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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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BARONI, CETO MEDIO E LAZZARI |
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di Benedetto Croce |
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da: "Storia del Regno di Napoli" Edizioni Laterza, Bari, 1958 |
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[…] I baroni componevano, insieme col clero, la classe dei proprietari fondiari, e più propriamente dei grossi proprietari, che alla rendita della terra univano inciti altri proventi per monopoli e prestazioni varie e l'esercizio di alcune giurisdizioni, le quali, oltre a esser fonte di lucro, davano modo di dominare localmente e imporre rispetto ai diritti del proprietario e talvolta agevolarne gli abusi. Ma i baroni proprietari non coltivavano direttamente, e neppure invigilavano direttamente l'amministrazione delle loro terre, affidata ad agenti e avvocati, mentre essi vivevano in gran numero, e quasi tutto l'anno, nella capitale. Vivevano nel lusso e nel fasto, senza cura di uffici pubblici, tranne la partecipazione alla milizia, alla quale si davano di solito i cadetti, senza altre forme di lavoro produttivo, perché, se la ripugnanza alle industrie e ai commerci era stata cosa naturale negli antichi baroni di origine militare, ed era diventata consuetudine nei patrizi o nobili di città, ora che i due ceti si fondevano, e i baroni si ascrivevano ai sedili e i patrizi s'innalzavano a baroni o imitavano i di costoro costumi e comportamenti, meno che mai potevano dar esempio di alcuna operosità in quel campo. Anche talune professioni, come la medicina e il notariato, che un tempo i nobili napoletani avevano esercitate, furono dismesse; e sebbene, scorgendo la crescente fortuna che toccava agli avvocati, i nobili pensassero per qualche tempo di avviare i loro figliuoli all'esercizio forense, non ne fecero poi nulla. Grande era sempre la meraviglia dei forestieri a vederli tutto il giorno in ozio e occupati solo in esercizi d'arme o, come oggi si direbbe, nello sport, e in conversazioni e chiacchiere nei sedili; senza uso del mercatare (diceva il Lippomano), e perfino dell'attendere alle loro cose domestiche. L'ozio, il lusso, il fasto, le gare di sfoggiare e pareggiarsi e soverchiarsi gli uni con gli altri, i grandiosi palagi che facevano edificare, il numeroso servitorame di cui si attorniavano, l'abbandono della vita di famiglia e le pratiche, che parvero nuove e si attribuirono all'esempio spagnuolo, delle cortigiane, condussero la maggior parte delle famiglie baronali, dopo qualche generazione di quella sorta di lustro, alla rovina e alla povertà, come era già notato da un inviato estero nel 1594, secondo il quale la più parte delle loro rendite era "impegnata" per le grandi spese che facevano, e come si può desumere dalla relazione di un agente toscano, che, sulla fine del cinquecento, passò in rassegna uno per uno i baroni, indicando per ciascuno le rendite e i debiti, e altresì da certe scritture del secolo seguente, come quella di Ferrante della Marra, che trattò della "Ruina delle case napoletane". Del resto, non bisogna neppur qui dimenticare l'andamento storico generale, dal quale si vede che, allora, la nobiltà impoveriva e decadeva in quasi tutta l'Europa. Se la ricchezza scemava nei baroni, si accresceva e in gran parte trapassava nel medio ceto o ceto civile, nei due principali elementi di cui questo si componeva, gli speculatori e gli avvocati. Erano i primi, soprattutto, appaltatori di gabelle, esportatori di granaglie e di altri generi, banchieri e prestatori di danaro, in parte indigeni, in più grande e cospicua parte genovesi, che in questo periodo presero il posto dei fiorentini e degli altri mercanti e trafficanti di danaro forestieri del tempo del vecchio Regno, e dai napoletani erano chiamati i loro "giudei", in cambio dei veri, che erano stati cacciati dal viceré Toledo. Dagli avvocati la nobiltà, per la sua inerzia e ignoranza, dipendeva affatto, e tante erano le controversie nascenti dal groviglio dei diritti e dalla molteplicità delle legislazioni, tanto lo spirito litigioso nell'ozio generale, che l'importanza di quella classe si fece grandissima, e l'esercizio del foro, la "strada dell'avvocazione", parve fosse la sola aperta agli uomini intraprendenti, perché quella delle armi non valeva più a tal fine, e quella dei commerci e delle industrie mancava, onde il "vender fole ai garruli clienti" divenne la vera industria e i1 lucroso commercio interno di Napoli. Anche questo lato della vita meridionale di quel tempo ha un libro che lo illustra e documenta, i Ricordi dell'avvocato Francesco d'Andrea; il quale - dopo avere spiegato come Napoli presentasse le condizioni più favorevoli all'esercizio avvocatesco, perché popolosa capitale di un regno grande e pieno di principi e signori e in cui avevano interessi i principali sovrani d'Europa, con accentramento di tutte le cause di tutte le provincie nel Sacro Regio Consiglio, il quale abbracciava perciò giurisdizione maggiore del Parlamento di Parigi - la esalta come quella città "dov'è più premiato il valore e dove l'uomo, senza avere altre qualità che il proprio merito, può ascendere a carichi grandi e a ricchezze immense, a dignità superne ed a governar la repubblica, senza aver bisogno né di nascita né di danaro per arrivarci, anzi senza che nemmeno abbia l'onore della cittadinanza... ancorché sia d'infima plebe e della più umile terra del Regno". Dal foro si saliva infatti, agevolmente, alla magistratura giudicante e ad uffici politici. Il D'Andrea narra le fortune di molti avvocati della sua generazione e dell'anteriore, e descrive le loro figure. Di Andrea Marchese, per esempio, dice che, avendo sdegnato il posto più volte offertogli di consigliere e preferito di dar consulti legali, si vide "la casa sempre piena di signori primari del Regno, che dipendevano dalle sue risposte come da oracolo". Particolarmente egli raccomandava quella professione ai "fuori-piazza", cioè alle famiglie che non s'inquadravano né nella nobiltà dei sedili né nel vecchio popolo. Che il baronaggio e la nobiltà di seggio provassero invidia e gelosia, e si atteggiassero a sprezzo verso codesto prosperante ceto medio, e particolarmente verso quello degli appaltatori e speculatori, la cui ricchezza in gran parte mobiliare si sottraeva ai pesi che gravavano invece sopra i baroni, è cosa che s'intende. Ma era un ceto che non godeva di diretta rappresentanza politica, e nemmeno coltivava un proprio ideale o serbava il proprio carattere, perché esso tendeva a convertirsi in nobiltà, e questa conversione si osservava di continuo nei suoi più fortunati componenti. Il Lippomano notava la facilità, che era data ai mercatanti nel regno di Napoli, di comprare, da un giorno all'altro, feudi, censi e case, per centinaia di migliaia di scudi. Il progresso del feudo verso l'allodio era incessante, e non solo per effetto della nuova larghezza nei gradi di successione (quale l'estensione fino al quarto grado incluso, concessa da Filippo IV), ma per quella facilità di vendite e rivendite. Facile era altresì ai nuovi proprietari ottenere titoli; e la nobiltà del Regno, che già da qualche secolo formava oggetto di meraviglia e di celie per l'eccessiva copia dei suoi titoli altisonanti e pel contrasto tra il parere e l'essere, noverava nel seicento non meno di centodiciannove principi, centocinquantasei duchi, centosettantatré marchesi, molte centinaia di conti, con titoli cui talvolta non corrispondevano feudi e che erano affissi su semplici campi e poderi. Divennero allora case feudali e titolate molte delle famiglie genovesi di speculatori e faccendieri, che avevano acquistato terre nel Regno. Se per rinvigorimento della feudalità, operato dagli spagnuoli, si vuole intendere questa vendita e rivendita e frazionamento di feudi e questa moltiplicazione di titoli, il fatto è indubbio; ma è chiaro anche che esso, invece di segnare una maggiore potenza della feudalità, ne segnava invece la crescente dissoluzione o la conversione in semplice classe di proprietari terrieri, decorati di pomposi e vari titoli. Anche più profondo cangiamento era accaduto nella struttura sociale della città di Napoli per effetto dell'enorme accrescimento della popolazione; la quale, come è noto, nei primi cinquant'anni del secolo decimosesto salì quasi al quintuplo, cioè a oltre dugentomila abitanti, e alla metà del secolo seguente superava il mezzo milione. Il concentramento nella capitale dei baroni, che vi costruirono grandi palagi e il dominio spagnuolo che vi portò famiglie di spagnuoli e altri forestieri legati agli interessi di Spagna, come appunto: genovesi, servirono da richiamo per artigiani e commercianti e servitori, e per ogni qualità di gente intraprendente, come era quella che si dava ai tribunali, e anche di gente perduta e disperata, che viveva alla giornata. Si aggiunsero motivi concomitanti, come l'esenzione dal focatico e gli altri privilegi di cui godevano gli abitatori di Napoli, le oppressioni degli agenti feudali nelle provincie, le continue scorrerie dei turchi e dei barbareschi, che rendevano mal sicure le coste. Si cercò bensì di porre argine a questo enorme e rapido accrescimento con ordini e leggi che proibivano nuove fabbriche, temendosi i torbidi che ne nascerebbero e lo spopolamento delle provincie, ma tutto fu vano, come vani furono simili freni in simili casi (per esempio, a Parigi). Sorse così sempre più numeroso il "popolo", cioè quello che, diviso per ottine, formava un sedile ed aveva il suo proprio eletto; ma, attorno e sotto di esso, un immensa plebe, che cominciò presto a far sentire la sua insolenza e violenza, e che suscitava un disprezzo misto di paura. "Più indiscreta e indisciplinata di questa (scrive il Capaccio, ai primi del seicento) non ha tutto il mondo insieme: il che veramente nasce dalla confusione e dalla mistura di tante generazioni... vil gente mendica e mercenaria, atta a disfare ogni buona costituzione di ottima repubblica: canaglia da cui è nato ogni tumulto popolare e ogni sollevamento fatto in questa città, e alla quale non si può porre altro freno che la forca". Questo popolo, col suo prolungamento nella plebe, non dava pensiero solamente ai viceré, che più volte per tenerlo a segno ricorsero a rapide e crudeli giustizie; ma anche alle altre classi, al ceto medio, specie ai pubblicani e commercianti, e più ancora alla nobiltà. Il popolo napoletano, infatti, mormorava contro i gentiluomini degli altri sedili, che si facevano corrompere dai viceré e votavano gabelle che esso popolo solo pagava, mentre quei gentiluomini, sfuggendo i dazi, si riempivano le case di viveri e di merci d'ogni sorta, e, per di più, spesso guadagnavano con assumere gli appalti. Specialmente nutriva mal animo verso i componenti dei tre sedili meno antichi, nei quali par che fosse maggior numero di nobili di recente fortuna, stretti d'affari con gli speculatori e appaltatori di gabelle. Odiava altresì i baroni, che nei parlamenti (come i gentiluomini nei sedili e d'unita con questi) riversavano sulla gente povera il maggior peso delle imposizioni per donativi; e li odiava più direttamente e personalmente per le offese che quotidianamente riceveva dalla prepotenza e superbia loro e dalla violenza degli sgherri di cui solevano cingersi. "Casa Carafa ce la pagherà!", borbottavano stizzosamente i popolani napoletani, già quindici anni prima della rivolta di Masaniello, con la quale in effetto saziarono la lungamente repressa vendetta. Capipopolo e agitatori, che soffiavano in questi odi e questi rancori, e accendevano speranze con favoleggiare di antichi diritti del popolo napoletano alla esenzione da tutte le gabelle, non mancavano; e non mancò neppure qualcuno - Giulio Genoino - che procurò di trarre da quelle passioni un programma politico, concependo una riforma della costituzione di Napoli, nella quale il sedile del popolo avrebbe dovuto avere nelle deliberazioni parità di voto coi cinque sedili nobili insieme, e allearsi alla nobiltà dei due primi sedili, di Nido e di Capuana, per tener testa a quella degli altri meno antichi ….. […] |
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