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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

DALLA LIBERTA' AL PROGRESSO

 di Carlo Alianiello

da: "La conquista del Sud" Edizioni Rusconi, 1972

[…] Lo sbarco di Garibaldi, la sua fortunata galoppata dalla Sicilia a Napoli, le battaglie di Capua, del Volturno, di Mola e di Gaeta non furono vera guerra, voglio dire non furono guerra combattuta tra nemici cordiali e accaniti. La diserzione della borghesia napoletana, di quasi tutta l'ufficialità dell'esercito, di tutta la flotta che a Calatafimi, avendo alzata la bandiera tricolore in luogo dell'odiata frittata borbonica, prese di fianco i difensori e costrinse l'eroico IX cacciatori col suo comandante Bosco a ritirarsi nella fortezza per non essere massacrato dalle bombe un tempo amiche, il tradimento dei ministri in carica, dell'intera burocrazia, della magistratura, avevano deciso la sorte della monarchia napoletana sin dallo sbarco a Marsala, e forse prima. In Calabria reggimenti e brigate si arresero al sopraggiungere di quattro garibaldini e un caporale; e gli ufficiali offrivano loro sigari e li invitavano a pranzo, quasi a chiedere scusa d'essere borbonici e indossare ancora quella esecrata divisa; tradivano il loro giuramento senza volerlo, quasi innocentemente, con la convinzione d'entrare a far parte, soggetti e non oggetti, d'una storia nuova, di quelle cose bellissime e modernissime che si chiamavano libertà e progresso, o forse gli coceva soltanto d'apparire estranei a una civiltà trionfante in Europa, più evoluta e tutta laica, o d'esser chiamati da quegli uomini grandi che sono gli inglesi e i francesi, più evoluti, più raffinati, col nome ingrato di barbari o paolotti. Così, dove i garibaldini correvano a prendere e magari ad arraffare, i Napoletani si precipitavano sorridendo a dare e concedere, con l'illusione beata di fraternità, di giustizia, di dedizione a una causa tutta lucente, che forse neppur loro intendevano, ma che era quella del giorno, del momento, della moda, dell'Europa cosiddetta " civile". Qualche colpo fu scambiato, si capisce, anche prima di S. Giuliano, di Caiazzo, del Volturno e di Gaeta, ma con che pigra volontà, con quale indecisione e quasi direi, con qual rammarico! È naturale che, se uno ti tira addosso, gli devi rispondere, anche se c'è l'intenzione di non far troppo sul serio; e poi c'è un certo decoro militare, e una certa smania del soldato semplice che poco s'intende di politica e d'astratti ideali e non se la sente di rimetterci la pelle gratis facendo da parapalle. Insomma, qualche schioppettata passò tra le due parti. Guerra? No, fuorché a Gaeta, dove per un soprassalto dell'onor della bandiera, per la vigilanza della truppa che non intendeva essere votata al macello e infine per qualche bell'esempio di fedeltà e coraggio spinti fino all'eroismo di qualche ufficiale, i cannoni tuonarono, i fucili presero giusta la mira e, se ci fosse stato un assalto come si deve, sarebbero entrate in scena anche le baionette e i coltelli e i denti, magari. Non fu guerra, ma solo legittima difesa. I piemontesi se l'ebbero a male; pensavano di ripetere magari con maggior successo le facili gesta garibaldine e invece trovarono braccia dure e mani forti. Guerra vera non c'era stata, ma solo un supremo sussulto; gli invasori però in genere non fecero troppe distinzioni: rifiutarono di ammettere che un esercito, con un re, un'uniforme e una bandiera potesse impegnarsi anche all'estremo per la difesa dei confini di quella ch'era stata ed era ancora nel consesso delle nazioni la sua patria, che li fronteggiasse insomma un esercito regolare, per quanto assalito proditoriamente, e trattarono tutti da insorti e da briganti. E s'ebbero anche insorti e briganti. Allora cominciò la guerra vera, quella dei cafoni, perché Garibaldi era venuto a togliergli il pane da bocca per arricchire i signori; peggio, i piemontesi. E allora cominciò quella guerra che i "liberatori" non s'aspettavano, guerra civile, rivolta agraria, reazione, resistenza armata, brigantaggio, tutto uno squallido inferno, uno svettar di fiamme nei boschi, un franar di terre nei torrenti e nelle fiumane. Contro i "galantuomini" di casa e gli stranieri di fuori, giacché foresti apparivano i piemontesi al cafone, gente d'altra lingua, d'altre usanze, difforme. Così il reale governo italiano dovette mantener nelle provincie meridionali per poco meno di dieci anni quasi centoventimila uomini, una buona metà di tutto l'esercito, per dar la caccia allo zappaterra e a qualche astioso borboneggiante. "Una guerra civile", scrive Denys Mack Smith, "è la più crudele delle disgrazie che possa abbattersi su di un paese, ed il Risorgimento non era stato che un succedersi di guerre civili, fra le quali questa era stata la più crudele, la più lunga e la più costosa. [...] Il numero dunque dei soldati che mancarono all'appello, morti in guerra, fu superiore a quello di tutti gli uccisi in combattimento durante tutte le campagne del '60, e il numero di coloro che morirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme ". Vi furon battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, senza null'altro che un sospetto vago, uomini, donne, vecchi, bambini persino. Ma di ciò a suo tempo. La giustizia infuriava... Giustizia? Quale giustizia? Questo nome quasi sacro oggi s'è fatto logoro, difforme, mostruoso quasi, per il troppo mal uso. Ecco quel che ne dice il Panirossi: "I tribunali..., arnesi di giustizia posticcia, frantoio che rompe le ossa e non consente riparo; un'ombra, un gesto, una parola sottoponevano gli incauti a un consiglio che, sebbene normalmente composto di galantuomini, li faceva complici ignari di odi, di amori, di vendette, di rancori, di calunnie che straziarono e capovolsero la giustizia... Tra le migliaia di reclusi ve n'erano di ogni età, sesso, stato civile e condizione; un ventesimo di fanciulli, altrettanto i decrepiti, un quarto donne, un quinto coniugi strappati ai figli... Tra scatenio di passioni e furia d'accuse, fu prova sufficiente un testimonio solo e magari anonimo; per la maggior parte degli imputati valevano come confessione sicura di colpa le simpatie politiche del passato. Non vi furono interrogatori formali; fu soppresso l'inciampo superfluo della difesa; ma, se si fosse chiesto a moltissimi dei condannati il perché delle loro condanne, si può esser sicuri che non l'avrebbero saputo dire...". Secondo la stampa estera, dal gennaio all'ottobre del 1861, si contavano nell'ex Regno delle Due Sicilie 9860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1428 comuni sorti in armi. E questo martirio, questa insana persecuzione assai anni durò, finché i morti furon troppi, nauseati soldati e ribelli dal lungo e sfibrante lezzo dei cadaveri. La rivolta durò ancora molti anni, fin quasi al 1869, spegnendosi, coprendosi di cenere, e poi tornando a divampare d'un tratto come il fuoco nelle boscaglie, se lo riattizza il vento. Ché sempre vi fu vento di fame e di patimenti. Commerci, traffici, industrie, se pur avevano cominciato timidamente a metter foglia e prometter spighe, come potevano, in quel turbine, concretarsi e rinnovarsi, come nella sua beata vanità si vanta il filisteo dell'altra Italia? Nell'allocuzione tenuta nel concistoro segreto del 30 settembre 1861 il pontefice Pio IX così parlava: "Non è poi che non vegga quale luttuosa serie di calamità, di delitti e di rovine sia ridondata specialmente alla povera Italia, da questo vasto incendio. Perocché, per usare la parola del profeta, "la maledizione e la menzogna, l'omicidio e il furto e l'adulterio hanno straripato e il sangue incalza il sangue" (Osea, 4, 2)". Inorridisce davvero e rifugge l'animo per il dolore, né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del Regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, e religiosi, e cittadini d'ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppur dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi, uccisi... Queste cose si fanno da coloro che non arrossiscono di asserire con estrema impudenza... voler essi restituire il senso morale all'Italia". Così la liberazione s'era mutata in conquista, dittatura rabbiosa, violenta, grondante sangue. I fatti pochi li ricordano, solo qualche sparuto amatore di cose antiche, ma le conseguenze son manifeste a tutti e dovrebbero servire di monito agli amatori d'astratte ideologie, cioè a coloro che ricercano disperatamente un paradiso terrestre dove però continua a strisciare il serpe biblico. Tuttavia, si può mutar pagina e ragione, come sempre s'è fatto, e far cadere sull'ucciso la colpa dell'uccisore. Questo sangue, infatti, queste stragi, quest'odio scatenato, fino ad ora almeno, nel pensiero popolare e altresì nei volumi d'ogni studioso di parte, sono stati messi in conto a noi, gente del Sud. Il cafone indossò il vestito nero, quello della festa, che aveva ereditato dal padre o dal nonno, s'accollò la bisaccia di dura canapa e andò a morire di febbre gialla per poter arricchire con le poche stentate rimesse" non i suoi ma gli industriali del Nord. Così, quasi per magia, le bisacce tessute in casa si mutarono in valigie di cartone per la generazione nuova, affinché andasse a perder vita e salute nelle miniere di carbone d'un paese un po' più lontano che la sfruttava egualmente, ma non aveva la pretesa d'averla liberata. La piccola borghesia contadina che s'andava formando tornò alla zappa, cioè alla "coltivazione diretta " - tutta questione di nomi è - o si diede al minuto commercio, come per non esser scortesi si chiamano le piccole truffe. Della borghesia la parte eletta soppiantò gli antichi baroni nelle campagne, s'impinguò, divenne latifondista, padrona assoluta d'una sorta di schiavitù, dove i miseri tornarono servi della gleba, oppure in città concorse agli impieghi pubblici, occupò tribunali e atenei. Un gran sonno ravvolse l'Italia meridionale, in tutto offesa, anche nell'ingegno di cui sempre fu fiera, e nella memoria altresì, sicché i conquistatori poterono agevolmente dimenticare i soprusi e fantasticare d'ignavi e di codardi, quali essi li avevano fatti. L'uomo del volgo ignorò ogni cosa, l'intelligente distorse persino la storia e gettò negli innumeri sepolcreti anche la coscienza di sé e d'ogni suo valore. I traditori si proclamarono e furon chiamati i puri e gli eletti. O forse no: forse quei tanti morti pesano ancora. Di qui nacque la vergona della propria terra, e l'astio per chi osa ricordare gli antichi mali, e il presente disprezzo. Nessuno dei tanti ministri o grandi uomini del Meridione, a cominciare dal Crispi per terminar col Croce, ha mosso un dito per riscattar l'offesa ancor dolente e continuar l'opera di Ferdinando II; anzi nessuno s'è mai opposto a leggi inique che, per favorire le industrie del Nord, cancellavano ogni traccia di quelle del Sud e ne ferivano a morte l'agricoltura un tempo fiorente. Dal Risorgimento in poi, comunque, uomini e ideali d'ogni partito, radicali, fanatici sino in fondo, hanno odiato le loro origini e tuttora in cuor loro ammirano con una punta d'invidia la faticosa corsa al denaro, detta anche attività o abile industria, di quelli del Nord. Non conosco alcuna eccezione dei cosiddetti meridionalisti, compreso il troppo lodato Giustino Fortunato, nipote di manutengoli del brigantaggio, che abbia difeso il suo paese a viso aperto, usando solo l'arma della verità […]

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