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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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LE INDUSTRIE MERIDIONALI |
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di Pasquale Villani |
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da: "Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione" Edizioni Laterza, Bari, 1962 |
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Il Mezzogiorno ebbe uno sviluppo industriale? Quale peso ed influsso esercitarono nell'ambito della sua economia manifatture ed industrie e quale fu la consistenza e l'azione della borghesia industriale? A questi interrogativi, la cui importanza non sfugge a nessuno, ha tentato di rispondere D. Demarco in un agile saggio pubblicato in Orientamenti per la storia d'Italia nel Risorgimento e fuso ora insieme con altre ricerche nel capitolo sulla borghesia commerciale ed industriale del volume sul Crollo del Regno delle Due Sicilie. Specialmente in seguito ai provvedimenti legislativi del 15 dicembre 1823 e del 20 novembre 1824, che crearono una fortissima barriera protettiva a difesa della produzione nazionale, le industrie meridionali ebbero la possibilità di svilupparsi. Rifiorì la lavorazione della seta in ogni parte del Regno e segnatamente nelle Calabrie. La manifattura della lana, esercitata prevalentemente a domicilio, risorse "e nuove fabbriche furono create, di cui alcune fornite di macchine e con valenti operai". Grandi progressi fece l'industria cotoniera, che, per il ciclo di produzione in via di progressivo accentramento nelle fabbriche, per la moderna attrezzatura e per il numero degli operai impiegati, ebbe un posto di primissimo piano nella vita industriale del paese. Anche l'industria del ferro e quella delle costruzioni navali, in massima parte gestite direttamente dallo Stato, si erano notevolmente sviluppate ed il generale risveglio sollecitava anche altre attività minori, come la produzione della carta, dei colori e dei cuoiami, dei guanti e dei cappelli. È questo il quadro, in sostanza ottimistico, che il Demarco delinea; ma daremmo un'idea sbagliata del giudizio complessivo dello studioso se non aggiungessimo che l'autore attenua molto i rosei colori di questa descrizione nella seconda parte dell'articolo, là dove tratta degli ostacoli al progresso della nuova borghesia agiata, delle difficoltà di sviluppo delle industrie e via dicendo. Noi sottolineeremo solo un punto, che ci sembra di grande rilievo per le considerazioni che induce a fare sulle caratteristiche della borghesia meridionale. Dallo studio del Demarco e da altri dati risulta che i due rami industriali più progrediti e di maggior rilievo nell'economia del paese, il siderurgico e il tessile cotoniero, erano, il primo finanziato e gestito direttamente dallo Stato, il secondo nelle mani di un gruppo abbastanza ristretto di industriali elvetici, legati tra di loro da legami di affari e di famiglia. Un contributo di prima mano alla conoscenza della formazione e dello sviluppo dell'industria tessile nel Mezzogiorno ha arrecato G. Wenner il quale si è potuto valere per il suo studio di una documentazione diretta, da altri difficilmente attingibile. Il Wenner è il discendente di una delle famiglie svizzere che maggiormente contribuirono all'incremento delle manifatture cotoniere nel Salernitano, e ha attinto agli archivi di famiglia Schlaepfer a Santa Lucia di Battipaglia e Wenner a Fratte di Salerno. Il titolo del volumetto (L'industria tessile salernitana dal 1824 al 1918) può far ritenere che si tratti di una indagine a carattere strettamente regionale: ma appena si sappia che il complesso manifatturiero della provincia di Salerno (Fratte, Nocera, Angri, Scafati) costituì il nucleo più importante dell'industria tessile meridionale e che nel libro trovasi anche notizia delle manifatture impiantate a Piedimonte d'Alife da Gian Giacomo Egg' si converrà agevolmente che lo studio del Wenner è di notevole interesse. Giovan Giacomo Egg, profittando delle favorevoli condizioni create dal blocco napoleonico, ottenne dal Murat di impiantare nel 1812 in un convento di Piedimonte d'Alife una manifattura tessile. Fu necessario far venire dalla Svizzera, non senza difficoltà, anche la mano d'opera specializzata. Con la Restaurazione, alla protezione del Murat si sostituì quella di Ferdinando I; nel 1820 lavoravano nella fabbrica 600 operai e, come apprendiste, 200 fanciulle del R. Albergo dei Poveri. Con l'entrata in vigore delle tariffe doganali protettive la fabbrica si consolidò e visse prosperamente. La fortunata esperienza dell'Egg fu un esempio ed un richiamo per altri imprenditori elvetici. Sorse, così, la società Vonwiller-Zueblin, che costruì nel 1829 una filanda a Fratte di Salerno, con 12 macchine di filatura per 2.400 fusi. Nel 1833 fu ampliata questa prima fabbrica e se ne creò una nuova ad Angri. Il capitale necessario non venne cercato o non fu trovato sul mercato locale, ma si fece ricorso ad un commerciante-banchiere tedesco, il Gruber (che era anche in relazione con l'ambiente industriale inglese) il quale investì "diverse centinaia di migliaia di ducati". Tra i nuovi finanziatori delle industrie salernitane furono altri cittadini svizzeri, gli Schlaepfer e i Wenner, i quali ben presto acquistarono un ruolo di prim'ordine nella gestione delle aziende. Né va taciuto che, come per i capitali così per il macchinario, si dové continuare a rifornirsi all'estero o "presso l'unica officina meccanica rilevante del Mezzogiorno, quella dell'ingegnere inglese Henry, cioè la ditta Zino Henry & C. di Napoli Capodimonte". Wenner ha pubblicato in "L'industria meridionale", III, 12, dicembre 1954, un articolo in cui tratta più diffusamente de La manifattura di Gian Giacomo Egg. Alberto Wenner si era convinto che bisognasse giungere al più presto alla meccanizzazione completa del ciclo di produzione. Si recò a tal fine nel 1839 in Inghilterra a studiare i più moderni sistemi produttivi. Nel 1842 si procedé a un rinnovamento completo degli impianti; per provvedervi si dové allargare la base finanziaria della società. Anche questa volta si ricorse a capitale straniero: il capitale sociale fu portato a 400.000 ducati, di cui i due quinti furono versati dalla ditta inglese Schunk Souchay & C. di Manchester. Frattanto anche la filanda Vonwiller di Fratte si era andata sviluppando: intorno al 1838 impiegava 10.000 fusi e più di 600 operai. Per renderla autonoma anche nel rifornimento e nella riparazione delle macchine furono annesse allo stabilimento una falegnameria, un'officina e una fonderia ove lavorarono ben presto più di 300 operai. Dal punto di vista finanziario, la ditta cadde sempre più sotto l'influenza del capitale tedesco. Anche a Scafati, fin dal 1825, per iniziativa di un operaio tintore zurighese, Giovanni Meyer, che era stato al servizio di Egg, sorse un altro nucleo di industria tessile. Al principio fu costruita una modesta tintoria, alla quale si aggiunse più tardi un reparto di stamperia a quadri. Gli affari andarono bene e il Meyer, associato con un altro svizzero, lo Zollinger, fece sorgere nel 1834 una piccola filanda e tessitoria. Le fortune della ditta furono continuate dal genero del Meyer, Rodolfo Freitag, che impiantò nel 1857, sempre a Scafati, una tessitoria meccanica con 204 telai e con macchine a vapore. Come direttore delle aziende di Scafati iniziò, alcuni decenni più tardi, la sua attività industriale Roberto Wenner, figura di imprenditore moderno, che diede nuovo impulso ed aprì nuovi mercati alla produzione cotoniera meridionale. Queste e le molte altre notizie che si possono leggere nel volumetto del Wenner e nei numerosi articoli che, approfondendo la ricerca, l'autore ha pubblicato negli ultimi anni, mostrano quali importanti dati sia possibile trarre dagli archivi di famiglia e di imprese industriali. Ma per un'equa valutazione occorre dire che all'autore sfuggono alcuni problemi perché in lui l'interesse per la storia dell'industria tessile è nato più dalla rievocazione di memorie familiari che dalla esigenza di approfondire la realtà economico-sociale del Mezzogiorno, entro la quale bisognava inquadrare la trattazione specifica. Questo si dice non per far torto al Wenner - che non ha alcuna ambizione di far opera di storico e al quale non solo bisogna esser grati di quanto ha fatto, ma riconoscere un promettente allargarsi di interessi negli ultimi studi - bensì per insistere sulla necessità che archivi privati così importanti come quelli utilizzati dall'autore siano depositati, almeno in copia fotografica, in luogo pubblico a disposizione di tutti gli studiosi. Proprio al limite del periodo cronologico prescelto ci riconduce - ed è utilissimo per fare il punto sulla situazione delle industrie meridionali al momento dell'unificazione -un articolo di Ferdinando Milone. L'autore non intende dare carattere definitivo al suo scritto, che considera piuttosto come un assaggio condotto su fonti prevalentemente a stampa e di facile consultazione. Anzi, egli intende col suo lavoro sollecitare "qualche giovane studioso meridionale ad esaminare meglio, con più accurate ricerche negli archivi e nelle biblioteche, affermazioni assai frequenti" che al Milone non sembrano a sufficienza dimostrate. Sembra infatti all'autore che "a chi scorra le fonti da lui esaminate, le condizioni delle industrie meridionali dell'epoca non appariranno... così arretrate come si crede di solito. Ed a confrontare queste condizioni dell'industria, a quel tempo, con quelle così bene illustrate dal Ciasca e dallo stesso Luzzatto, ad esempio, per la Lombardia, non risulterà così grande il divario tra Campania e Lombardia come, purtroppo, si osserva oggi". Il Milone non dimentica, d'altro canto, di porre nel giusto rilievo le particolari caratteristiche strutturali e ambientali nelle quali si svilupparono le industrie italiane e segnatamente quelle meridionali: alcune create e sostenute, o addirittura amministrate, dal sovrano o dallo Stato; altre sorte per iniziativa del capitale straniero, gestite e dirette da imprenditori stranieri; tutte, o quasi, allevate in un'atmosfera di serra, con alte protezioni doganali e commesse statali. Certo è che nel Regno di Napoli, intorno al 1860, non solo esistevano alcune industrie a carattere locale e d'importanza limitata, ma anche una grande industria rappresentata "da un importante complesso di stabilimenti siderurgici e meccanici, arsenali e fabbriche di armi, in massima parte accentrati intorno alla capitale; da alcuni grossi opifici per la filatura e tessitura del cotone, della lana e del lino, della seta o della lana, generalmente distribuiti nei tenimenti delle attuali province di Napoli, Salerno e Caserta". L'abbattimento delle barriere doganali ed il disinteresse del nuovo Stato unitario produssero una gravissima crisi, che solo alcune fabbriche riuscirono a superare, rendendo evidente la debolezza delle strutture industriali meridionali. Queste debolezze il Milone sottolinea in modo netto, e ci sembra che sia qui il maggior pregio dell'articolo. L'esame della consistenza dell'industria meridionale al momento dell'unificazione e specialmente il rapporto con la situazione delle industrie nelle altre regioni d'Italia sono condotti per semplici accenni, e sono argomenti che meritano, come il Milone stesso premette, studi più precisi, corredati possibilmente dalla comparazione di dati numerici relativi alla produzione, alla mano d'opera, alle attrezzature, ai costi e via dicendo. Ma per il Mezzogiorno restano fermi, a nostro avviso, questi punti fissati dal Milone: 1) la grande industria era quasi soltanto sostenuta dallo Stato; 2) la media industria viveva al riparo di una fortissima protezione doganale; 3) le altre imprese avevano soprattutto carattere domestico e artigianale e sopravvivevano grazie alle gravi difficoltà delle comunicazioni. Queste conclusioni, ci sembra, possono ritenersi valide a caratterizzare lo sviluppo industriale del Mezzogiorno e - quando si ricordi che l'industria tessile era quasi interamente nelle mani di imprenditori svizzeri - ci fanno meglio comprendere quanto scarsi dovessero essere il peso e l'efficienza nel Regno di una moderna borghesia imprenditrice. Che se essa fosse stata notevole per forza e numero avrebbe certamente trovato modo di proteggere i suoi interessi anche nel nuovo Stato, come non mancò di fare di lì a poco la borghesia industriale del Nord. L'invito del Milone ad approfondire la situazione industriale napoletana è stato in parte raccolto da Massimo Petrocchi nel volumetto La industria del Regno di Napoli dal 1850 al 1860; in parte, perché il problema era e rimane di stabilire quale potenziale industriale avesse il Mezzogiorno al momento dell'unificazione in rapporto con quello degli altri Stati italiani e di spiegare perché, mentre l'industria settentrionale sopravvisse e si rafforzò dopo la crisi postunitaria, quella meridionale rimase soccombente. Il Petrocchi ha studiato il decennio preunitario, ma non ha istituito il raffronto con la contemporanea situazione in altre regioni. Tuttavia il contributo, fondato su ampia documentazione d'archivio, è di indubbia utilità. La rassegna dell'industria meridionale alla vigilia dell'unificazione conferma nei particolari lo stato non molto progredito della produzione, salvo alcuni settori dell'industria tessile e siderurgica. A proposito della politica economica del governo napoletano, il Petrocchi nota giustamente che "le oscillazioni tra protezione e liberismo erano da una parte il risultato di una vera e propria incoerenza di metodo e dall'altra di una politica industriale che voleva crescere autarchica senza trovare nel paese le reali possibilità di essere tale". Va anche segnalato in modo particolare il capitolo che tratta dell'atteggiamento dell'opinione pubblica di fronte al problema industriale del paese. In alcune delle osservazioni di scrittori contemporanei che il Petrocchi riporta - come, ad esempio, in quelle del Santangelo - si trovano molti elementi di verità, che occorre tener presenti per la giusta impostazione del raffronto fra la situazione del Regno e quella di altre regioni. In un recente studio sui problemi dell'economia napoletana alla vigilia dell'unità, Rosario Villari muove proprio dall'esame del dibattito che ebbe luogo negli ultimi anni del Regno sulle prospettive di sviluppo economico e al quale parteciparono oltre il ricordato Santangelo, il Del Giudice, il De Cesare, il Bianchini. L'occasione del dibattito fu inizialmente offerta dall'inchiesta promossa nel 1853 dall'Istituto di incoraggiamento "sui progressi delle manifatture, dell'agricoltura, della pastorizia e delle industrie nelle province continentali del Regno". Opportunamente anche il Villari si sofferma su una "memoria" del Santangelo, rilevando come "la denunzia di una crisi industriale, che è l'aspetto più interessante dello scritto, era tanto più grave in quanto ormai l'iniziativa della monarchia in quel settore, che aveva avuto il suo momento di maggiore efficienza tra il 1830 e il 1840, si era quasi completamente esaurita: il problema del governo era ormai - ed era un problema difficile date le condizioni in parte "artificiali" da cui l'industria napoletana era nata - di conservare quel che si era creato". Questi acuti rilievi del Villari valgono a precisare ancor meglio il quadro entro cui la questione dell'industria meridionale intorno al '60 andrebbe studiata. Gli elementi messi in luce dalle recenti indagini sono: sintomi di crisi industriale ancor prima che l'unificazione sconvolgesse l'antico sistema; timori nella monarchia borbonica e nella classe dirigente conservatrice di proseguire nella via dell'industrializzazione; carenza di un ceto autonomo di imprenditori abbastanza forte da sostenere e sollecitare lo sviluppo della grande industria; mancanza di "infrastrutture" e ristrettezza del mercato. A conferma di queste generali condizioni avverse potrebbe anche ricordarsi la deficienza di adeguati istituti di credito. Alla meritoria fatica del Demarco dobbiamo una storia del Banco delle Due Sicilie che consente ora di seguire in tutti i particolari l'attività dell'unica banca del Regno. È noto come la funzione originaria e prevalente dell'istituto fosse la custodia dei depositi, che dava luogo ad un'ampia circolazione fiduciaria. Nel 1818 si avverti, però, il bisogno di creare una Cassa di Sconto che avrebbe dovuto favorire soprattutto il commercio. Nei seguenti decenni, benché le esigenze della vita economica divenissero più complesse e la necessità del finanziamento industriale si facesse sentire, non si ebbe il coraggio di adeguare le strutture del Banco alla nuova situazione. Significativo è l'episodio ricordato dal Demarco del credito negato alla Compagnia del Sebeto, che aveva costruito nei pressi di Salerno, investendo un capitale di 300.000 ducati, un grande lanificio, considerato tra le più importanti fabbriche del Regno. Non meno indicativo della mentalità dei dirigenti della Banca è il parere espresso nel marzo 1847 dal Reggente, che si dichiarava contrario all'istituzione di filiali nelle province adducendo tra l'altro che l'estensione del credito sarebbe valso solamente a disseminare i depositi nelle mani di speculatori indebolendo la fiducia degli apodissari (depositanti). Solo nel 1857 fu istituita la prima succursale, in Bari! Non mi sembra inutile concludere ricordando alcuni dati relativi alle società commerciali e industriali tratti dall'Annnario statistico italiano del 1864 e già opportunamente presentati dal Demarco nella relazione sulla Economia degli Stati italiani prima dell'Unita. Le 377 società anonime ed in accomandita censite in quegli anni per un capitale di 1 miliardo e 353 milioni erano così ripartite per numero e per capitale tra i vari Stati italiani: Antiche province - Numero - Capitale (Stati sardi)----------------- 157---------- 755.776 Toscana--------------------- 75 ----------- 425.047 Regno delle Due Sicilie -- 52 ----------- 225.052 Emilia----------------------- 39 ------------ 117.846 Lombardia ----------------- 56 ------------- 59.435 Per istituire un raffronto in qualche modo valido bisogna considerare, come avverte il Demarco, che il Regno delle Due Sicilie "non solo per la superficie, ma anche per la popolazione costituiva quasi i due quinti della penisola". Tuttavia questi dati, se per un verso mostrano con chiarezza i grandi progressi realizzati dal Regno sardo anche nell'apprestamento degli strumenti più idonei alle nuove esigenze della vita economica, sembrano giustificare le perplessità dalle quali muoveva, ad esempio, il Milone quando accennava al non grande divario esistente intorno al '60 fra le condizioni industriali della Lombardia e della Campania. Se i dati sono attendibili - e la ricerca dovrebbe innanzi tutto chiarire numerosi elementi di dubbio ( NOTA 1) - pur tenendo conto del territorio e della popolazione il Regno di Napoli non sembrerebbe scapitare troppo in confronto con la Lombardia, con quella regione che diverrà ben presto uno dei centri più importanti dell'industria e dell'attività economica italiana. Proprio questa considerazione induce però a riflettere che non si possono esaminare separatamente gli aspetti dello sviluppo economico-sociale senza gravi pericoli di fraintendimento: ché la vera debolezza del Mezzogiorno era nella arretratezza delle campagne, proprio in quel settore dove era invece la riserva di forze che avrebbe assicurata - col concorso di altre favorevoli circostanze - la rapida evoluzione della Lombardia. In quale misura la situazione sociale nelle campagne condizionò le vicende della rivoluzione del 1818 è ormai sufficientemente noto. Agli studi del Mondaini e del Racioppi si sono aggiunte in questi ultimi anni le ricerche del Lucarelli, del Cassese, del Pedio, del La Cava sicché non sembra che si possa negare che le agitazioni contadine e le occupazioni di terre spezzarono il fronte borghese e contribuirono a indebolire l'azione dei liberali e soprattutto della frazione democratica, rimasta isolata di contro alla grande maggioranza della borghesia che rivelò ben presto la sua caratteristica moderata e conservatrice. Di fronte alla minaccia contadina, i moderati tennero a differenziarsi dai radicali, i quali del resto, pur mostrandosi sensibili alle istanze delle masse rurali, erano borghesemente consapevoli che la piena accettazione delle rivendicazioni contadine avrebbe provocato un rivolgimento sociale dai risultati imprevedibili, anche se forse avrebbe consentito di resistere validamente al ritorno reazionario del Borbone. Non è il caso di discutere quali reali prospettive di sviluppo vi fossero nel Mezzogiorno per una rivoluzione agraria - e a nostro avviso non ve ne erano - ma è certo che i radicali borghesi erano più vicini ai moderati e ai proprietari che non ai contadini. Sicché, mentre non si può non ammirare la forte tempra morale e la eroica determinazione alla resistenza che alcuni di essi mostrarono, ben si comprende come ben scarse forze potessero opporre all'esercito borbonico e come il loro fatale isolamento li condannasse ad una sicura sconfitta. Gli avvenimenti del 1848 sono ulteriore prova del peso talora decisivo che gli insoluti problemi delle campagne meridionali esercitavano anche sul piano politico. La crisi di quell'anno e la generale disillusione che la seguì accelerarono comunque il processo di esaurimento della monarchia borbonica. "La società napoletana - scrive il Demarco esaminando le ragioni dell'improvviso crollo del 1860 - era lacerata da un intreccio di forze numerose e disparate che si accavallavano, ma che si sommavano nel risultato di minare la resistenza dello Stato e di determinare la crisi". Se non ci si rifacesse ai motivi profondi, al precario equilibrio sociale del Mezzogiorno, non sarebbe possibile comprendere come in poche settimane crollasse il maggiore degli antichi Stati italiani. Quell'improvviso disfacimento appariva, anche agli occhi di acuti osservatori contemporanei, un ben strano e non in tutto comprensibile spettacolo. Scriveva il Visconti Venosta al Farmi il 23 luglio 1860: "La dinastia è irremissibilmente perduta e bisogna esser qui per comprendere questo strano spettacolo d'un governo che con l'esercito unito, con gli organi dell'amministrazione che funzionano, con l'ordine materiale intorno a sé, pure si sfascia e se ne va". Ma pur nei molteplici motivi e nelle forze numerose e disparate che si scontravano e che tutte insieme concorrevano a determinare la crisi, l'elemento di fondo rimaneva, a nostro avviso, la struttura sociale delle campagne che dava al Mezzogiorno la sua peculiare fisionomia. Grande era la varietà del regime fondiario, ma - pur senza trascurare gli elementi accessori e marginali che possono offrire chiaroscuri al quadro, ma non alterarne i contorni fondamentali - a noi pare che i tratti caratteristici della situazione agraria meridionale eran quelli che si riscontravano nelle regioni dagli Abruzzi al Molise alla Basilicata alle zone interne della Puglia, dalla piana del Sele alla Calabria: le regioni dove aveva dominato il latifondo feudale, dove dominava il latifondo borghese, dove, nelle zone montane, prevaleva il latifondo contadino, dove eran vive le lotte per gli usi civici e per i demani comunali, dove continuavano i sistemi tradizionali di coltura e di pastorizia, dove imperversava la malaria, dove più feroce infierì il brigantaggio. Dalla matrice feudale nacquero insieme la grande borghesia agraria e i piccoli contadini senza terra o con poca terra. Già nel Settecento la situazione era abbastanza differenziata e si andava sempre più differenziando. Esistevano a fianco dei possessi feudali ed ecclesiastici la piccolissima proprietà contadina, la proprietà dei borghesi, le grandi proprietà comunali e le terre comunali distinte e spesso gelosamente difese da inframmettenze o prepotenze baronali e già campo di scontro di varie e contrastanti aspirazioni. Predominava il regime delle terre aperte, ma già ferveva la lotta per le chiusure, per la dissoluzione del regime comunitario, la lotta per l'individualismo agrario. Quella lotta giunse alla sua conclusione vittoriosa nel Decennio francese, ché le leggi eversive della feudalità segnavano il trionfo del concetto dell'individualismo agrario e portarono quindi alla dissoluzione di vincoli feudali e all'abolizione del regime comunitario delle terre e degli usi civici, con la promessa di ripartizione dei demani comunali tra i cittadini più poveri. Quest'ultima disposizione, che pur s'ispirava al concetto borghese della proprietà e tendeva alla formazione di una piccola borghesia rurale, aveva però sapore paternalistico e non rispondeva alla reale situazione e ai rapporti di forza nelle campagne meridionali. Le condizioni stesse del suolo spesso impedivano che al latifondo potesse sostituirsi un ceto vitale di piccoli e medi proprietari. Sicché, mentre da un lato la grossa borghesia fondiaria si consolidava con l'acquisto di terre ecclesiastiche feudali demaniali ed assorbiva l'antica nobiltà privata dei privilegi giurisdizionali, il proletariato agricolo si moltiplicava, non foss'altro che per il naturale incremento demografico. Possibilità di assorbimento della crescente massa proletaria potevano crearsi o con l'intensificazione dell'agricoltura o con lo sviluppo industriale. Entrambe queste vie, che pur furono tentate perché erano nella logica della dinamica economica, non diedero risultati soddisfacenti e decisivi. L'industrializzazione fu limitata, l'agricoltura si sviluppò più allargando colture estensive che intensificando la produzione. Il che non significa negare l'aumento della produzione accompagnato talora da miglioramenti dei sistemi colturali, ma rilevare come quei lievi e lenti progressi erano non solo insufficienti a risolvere il problema di fondo della società meridionale, ma, irrilevanti rispetto al ritmo di sviluppo dei paesi più progrediti, finivano per confermare ed aggravare l'arretratezza del Mezzogiorno. Le principali conquiste della moderna tecnica agraria - quelle che avevano dato luogo alla cosiddetta rivoluzione agraria - razionali rotazioni, stabulazione del bestiame, in breve soluzione dell'antico contrasto tra pastorizia e agricoltura - non divennero allora, né per lungo tempo poi, largamente operanti nel Mezzogiorno. In queste condizioni il contrasto nelle campagne non poteva che aggravarsi, conservando per molti aspetti carattere tradizionale: rivendicazione degli usi civici e dei demani comunali. Le origini storiche della borghesia meridionale, l'esser nata e l'esser cresciuta all'ombra del feudo, l'aver avuto in retaggio, senza lotte drammatiche e rivoluzionarie, l'eredità feudale ne limitarono lo slancio, non le consentirono di diventare una classe pienamente egemone che sapesse offrire ed anche imporre prospettive e soluzioni di rapido e sicuro sviluppo. Deve aggiungersi la componente politica, che per un verso risultava dalla stessa situazione sociale, per l'altro contribuiva a fissare ed aggravare i termini di un contrasto che appariva insanabile. La sollevazione popolare e sanfedista del 1799, il brigantaggio del Decennio francese, le agitazioni contadine del '20-21, le più recenti occupazioni di terre e i larghi movimenti rurali e cittadini nel 1848 erano ricordi vivi e temuti dalla borghesia fondiaria ed intellettuale e sottolineavano la precarietà di una situazione, l'instabilità di un equilibrio minacciato ad ogni crisi. Nei ceti medi e borghesi cresceva la diffidenza per la monarchia che coscientemente o intuitivamente profittava dei contrasti sociali per mantenersi arbitra e per non cedere alle istanze costituzionali. Come l'azione politica anche degli uomini più attivi e consapevoli della borghesia meridionale fosse condizionata dalla coscienza di questo stato di cose apparve evidente nell'estate del 1860 quando invano Cavour spinse i moderati napoletani e gli esuli ritornati in Napoli a farsi promotori di una insurrezione che prevenisse l'arrivo di Garibaldi. Il 7 agosto il Visconti Venosta informava il Farmi della "resistenza assoluta all'idea di un moto nella capitale da parte di tutto quanto v'ha in Napoli d'autorevole e d'influente, da parte appunto di quegli uomini dei quali noi vorremmo che prevalesse l'azione politica". Possiamo aggiungere, a conferma, che, anche laddove nelle province si riuscì a suscitare qualche movimento, l'iniziativa fu, e ben presto passò, nelle mani degli uomini del partito d'azione e dei fautori di Garibaldi, con grandi timori e apprensioni dei cavouriani. Il Visconti Venosta doveva quindi anch'egli concludere che altro non c'era da fare se non attendere Garibaldi: "Ma quello che è poi certo... è che non si può agire sul vuoto, fare astrazione dal terreno sul quale posiamo i piedi, né tentare la insurrezione napolitana senza i napolitani. Non abbiamo neppure potuto indurli a fare una manifestazione... I nostri amici confidano che Garibaldi, in mezzo a un così grande e importante centro sociale, quale è Napoli, sarà naturalmente contenuto dagli elementi dai quali si troverà circondato... Ed infatti è vero che Garibaldi giunto qui sarà accolto da un grido unanime per l'annessione, è vero - e qui il Visconti Venosta coglieva l'esatto stato d'animo della borghesia meridionale e della sua classe dirigente - è vero che questo sarà il grido di tutte le classi che hanno qualcosa da conservare e da perdere, perché qui la paura dell'anarchia è più grande che in ogni parte d'Italia". Non si potevano meglio chiarire i motivi profondi che dettavano la condotta dei più autorevoli esponenti della classe dirigente napoletana, interpreti delle esigenze della locale borghesia terriera; da una parte opposizione ad ogni tentativo rivoluzionario che avrebbe potuto scatenare la reazione borbonica e popolare; dall'altra incondizionato favore alla pronta annessione che, ponendo il paese sotto la protezione di Vittorio Emanuele, di Cavour e dell'esercito piemontese, avrebbe salvaguardato i possidenti dalla pericolosa politica del partito d'azione e di Garibaldi. Gli esuli, anche se avessero concordemente voluto, non avrebbero potuto modificare la situazione esistente e vincere la cosciente inerzia dei notabili locali, l'ambiguo e quietistico atteggiamento della classe dirigente. La quale riuscì in effetti ad attuare egregiamente il suo programma e fu, come meglio non si poteva, rappresentata e servita da Liborio Romano. Essa voleva un passaggio senza scosse, senza rivoluzione, senza pericoli ed incognite. Liborio Romano, ministro di Francesco Il, trattava con Cavour, rassicurava e teneva buoni gli esuli e all'ultimo momento rendeva omaggio a Garibaldi e diventava il primo ministro della Dittatura. Lo scopo era raggiunto; la tranquilla pace dei possidenti assicurata; il pericolo di anarchia sventato; la foga di Garibaldi rattenuta. In effetti, Liborio Romano con abile manovra era riuscito a conquistare l'animo semplice del generale vittorioso e a far estromettere dal governo provvisorio, costituitosi poche ore prima dell'ingresso di Garibaldi, i rappresentanti della sinistra napoletana. Così egli scriveva a Cavour per giustificare la sua condotta: "Al primo arrivare di Garibaldi tra noi io, che allora rappresentavo il paese per universale consentimento, gli diressi calde e sentite parole, che egli bene accolse. Mi avvidi allora che il potere era prossimo a cadere nelle mani dei Ricciardi, Libertini, Agresti ed altri della stessa risma, che di già avevano annunciato un governo provvisorio. Cercai in quel momento, più per intuito spontaneo che per ragione, giovarmi della fattami buona accoglienza, e salvare a tal modo il paese da tali parricidi. Così facendo sacrifizio alla patria della mia individualità, rimasi al potere... Il successo di Garibaldi era stato assicurato non solo dal favore o almeno dalla inerzia della borghesia terriera fiduciosa nella protezione di Cavour e di Vittorio Emanuele, ma anche dalle speranze dei contadini. A Garibaldi si guardò quindi da ogni parte come al liberatore e sorse e si diffuse un provvidenziale equivoco che rese possibile la marcia trionfale del mitico condottiero. "Contadini e proprietari, popolo minuto e borghesia, operai e professionisti per motivi diversi e talora opposti associarono al nome di Garibaldi l'idea della liberazione: affrancamento delle servitù per gli uni, restaurazione dell'ordine per gli altri". Ma l'equivoco non poteva durare a lungo e, a nostro avviso, il rapido allontanamento di Garibaldi valse a consolidare il mito dell'eroe risparmiandogli di compromettere fama e popolarità con decisioni che non potevano non essere in un modo o nell'altro impopolari (NOTA 2). Le aspirazioni delle masse contadine e proletarie urtavano contro la necessità della borghesia meridionale e nazionale di portare a compimento il processo di sviluppo, consistente per la prima secondo una linea tradizionale, nel completare l'assorbimento delle terre ecclesiastiche e demaniali, per la seconda nell'allargamento del mercato e nell'industrializzazione.
NOTE: ( NOTA 1) Gli stessi compilatori della statistica osservavano: "Le fonti onde abbiamo tratte le cifre che seguono sono ufficiali. Tuttavia noi non ci renderemo mallevadori che nei nostri prospetti non si sia incorsi in qualche lacuna; nel qual caso devesi ritenere che alcune società o non abbiano fatto le loro denuncie, oppure non si trovino indicate nelle note dell'amministrazione. Così pure, ad es., vedendo lo scarso numero delle Società di Lombardia e i loro modesti capitali, saremmo tentati di credere che non poche società veramente d'oltre Ticino siano state obbligate, come quella della ferrovia lombardo-veneta, oppure facciano parte nei nostri quadri delle società delle antiche provincie". Questa ultima ipotesi appare tanto più plausibile in quanto nell'Annuario Statistico del 1857-1858 si precisava che le società allora censite negli Stati sardi erano 98 con un capitale di 330.517.500 lire. Bisogna inoltre considerare che delle Società, registrate nel 1864, 279 risalivano ad epoca anteriore al 1860 e 98 erano state costituite negli anni seguenti (Ann. Stat. 1864). Come si vede, l'indagine è tutta da rifare per trarne qualche conclusione sicura. Interessante è anche il prospetto che presenta la sfera di attività delle anonime e delle accomandite. Si rileva da esso che più del 500 % del capitale era investito in imprese ferroviarie (764 milioni); 228 milioni in istituti di credito; 84 milioni in opere di canalizzazione e bonifiche; un centinaio di milioni in società di assicurazioni; 25 milioni in miniere e cave; 21 milioni in navigazione e trasporti. Le vere e proprie imprese industriali (meccaniche, cotoniere, laniere, fabbriche d'armi) assorbivano non più di 10 milioni per ciascuna branca di attività.( NOTA 2) Com'è noto la più recente e la più accurata ricostruzione dell'impresa garibaldina nel Sud è nel volume di D. Nack Smith, Garibaldi e Cavour (Torino 1958) nel quale però l'impostazione strettamente politica e l'attento studio del Contrasto tra Cavour e Garibaldi lasciano scarso posto alla considerazione dei problemi e della realtà politico-sociale del Mezzogiorno, onde non si coglie a pieno il pericoloso equivoco su cui era fondato il successo di Garibaldi e si pongono invece in evidenza l'inerzia e l'incapacità degli amministratori cavooriani, i quali cominciarono ad operare, quando, caduto ogni equivoco, la realtà meridionale si presentò in tutta la sua crudezza. Dissento perciò anche dalla interpretazione adombrata nel saggio di R. Villari (La liberazione del Mezzogiorno e l'unita nazionale, in Mezzogiorno e contadini) che, prescindendo dalla carenza di una efficiente classe politica meridionale e sottovalutando forse l'oggettiva difficoltà della situazione del Mezzogiorno, non chiarisce che il rapporto nuovo che sembrava essersi stabilito, con l'avvento di Garibaldi, tra governo e popolo nell'Italia meridionale era fondato su un equivoco destinato ben presto a dissolversi e a creare inevitabili disillusioni. Al di là della innegabile forza del mito di Garibaldi, sarebbero da studiare i democratici meridionali e quali effettivi legami essi fossero riusciti a stabilire con la popolazione. |
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