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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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I MALI NAPOLETANI |
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di Leopoldo Franchetti |
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da: "Condizioni economiche ed amministrative delle provincie napoletane" Tip. Gazz. d'Italia, Firenze, 1875 |
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Fino adesso, ragionando delle classi inferiori, non ho parlato che dei contadini i quali, di fatti, la compongono quasi esclusivamente. La classe dei manifattori, in un paese quasi senza industrie speciali, si limita a quel numero di persone, relativamente ristrettissimo, il cui lavoro è richiesto dai pochi bisogni giornalieri di quelle popolazioni. |
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La condizioni degli artigiani è a un dipresso eguale a quella dei contadini. Quantunque il salario della giornata sia per i mestieranti un poco più alto, l'incertezza del lavoro pareggia le condizioni, se pure la loro condizione morale non peggiora. L'artigiano in generale si sente superiore al contadino e quando manca di lavoro sdegna per lo più di cercar mezzi di sussistenza fuori del suo mestiere, coi lavori di campagna, col portar pesi, ecc. Lo stare non solo di notte ma anche di giorno in città e la continua vicinanza delle bettole tira fuori di tasca all'artigiano quei denari che può avere; d'altra parte, il genere di vita della moglie che non lavora in campagna, la porta ad una certa ambizione nel vestire che la contadina non ha. Per queste ragioni l'artigiano è, per indole, portato meno ancora del contadino a tenere economie in denaro. Da ciò nasce che in alcuni luoghi dove, per i lavori ferroviari e stradali, i salari, specialmente dei muratori, sono cresciuti, l'effetto, da quanto ho sentito, è stato non un miglioramento ma un peggioramento della condizione degli operai perché sono cresciuti i loro bisogni. Laonde, nella generalità, la miseria è estrema ed i costumi sono corrotti. Specialmente tra gli artigiani dei paesi accade che padri e madri vendano le figlie e le mogli... In alcuni luoghi, dove l'agglomerazione degli artigiani è un poco maggiore, ho notato qualche segno che almeno in apparenza accennerebbe ad un movimento intellettuale degli operai diretto a migliorare in un modo o nell'altro la loro condizione... Un tale movimento, dato che esista realmente, se potesse esser diretto da persone oneste, disinteressate, istruite ed intelligenti, se sostenuto da stabilimenti seri di risparmio e di credito popolare, se non avversato dalle autorità quando si manifestasse con forme legali, potrebbe forse aiutare il nascere di una classe media e industriosa, in possesso di capitale mobile, il cui bisogno si fa tanto sentire in questi paesi. Se lasciato in mano ad arruffa-popoli o ad entusiasti sinceri ma ignoranti, oppure se avversato o compromesso dalle autorità anche nelle sue manifestazioni lecite, potrebbe essere di grave pericolo per l'ordine pubblico in un paese come quello, dove un movimento violento degli artigiani potrebbe far conto sulla simpatia e sull'aiuto di una classe di contadini numerosissima, oppressa, sofferente, semibarbara. Veniamo all'altro mezzo di migliorare la condizione dei contadini: la quotizzazione dei demani comunali già principiata da ben settant'anni. Nell'andamento della quale si manifestano tutti i guai economici o morali di quelle sciagurate province. La legge del 2 agosto 1806 sull'abolizione della feudalità fu seguita dalla legge l° settembre 1806, dal regolamento dell'8 giugno 1807 e da molti altri decreti, istruzioni, ecc., sulle ripartizioni di terre già feudali. Cessavano i diritti promiscui di pascolo, legnatico, ecc., e ciascuno degli enti, comuni, chiese, baroni che partecipavano a questo diritto sul medesimo suolo, dovevano ricevere in cambio la libera proprietà di una parte di quel suolo stesso. Quelli fra quei terreni che toccavano ai Comuni dovevano poi essere quotizzati, cioè divisi con carico di un canone annuo da pagarsi al comune, preferendosi sempre i non possidenti o i possidenti minori... Se l'effetto di quella legge avesse corrisposto all'intenzione, molti dei mali di quelle disgraziate province sarebbero probabilmente cessati prima di adesso. Ma le quote o porzioni assegnate ad ogni contadino sono troppo piccole perché chi le ha ottenute possa vivere esclusivamente o almeno principalmente dei loro prodotti, sicché il quotista non trova il tornaconto ad eleggervi dimora stabile e può andare a lavorarvi solamente di quando in quando. La terra manca delle cure assidue e costose del contadino proprietario e la sua produzione è scarsissima. Di più, supposto pure che l'estensione delle quote fosse sufficiente, il contadino mancando di capitali non potrebbe costruirsi la casa né procurarsi il concime necessario per avere un prodotto ogni anno. Laonde la produzione è scarsa sempre, e nulla ogni terzo o quarto anno nel quale la terra coltivata a quel modo esige riposo. Intanto corre sempre l'obbligo annuo del canone al Comune e della tassa fondiaria allo Stato, la terra senza concime va esaurendosi sempre più e viene il giorno in cui non torna più conto al contadino coltivare la sua quota. Allora questa, o viene ripresa dal Comune per non pagamento del canone, o è venduta dal contadino stesso a qualche proprietario per pochi soldi. Questo è il caso più favorevole al contadino, ma accade pure che egli per debiti contratti anteriormente debba vendere la sua quota al suo creditore prima ancora di averla ricevuta o dopo ricevutala per debiti contratti poi. Parecchi proprietari mi hanno confessato di essersi formate bellissime tenute a poco prezzo comprando dai contadini quote comunali a prezzi derisori. Accade in certi luoghi che, prima ancora che sia operata la divisione, si sappia a quali proprietari toccheranno in ultimo le tali e tali quote. Le leggi intese ad impedire la vendita delle quote e che dichiarano nulle tali vendite, per un certo numero di anni dopo le quotizzazioni, sono eluse col dissimulare le vendite sotto forma di affitti lunghi. Non parlo poi delle frodi che qualche volta accadono nelle divisioni a danno dei proletari ed a vantaggio dei più abbienti. Il fatto sta che nella grandissima maggioranza dei Comuni, dieci o quindici anni dopo la quotizzazione, non ne rimangono più tracce. |
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