranta anni riserbava ad essi i maggiori benefizi e al Sud i maggiori danni, sono in trasformazione profonda; sicché il distacco fra il Nord e il Sud si accentua. E qualunque finzione per negare, non serve a nascondere la verità, che si manifesta in tutte le forme. L'antico Regno delle Due Sicilie era dunque più povero del resto d'Italia; bene inteso però che l'isola di Sicilia avea ed ha ricchezze naturali da sfruttare di gran lunga maggiori di quelle del Mezzogiorno continentale. La zona orientale della Sicilia è di fertilità meravigliosa; la zona settentrionale ha anch'essa vaste estensioni di terre fecondissime. Se le province di Caltanisetta e di Girgenti e in generale la zona interna dell'isola sono più povere, esse hanno però nelle miniere di zolfo una grande risorsa. Quando nel 1860 il Regno delle Due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II aveva cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che Antonio Scialoja movea alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica. Ben vero che l'opera di Scialoja fu nobilmente e altamente politica e va considerata tenendo presenti i fatti che la determinarono. Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione. È vero che le province erano in uno stato quasi medioevale, senza strade, senza scuole; ma è vero pure che vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora. Il commissario governativo mandato a Napoli da Cavour, dopo l'annessione, il cavaliere Vittorio Sacchi, riconosceva tutti i meriti della finanza napoletana, e nella sua relazione ufficiale non mancava di additarli. All'atto della costituzione del nuovo Regno, il Mezzogiorno, come abbiam già detto, era il paese che portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme. Or, poiché si diceva che il Nord fosse meno ricco del Sud e si credeva che molto avesse sacrificato alle lotte della indipendenza e della unità, parve anche assai naturale che i meridionali pagassero il loro contributo. Così i debiti furono fusi incondizionatamente e il 1862 fu unificato il sistema tributario ch'era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che avevano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po. Non vi fu nessuna malevolenza. Si dicea - e i meridionali diceano - l'Italia del Sud e ricca; e bene perché non dovea pagare i vantaggi dell'unità, essa che vi avea meno contribuito? La burocrazia meridionale era borbonica; si potea non licenziarla quasi in massa? Occorreva, in vista di una guerra coll'Austria, e per compiere l'unità, trasformare i paesi che doveano essere il teatro della guerra. Si potea non spendere tutte le risorse nel Nord? Chi può discutere dinanzi al pericolo? Vi era bisogno di grandi entrate; e si potea sofisticare sul modo? In Italia noi abbiamo visto che lo Stato prende più che in tutti gli altri grandi paesi di Europa, relativamente alla produzione annuale della nazione. Ebbene: dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell'Italia settentrionale. Le grandi spese per l'esercito e per la marina; le spese per i lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord. Per quaranta anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l'ha compiuta ha mutato il regime doganale. E il Mezzogiorno che non ha, soprattutto che non avea nulla da proteggere, ha funzionato dopo il 1887 come una colonia, come un mercato per le industrie del Nord; che poi, raggiunto un certo grado di sviluppo, han potuto esportare e sfidare anche l'aria libera della concorrenza. Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali. Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Spesso questi ultimi sono stati poco intraprendenti, ma tante volte, quando hanno voluto essere, si sono urtati, soprattutto nei primi anni, contro una burocrazia interamente avversa e diffidente. Le più grandi fortune dell'Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte (la conversione delle obbligazioni tirrene è classico esempio) spiega non pochi spostamenti di ricchezza. Non educato ad alcun regime di libertà, il Mezzogiorno usciva, dopo il 1860, da uno stato quasi medioevale. Esso fu, esso è tuttavia nella politica italiana un elemento di disordine. I primi deputati non rappresentavano una condizione reale di cose; ma solamente l'entusiasmo, oserei dire la illusione, della forma nuova. Più tardi la cultura politica bassa e il debole risveglio delle classi popolari, determinarono nel Sud una deputazione politica assolutamente inferiore; una massa amorfa ove prevalevano gli avvocati in cerca di cause. Fatte alcune nobili eccezioni, la rappresentanza del Mezzogiorno vale assai poco. Molti di coloro che ci comandano, noi non vorremmo avere in domesticità. Per la più gran parte dei deputati del Mezzogiorno una croce di cavaliere ha più importanza di un trattato di commercio; anzi importa più che l'indirizzo di tutta la politica finanziaria. Il Governo, da parte sua, ha avuto interesse a mantenere il Mezzogiorno come un feudo politico, votante per tutti i Ministeri. Come nelle vie di campagna sorge di tratto in tratto qualche croce a ricordare un antico misfatto, nella politica meridionale molte croci spiegano assai misfatti. Soprattutto dopo il 1876 ogni ritegno è svanito. La Destra fu avversa al Mezzogiorno: o, per dir meglio, essa che non avea alcun grande programma economico, ebbe politica interamente opposta agli interessi meridionali. Era inoltre un partito chiuso, spesso una vera consorteria, con capi eminenti, con gregari insignificanti; e credea politica conveniente creare grossi interessi privati su cui assidere il suo potere. Ond'è che l'Italia meridionale fu il campo delle agitazioni di Sinistra. La Sinistra meridionale, di cui non sarà mai detto male a bastanza, non fu un partito, fu l'insieme di tutti gli appetiti, lo sfogo di tutti i malcontenti: fu la negazione di ciò ch'era stata la Destra. Si personificò spesso in uomini privi di ogni morale, che confondevano interesse pubblico e privato e il primo sottomettevano quasi sempre al secondo. Ebbe nella politica qualche volta azione utile: nella morale pubblica quasi sempre dannosa. Raccoglieva antichi borbonici, liberali nuovi, ma abituati alle abitudini vecchie e desiderosi di prepotere; amanti dei metodi dell'assolutismo peggiore quando erano al governo, predicatori della peggiore anarchia quando erano all'opposizione. Vi erano in essa alcuni capi illustri per il passato; altri il cui passato era stato ingrandito; altri che la parola abbondante rendeva illustri e pericolosi. Dopo il 1876 soprattutto il Mezzogiorno è stato assai più di prima dato in preda ai peggiori avventurieri. Da ogni Governo, più o meno, si è speculato sulla sua ignoranza, sulla sua povertà, sui suoi dolori. Anche adesso province intere sono sotto la dominazione di avventurieri parlamentari, che vi esercitano il loro potere mantenendolo su organizzazioni locali pessime. Date le vicende del regime rappresentativo, la tentazione di avere una maggioranza solida, di farsi la maggioranza, come si dice in gergo parlamentare, vince più o meno tutti. D'altronde, per male tradizioni, l'Italia meridionale pare che essa stessa invochi e solleciti ciò che più le nuoce. Così invece di reagire il Sud ha acuito esso medesimo il suo male, determinando spese inutili, chiedendo per ignoranza politica fastosa, che non potea pagare: invece di impedire lo sperpero l'ha secondato, e spesso l'ha voluto. Senza dubbio molti grandi avvocati l'Italia meridionale ha dati; molti che sono arricchiti. Molti arricchiscono tuttavia, facendo servire il potere politico a corrompere e a inquinare la giustizia. Ma ciò e più grande ragione di tristezza. Assai spesso i politici meridionali hanno spiegato la loro opera in favore delle tendenze e degli scopi peggiori; ma anche in questo caso è accaduto che ne hanno ritratto vantaggio, se ve n'era, quasi sempre le province settentrionali. Anche le tendenze imperialiste del Sud, frutto, più che di ogni altra cosa, di ignoranza, sono state sfruttate (o ironia dei fatti!) da grossi interessi del Nord. Non posso qui ripetere quanto ho detto altrove; ma la lettura dei miei studi precedenti dimostra queste cose a evidenza. La pochezza dei rappresentanti del Mezzogiorno e la confusione delle idee è stata tale che, per tanti anni, si è detto e si è pubblicato nella Camera e fuori che il Mezzogiorno pagava poco e viceversa otteneva il maggiore benefizio delle spese dello Stato! In altri termini si è aggiunta la ironia crudele al danno; ironia dei fatti, se non delle intenzioni. Ora dalle mie indagini risulta che, proporzionalmente alla sua ricchezza, il Sud paga per imposte di ogni natura assai più del Nord; e viceversa lo Stato spende molto meno. La rendita pubblica a sua volta si è andata a concentrare dove maggiore è il numero dei grandi servizi di Stato e maggiore il numero. delle spese. L'ordinamento del nostro sistema tributario è tale che una provincia povera come Potenza paga più di Udine; e Salerno paga più di Como, mirabile per industrie e per traffici! Le grandi spese sono concentrate nel Nord: alcune per necessità, altre senza. Le spese navali si fanno quasi interamente in Liguria. Nel Nord d'Italia vi sono 10 soldati per ogni 1000 abitanti e nell'Italia meridionale meno di 4. Gli istituti di istruzione, di giustizia, di educazione industriale sono concentrati tutti allo stesso modo, sicché il Mezzogiorno, appare qualche volta una landa delle istituzioni, ove il Governo è più assenteista dei proprietari. In questa landa la civiltà non è rappresentata spesso che dai carabinieri; e il Governo non appare che sotto le forme della prepotenza e della violenza, costretto, per conservare i suoi feudi politici, a consegnare ogni provincia, ogni zona nelle mani dei peggiori avventurieri parlamentari. Si credeva che le grandi spese per lavori pubblici fossero state nel Mezzogiorno e ho dimostrato che non è vero; si credeva che i meridionali avessero invaso gli impieghi e ho trovato che tra gli impiegati il minor numero era di meridionali. Tanto han potuto la nostra poca educazione politica e il folle pregiudizio della nostra ricchezza! Ma, si dice, l'Italia meridionale ha grandi risorse che non mette a frutto. A Milano, che è la città meno unitaria, avendo ricavato i maggiori benefizi dalla unita, si ritiene che i baroni meridionali, in una economia quasi feudale, nascondano le loro ricchezze. Quali ricchezze? e che cosa non si mette a frutto? La più grande quantità di rendita pubblica si trova (se si tolga il Lazio) in Liguria, in Lombardia, in Piemonte; assai poca è la massa di rendita che si trova nel Mezzogiorno ed è stata comperata alle condizioni più svantaggiose. Un abitante della Liguria ha 15 volte più rendita pubblica di un abitante della Calabria; e un abitante del Piemonte ne ha 7 volte più di un abitante di Basilicata. E dove sono le ricchezze che rimangono inoperose? Il risparmio è così esiguo sotto tutte le forme, che quasi non pare che possa ridursi a così poco. Nel 1896 mentre l'Italia settentrionale avea nelle casse di risparmio ordinarie quasi 800 milioni; 140 nelle società cooperative di credito; 35 nelle società ordinarie di credito; 244 nelle casse postali di risparmio e avea inoltre banche poderose e istituzioni commerciali di ogni nome; nell'Italia meridionale, dove si vive una vita assai grama, non vi erano che pochi risparmi. L'Italia continentale del Sud, che rappresenta il 23% della popolazione italiana, mentre la Lombardia rappresenta appena il 13%, non avea nello stesso anno e sotto tutte le forme che poco oltre 160 milioni di risparmio; mentre la Lombardia ha nelle sole casse di risparmio ordinarie assai più che mezzo miliardo. Per ignoranza delle cose, per fatua e dannosa tradizione, i meridionali stessi ripetono che il Mezzogiorno ha grandi ricchezze inoperose. Dove? Sotto quale forma? Senza dubbio i pochi ricchi del Mezzogiorno meritano tutto il biasimo per le loro abitudini di Spagna; per essersi trasformati in semplici percettori di interessi e di rendite; hanno grande responsabilità per essere impari al loro compito; ma se questo fatto è assai riprovevole nelle province meridionali ed è più grave che altrove, è forse esclusivo di esse? La politica finanziaria dello Stato ha trasportato una massa ingente di ricchezza, qualche miliardo forse, dal Sud al Nord. La politica doganale, soprattutto dopo il 1887, ha acuito il contrasto d'interessi. Per molti anni due terzi degli italiani hanno lavorato a beneficio della Liguria, del Piemonte e soprattutto della Lombardia. Così la differenza fra il Nord e il Sud si è acuita: l'Italia settentrionale e l'Italia meridionale sono ora a una distanza maggiore che nel 1860. La mortalità elevata, quando assume carattere permanente è indice di disagio e di povertà. Ora la mortalità in Italia diminuisce; ma diminuisce in assai diversa misura. Nel periodo 1865-1869 era nell'Italia settentrionale di 29,06 per 1000 abitanti, nella meridionale di 31,86: la differenza non era grande. Nel 1898 è stata nell'Italia settentrionale di 21,24 e nella meridionale di 25,07. Se la mortalità diminuisce da per tutto, diminuisce disegualmente. Sono in Italia gli Abruzzi e la Puglia dove si muore di più: e sono la Liguria e il Piemonte dove si muore dimeno. Così per la delinquenza e per la istruzione: se vi e miglioramento in tutta la penisola, ancora più si è acuito il dissidio fra il Nord e il Sud, indice di situazioni differenti. Le poche statistiche sui consumi che noi possediamo ci mettono in grado di affermare che mentre lo sviluppo di essi è notevole nel Settentrione, in molte zone del Mezzogiorno vi è tendenza alla diminuzione. Caratteristico il fatto della città di Napoli, dove le cifre dei dazi indicano una situazione orribile e quasi tormentosa. Così le imposte, avendo raggiunto un alto grado di pressione, si esigono nel Sud con difficoltà: e, per il regime tributario italiano, ricadono con maggiori gravezze sui contribuenti meridionali. La media degli aggi delle esattorie che è di 0,91 in Lombardia, di 0,99 in Piemonte, di 1,09 in Liguria, raggiunge 2,39 in Abruzzo, 3,37 in Calabria, 4,02 in Basilicata. Masse enormi d'immobili sono espropriate ogni giorno nel Sud. E siamo giunti al punto che la Calabria ha più espropriati dell'Italia centrale e dell'Italia settentrionale unite assieme; anzi, che la Basilicata ha da sola un numero di espropriati che è di tre volte superiore a quello dell'Italia settentrionale, mentre rappresenta un ventunesimo di quella popolazione. Qualcuno ha detto che vi è nel Mezzogiorno l'abitudine di farsi espropriare. E uno spirito un po' macabro: e, come ho detto in Nord e Sud, non è molto dissimile dal consiglio che è in alcuni vecchi libri di cucina piemontese: il coniglio ama di essere scorticato vivo. La città di Napoli, la quale nel secolo XVI era la seconda città di Europa per numero di abitanti e veniva subito dopo Parigi, ora non è più tra i centri maggiori. In questa diminuzione relativa è un fatto di ordine generale, il quale si riattacca alle mutate condizioni della produzione e del traffico. Ma gli ordinamenti economici e finanziari del Regno d'Italia hanno accentuato questo fatto. Nel 1862 la città di Napoli aveva quasi il doppio della popolazione di Milano e ora la supera di 89 mila, avea quasi quattro volte la popolazione di Genova e ora ha poco più del doppio; avea più del doppio della popolazione di Torino e ora la supera di un terzo. E ciò senza parlare di Roma, che ha avuto sviluppo enorme. Fra qualche decennio Napoli non sarà né meno la più popolosa città italiana. È vero che i centri minori del Mezzogiorno si sono assai sviluppati e che la vita delle province è di molto aumentata. La città di Napoli vivea quasi del tutto prima del 1860 sulla borghesia delle province e sul reddito agricolo delle grandi famiglie fondiarie; ma vivea soprattutto sullo Stato. Vi erano una corte sontuosa; ministeri e legazioni con abitudini fastose; uno stuolo enorme d'impiegati; 40 mila soldati all'incirca. L'elemento indigeno era originariamente più povero: le famiglie borghesi della città sono quasi tutte trapiantate a Napoli in tempo recente e pochissime possono provare di esservi da un secolo. Il ceto medio era composto da proprietari delle province, che venivano a Napoli quasi per diporto e finivano col rimanervi; da impiegati e dipendenti dello Stato; da causidici numerosissimi; da grande numero di appartenenti agli ordini ecclesiastici; da pochi grossi commercianti stranieri. Vi era un quinto di ricchi, o di causidici, o di impiegati, e vi erano quattro quinti di poveri che lavoravano per essi, o, per dir meglio, al loro servizio. Perduta la capitale, Napoli avrebbe dovuto trasformarsi in grande città industriale. Un popolo di 600 mila abitanti non è mai vissuto e non può vivere sulle spese dei forestieri: i quali, del resto, per le mutate condizioni, non vengono più a svernare se non in piccolo numero e per breve tempo. Ma mancava l'educazione... e mancò la possibilità. Le vendite tumultuose dei beni demaniali, l'aggravamento delle imposte, le grosse emissioni di rendita, la perdita del grosso mercato di consumo, determinarono uno stato di depressione, che si andò sempre più aggravando. D'altronde, poiché il paese non avea educazione politica, fu dato in preda a tutte le clientele più infami, da governi che non voleano assicurarsi se non delle maggioranze. E questo stato di cose ha impedito ogni sviluppo di vita industriale. Or sono oltre trenta anni che la città di Napoli presenta tutti i sintomi della decadenza: non sorgono nuclei industriali, i traffici rimangono quasi stazionari, la vita locale diventa più difficile. Migliorate in qualche modo le condizioni sanitarie, l'acqua limpida e abbondante ha fatto diminuire grandemente il numero delle malattie infettive: ma è cresciuta la mortalità derivante da poca e poco sana alimentazione. La morbilità e la mortalità per esaurimento aumentano: sintomo di uno stato di cose rattristantissimo. La situazione di Napoli si presenta anzi spaventosa. La tubercolosi è in aumento rapido e continuo; le enteriti frequentissime, indice di nutrizione povera e malsana, sono, caso unico in Italia, raddoppiate solo a Napoli negli ultimi anni; tutti i sintomi della povertà economica coincidono con la decadenza fisica della popolazione. Vi sono piccole città nell'Italia del Nord, che hanno una potenza industriale superiore a Napoli: certo tutta la provincia di Napoli, che contiene così immane popolo, ha meno forza motrice nella industria della piccola provincia di Como. Massa enorme di uomini peggiora ogni giorno le sue condizioni di esistenza: e Napoli, caso unico nel mondo civile, presenta questo spettacolo: da dieci anni a questa parte, mentre la sua popolazione aumenta, diminuisce la quantità degli alimenti ch'essa consuma. Come nella parabola del dott. Sophus, che constatava che, quando le città litoranee aumentano, i pesci vanno via. Tutte queste cose invece di determinare nel Mezzogiorno una reazione violenta, hanno determinato solo uno stato di inerte e pericoloso malcontento. L'Italia meridionale non è conservatrice, né liberale; è apolitica. E come accade nei paesi apolitici, è turbata spesso da scosse brusche: sicché costituisce un pericolo rivoluzionario. Nessun paese d'Italia ha più mutato e più subitamente mutato dinastie di questo paese, che pure dette all'Italia il più antico e più grande reame. Ma ora, diffondendo l'idea, ch'esso sia e rimanga una specie di baluardo delle istituzioni, si viene a creare un equivoco permanente e a perpetuare una delle maggiori cause di danno. Un ministro meridionale ha detto che i sindaci del Mezzogiorno sono tutti fedeli cavalieri della Monarchia: cavalieri e commendatori sono senza dubbio quasi tutti; ma si può dire ch'essi non rappresentino nessuna tendenza politica. L'unità non vuole dire uniformità; il paese più unitario di Europa, la Francia, ha ordinamenti amministrativi speciali per Parigi e per Lione, e quasi dovunque le grandi città hanno regimi differenti. Ma anche la unità diventa pretesto di male. Cosi ora s'impedisce, sotto pretesto unitario, che Napoli abbia ordinamento amministrativo speciale e conforme ai suoi bisogni, e si vuole mantenere a ogni costo un sistema i cui risultati dolorosi non potrebbero essere più evidenti. La trasformazione rapida dell'Italia del Nord non è suo merito: è conseguenza di condizioni storiche e geografiche evidentissime. E così anche la depressione del Sud non risponde ad alcuna necessità etnica: ma solo a condizioni che possono mutare e che noi crediamo dovranno mutare. Il processo di trasformazione dell'Italia del Nord è evidente. In un primo tempo, formata la unità, essa ha dato, per ragioni politiche, i soldati, gl'impiegati, i costruttori: vi era maggiore cultura e vi era la pratica del governo rappresentativo. L'Italia del Nord ha profittato quasi esclusivamente di tutta la politica dello Stato: Liguria, Lombardia, Piemonte, soprattutto sono state le tre zone dove tutto è andato ad affluire. Per trenta anni tutte le spese dello Stato vi si sono quasi concentrate; così si sono formati i primi grandi nuclei di capitali, che hanno formazione storica e politica, piuttosto che industriale. Quando i capitali si sono concentrati, l'Italia del Nord, a cominciare dal 1872, poiché aveva il Governo e si trovava di fronte a regioni che non volevano nulla, ha orientato la politica doganale in tal modo che la sua trasformazione industriale è stata possibile: ed essa si è trovata ad avere una grande colonia di quasi 20 milioni di uomini, l'Italia del Centro, del Sud, le isole, che sono state un mercato sicuro e per necessità doganale fedele. Le tariffe del 1887 hanno accentuato questo fatto. D'altra parte, la condizione geografica dell'Italia del Nord, l'avere il confine di un paese di 30 milioni di uomini, ha reso rapida la trasformazione, che è avvenuta, meno per merito dei nostri industriali, che per l'azione esercitata dalle popolazioni e dai capitali dell'Europa centrale. Le prime grandi industrie che sono sorte nel Nord sono state fatte nella più gran parte da francesi, da tedeschi, da svizzeri: il libro d'oro dell'industria e del commercio di Lombardia abbonda di suoni gutturali e di desinenze aspre. E, d'altra parte, anche la mano d'opera si è perfezionata sotto l'influenza esterna del confine. Tutta l'emigrazione dell'Italia del Sud è temporanea e si dirige, in generale, oltre l'oceano: sono diecine di migliaia di contadini che vanno a vendere la forza di lavoro, e che in genere non tornano. L'Italia settentrionale - rassomigliabile in questo soltanto al Belgio, situato anch'esso tra grandi centri di produzione - ha una forma speciale di emigrazione temporanea: sono lavoratori che vanno ogni anno all'estero per due o tre mesi o più a trovar lavoro, e che dopo tornano in patria. Or bene sono questi operai che sono stati le sentinelle avanzate della grande industria. Tra Milano e la Svizzera i treni impiegano minor tempo che tra Napoli e Salerno; ora l'azione esterna è stata ed è grandissima. E però quando quest'azione si è svolta in un paese che per almeno trent'anni ha assorbito quasi tutte le spese di un grosso Stato di trenta milioni di uomini, ha trovato il terreno pronto per la trasformazione industriale; ha trovato i capitali. Il regime doganale ha fatto il resto. Ora, invece, l'Italia meridionale è rimasta medioevale in molte province, non per sua colpa, ma perché tutto l'indirizzo della politica interna, economica e doganale, ha determinato questo fatto. Tra l'Italia del Nord e l'Italia del Sud è ora più grande differenza che nel 1860; e, mentre la prima si avvicina ai grandi paesi dell'Europa centrale, per la sua produzione e per le sue forme di vita pubblica, la seconda ne rimane sempre lontana, e, per la produzione sua, rimane anzi assai più vicina all'Africa del Nord. Questa è la verità che nulla può mutare nel suo artificio: una verità che nessuno sforzo di logica può attenuare. L'unità non solo è condizione di sviluppo per l'Italia; ma è condizione di vita. E noi dobbiamo considerare come dannoso tutto ciò che affievolisca il sentimento unitario. Appunto per questo è bene, piuttosto che durare nell'equivoco, dire la verità intera, denunziare i fatti sì come sono: aprire gli occhi a chi non vuol vedere, gridare la verità in tutte le forme. Ma, per giustizia, bisogna riconoscere che la responsabilità di quanto è accaduto è soprattutto dei meridionali stessi. I meridionali hanno spesso qualità dissociali o antisociali: poco spirito di unione e di solidarietà, tendenza a ingrandire le cose o addirittura a celarle, per amore di falsa grandezza; per poco spirito di verità. Molti vanno in rovina per essere creduti ricchi, e così anche chi vede la situazione reale quasi non desidera che la verità sia manifesta agli altri. Manca lo spirito del lavoro nelle classi medie; manca la educazione industriale. Si sopporta che l'amministrazione e la politica siano spesso nelle mani di persone indegne, pure di averne piccoli vantaggi individuali. La prima condizione per lo sviluppo della ricchezza è una relativa sicurezza; e chi di noi è sicuro? Manca spesso la buona fede commerciale; manca più spesso ancora l'interesse di ogni cosa pubblica. Quanti fatti sono a provare questo stato di inerzia e di indifferenza! Ma bisogna pur dire che in tutto ciò non vi è nulla di fatale, e il giorno in cui la diffusione della verità avrà determinato nei meridionali l'idea che la salute è solo in loro stessi, nel loro spirito di opposizione, nella insofferenza dell'abuso, nel più grande spirito di solidarietà, quel giorno si sarà fatto un gran passo nella via della soluzione. La questione meridionale è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale: e lo spirito di opposizione all'abuso o alla invadenza governativa e lo sviluppo della morale pubblica gioveranno più di ogni cosa a far uscire il Mezzogiorno da questo stato, che è veramente assai triste. L'Italia meridionale non deve chieder nulla: deve solo formare la sua coscienza, perché reagisca alla continuazione di uno stato di cose che impoverisce e degrada. Deve, soprattutto, volere maggior sicurezza di ordinamenti; maggiore rispetto della legge; deve, più ancora, preferire agli aumenti di spese per qualsiasi ragione, la diminuzione delle imposte più tormentose. Continuerà ancora l'equivoco presente? Continuerà fino a quando noi non vorremo vedere la verità così com'è; fino a quando noi attenderemo la nostra salvezza dagli altri e non da noi stessi. |
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