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IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE |
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ANATOMIA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE |
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di Egidio Sterpa |
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da: "Anatomia della questione meridionale" - Editrice Le stelle, Milano, 1978 |
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UN REGNO "SENZA STRADE E SENZA CITTÀ": NAPOLI E LE SUE "COLONIE" La questione meridionale è sempre stata la costante, palese od occulta, di tutte le crisi del nostro Paese, essendone di volta in volta effetto o causa, e l'uno e l'altra insieme. Già siciliani, calabresi, lucani, pugliesi lamentavano il loro sfruttamento come "colonie" da parte dei napoletani all'epoca del regno delle Due Sicilie. Napoli, la capitale, oltre godere dei vantaggi della presenza dei pubblici uffici, della corte, delle rappresentanze diplomatiche, contava allora più di seicentomila abitanti e aveva concentrato attorno a sè industrie e commerci. A parte Palermo, nessuna città meridionale superava, alla vigilia della rivoluzione del 1860, i ventimila abitanti. Da solo, questo fatto la dice lunga sul rapporto capitale-periferia: una gran testa su un corpo fragile e disgregato, in un regno, come qualcuno l'ha definito, "senza strade e senza città". LA RIVOLUZIONE DEL 1860 I "CETI EMERGENTI", LA PIEMONTESIZZAZIONE, IL BRIGANTAGGIO - GUERRIGLIA In fondo la rivoluzione del 1860 fu non tanto la "liberazione" ad opera dei garibaldini e insieme la "conquista" da parte dei piemontesi, ma soprattutto l'esplosione della questione meridionale di allora: un movimento anti-Napoli, contro un regime che non aveva saputo cogliere le ansie dei tempi nuovi, contro ingiustizie, miseria, oppressione. Fu movimento borghese - i "ceti emergenti" cercavano spazio, come sempre -, ma a cui non furono estranee le speranze, covate nella sofferenza e nella sopraffazione a lungo supportate, dei contadini analfabeti: tale fu senza dubbio il fenomeno dei "picciotti" in Sicilia. Garibaldi e le sue promesse, esplicite o implicite, di riforme sociali agirono da deterrente, così come "l'ordine" e la "legalità" piemontesi provocarono poi delusione e rabbia. "L'operazione unità" significò, purtroppo, la piemontesizzazione del regno del Sud. E vide il trasferimento della questione meridionale dallo stato delle Due Sicilie al regno d'Italia, in proporzioni aggravate e inasprite. Il fenomeno del brigantaggio fu in realtà la guerriglia di rivoluzionari in pectore, naturale reazione alle frustrazioni sopravvenute dopo la piemontesizzazione, gesto disperato di minoranze inconsapevoli, se si vuole, del valore storico del loro dissenso. Non fu un caso che ad un certo punto nel Sud si affermò la Sinistra storica, in opposizione ai moderati e ai legittimisti di quello ch'era allora "l'arco costituzionale" dei Lamarmora, dei Minghetti, dei Sella, degli Spaventa. La Sinistra ebbe come capifila autentici patrioti: alcuni di essi erano stati garibaldini e personaggi determinanti nella caduta dei Borboni, come Crispi e Nicotera per esempio. Costoro erano i portavoce di un'italia meridionale che chiedeva più autonomia e la fine del latifondo, e non la pura e semplice annessione agli stati del re di Sardegna. CON L'UNITÀ S'INASPRISCE LA QUESTIONE MERIDIONALE - LA DECADENZA DI NAPOLI - I CALCOLI E LA TESI DI NITTI Con l'unità, la questione meridionale s'inasprì: la condizione della popolazione s'aggravò. La situazione economico-sociale delle provincie dell'ex regno delle Due Sicilie - condizione che poteva essere definita di "stabilità nella miseria" - divenne dinamica all'inverso. Ora c'era l'altra Italia a beneficiare dell'azione governativa e a sottrarre capitali ed energie alle terre conquistate. In questa dinamica alla rovescia furono coinvolti anche Napoli e il suo hinterland, che sotto i Borboni erano stati obiettivamente un'area di sviluppo. Già nel '700 Napoli aveva filande, cartiere, opifici meccanici, manifatture, industrie dell'alimentazione, delle pelli, della lana, della seta. I Borboni avevano cercato di imitare il colbertismo dei Borboni di Francia promuovendo numerose attività. C'era un'ossatura industriale non disprezzabile, e c'erano condizioni per fare altri passi avanti: le materie prime agricole, un grande porto, il mercato meridionale. Perduti i privilegi degli uffici pubblici e della presenze della corte e dei diplomatici, l'ex capitale divenne una città di disoccupati permanenti. Anche le industrie e i commerci, ch'erano stati prosperi, presto intisichirono sotto i gravami fiscali, concorrenza del Nord e la disoccupazione dei governi unitari. Nitti, agli inizi del secolo, calcolò che nel 1850 circolavano nel regno delle Due Sicilie 2 milioni di lire oro, contro 148 milioni nel resto d'Italia. Studioso di economia, nel dibattito meridionalista Nitti sostituì alle invettive e intuizioni il rigore scientifico delle cifre e un'analisi economica corretta della questione meridionale. Era il momento della crisi di crescenza posta dal delinearsi in Italia della nuova democrazia industriale, e lo studioso lucano, in quel frangente storico, vedeva possibile il tentativo di far uscire il Sud dalla degradazione economica e socio-politica. Si trattava - questa la tesi nittiana - di operare interventi correttivi e riequilibratori: lo Stato unitario aveva il dovere di ridare al Sud quel che il processo di unificazione gli aveva tolto in termini di ricchezza reale; il resto sarebbe avvenuto da solo per effetto del naturale impulso allo sviluppo. LA GRANDE OCCASIONE MANCATA DELLA DEMOCRAZIA INDUSTRIALE - I DIFETTI E LA MIOPIA DELLA CLASSE DIRIGENTE POST RISORGIMENTALE Fu la grande occasione mancata della democrazia industriale al suo nascere: alla classe dirigente mancarono una visione unitaria e una strategia economico-sociale globale per il Paese. A giustificazione di questa grande carenza - che fu dei politici, ma non solo di essi - c'è il fatto che l'Italia di allora si muoveva in un'orbita veramente provinciale, senza quelle basi culturali che avrebbero potuto far prevedere le conseguenze di uno sviluppo geograficamente unilaterale. Mancavano, è vero, parametri e punti di riferimento, ma oggi si può dire che la classe dirigente post risorgimentale difettò di quel naturale respiro europeo e mediterraneo che altrove invece ebbero altre classi dirigenti. Provincialismo, miopia e rozzezza culturale furono mediamente i grandi difetti dei governanti italiani nel momento storico che, in ritardo sugli altri Paesi, vide da noi l'avvento della rivoluzione industriale. Non c'erano, ai vertici, né cultura politica ed economica adeguata ai tempi, né una concezione moderna dello Stato. LA VALVOLA DELL'EMIGRAZIONE - IL SIGNIFICATO DELLA "FUGA" VERSO L'ESTERO - IL CONTRIBUTO INDIRETTO ALLO SVILUPPO DEL NORD Che cosa sarebbe avvenuto nella penisola se alla fine del secolo scorso non si fosse aperta la valvola dell'emigrazione? È molto probabile che l'unità d'Italia si sarebbe spezzata nel sangue. Miseria, pressione fiscale e un sentimento di pressoché totale estraneità al sistema politico realizzato dal Risorgimento furono le molle che spinsero la parte più valida di intere comunità del Sud a rischiare il viaggio verso l'ignoto. Quale parte avrebbe avuto questa forza-lavoro nella storia meridionale se non fosse emigrata? Il fenomeno della fuga, verso le Americhe soprattutto, assume proporzioni enormi appena qualche lustro dopo l'unità d'Italia. A decine di migliaia i contadini del Sud varcarono l'Oceano (oggi la comunità italo-americana, solo negli Stati Uniti, conta quasi 25 milioni di persone; senza parlare degli "oriundi" del Sud America) per sfuggire alla dura realtà di un piccolo mondo che li condannava in partenza all'analfabetismo e all'abbrutimento. Il fenomeno dell'emigrazione - che si è ripetuto anche dopo la seconda guerra mondiale, con aspetti e proporzioni quasi bibliche: ancora verso le Americhe e poi verso l'Australia e soprattutto verso il Nord Europa e le regioni settentrionali italiane - rappresenta un'epopea dolorosa e immane per le popolazioni meridionali: effetto e causa insieme dell'impoverimento delle terre del Sud, esso è una delle grandi responsabilità storiche delle classi dirigenti post-unitarie. Non è retorica se si dice che tutte quelle migliaia di emigrati, che lasciarono l'Italia sentendosi estranei al sistema politico-sociale, contribuirono di fatto a cementare l'unità del Paese. Essi hanno pagato il loro contributo, oltre che con il coraggio della fuga e col trasferimento della loro disperazione in luoghi lontani, con le "rimesse" in denaro. Tra il 1900 e 1922 ben venti miliardi di lire sono giunti ufficialmente in Italia come frutto del sudore e del sangue degli emigrati, senza contare le somme - queste non ufficiali - giunte in biglietti di banca nel seno di buste raccomandate: enormi capitali che entrarono nella circolazione sanguigna del nostro organismo nazionale. Paradossalmente, gli emigrati siciliani e napoletani finanziarono lo sviluppo delle attrezzature civili del Nord, la crescita delle industrie piemontesi e lombarde, il potenziamento del porto di Genova, la formazione di una flotta mercantile. Le "rimesse" dei meridionali passavano tradizionalmente per i Banchi di Napoli e di Sicilia, ma fatalmente finivano in mutui e finanziamenti agli imprenditori del Nord. Erano quest'ultimi, del resto, ad offrire migliori e più solide garanzie per l'utilizzazione del denaro, mentre al contrario il Sud, bloccato psicologicamente dalla sua arretratezza, si condannava a crogiolarsi in un'economia parassitaria. IL MITO DEL "GIARDINO DELLE ESPERIDI" E I PREGIUDIZI - PRIMI TENTATIVI PER CAPIRE - LE INCHIESTE BONFANDINI, SONNINO - FRANCHETTI E JACINI Che cosa fece la classe dirigente del regno d'Italia per avere consapevolezza della realtà meridionale? La presenza del nuovo Stato si affermò dapprima con un'azione militare e amministrativa durissima - quella che alimentò da una parte la resistenza - brigantaggio, dall'altra provocò la fuga emigrazione -, poi con una sistemazione politica che non tenne in alcun conto le reali esigenze delle popolazioni. Ma cosa si sapeva in effetti di queste esigenze? Per anni, prima e dopo l'unità, era sopravvissuto un mito, alimentato da molti patrioti meridionali, fuorusciti prima del 1860 a Torino o Genova: che il Sud fosse una sorta di "giardino delle Esperidi". Questo mito fu anche causa di tanti pregiudizi sulla naturale inettitudine dei meridionali, sulla loro incapacità a sfruttare le ricchezze del Sud o comunque a intraprendere iniziative. Il primo timido tentativo di saperne di più fu fatto nel 1876. I rapporti ufficiali diedero qualche allarme dalla Sicilia. Cominciò a farsi strada la convinzione che forse non poteva più bastare l'invio di commissari straordinari o di truppe. Nell'isola venne inviata una giunta presieduta da R. Bonfadini, che però siglò l'inchiesta con una relazione a dir poco infelice, ai limiti dell'irresponsabilità. "In Sicilia - questa era la conclusione in quell'anno di grazia 1876 -non esiste né una questione politica, né una questione sociale". Quasi contemporaneamente al Bonfadini, due studiosi di problemi economici e sociali, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, condussero un inchiesta non ufficiale sempre in Sicilia, che si concluse però con la denuncia del parassitismo dei ceti agrari, la cui azione era da considerare il più grave ostacolo allo sviluppo economico dell'isola. L'ottimismo cieco del Bonfadini venne così bollato d'ignominia. Altra inchiesta che contribuì a qualche spiraglio di luce fu, nel 1877, quella della commissione presieduta dal deputato lombardo Jacini. Pur non essendovi in essa uno specifico riferimento alla questione meridionale - l'indagine verteva sulle condizioni dei contadini italiani in genere - ne risultò importante la conclusione: l'esistenza di un'Italia rurale non tutelata politicamente, mentre al contrario ogni azione di governo privilegiava costantemente le "classi cittadine". FORTUNATO PORTA "A CHIAREZZA DI COSCIENZA E DI DEFINIZIONE" LA QUESTIONE MERIDIONALE - IL RUOLO DELLO STATO NEL PENSIERO DI NITTI Chi portò - la testimonianza, autorevole, è di Croce - "a chiarezza di coscienza e di definizione" la questione meridionale fu Giustino Fortunato, lucano di Rionero in Vulture, terra di briganti. A partire dal 1872 - aveva allora 24 anni - egli intraprese una serie di viaggi, le cui attente osservazioni trasfuse in interessanti corrispondenze, attraverso tutto il Sud, dall'Abruzzo alla Calabria. Ne venne fuori quel panorama di "povertà naturale del Mezzogiorno" che fu la grande scoperta per un'Italia ancora incredula. Ma fu, naturalmente, una scoperta che interessò a malapena l'establishment e qualche studioso. Si può immaginare che cos'era l'Italia di quegli anni, fatta di gran masse analfabete e di una classe dirigente provinciale. Quell'Italia che qualche decennio più tardi portò il liberale Giovanni Amendola a lanciare dalle pagine della "Voce" il grido: "Quest'Italia non ci piace!". Nel 1888, appena ventenne, un altro lucano, Francesco Saverio Nitti, cominciò ad occuparsi della questione meridionale con un saggio sull'emigrazione. La sua tesi non trovò d'accordo tutti i meridionalisti (egli scrisse che l'emigrazione, oltre a sdrammatizzare le condizioni di vita di molte province, offriva il vantaggio delle "rimesse"), ma fu un contributo assai rigoroso alla conoscenza del problema. Più tardi lo stesso Nitti, mettendo sotto accusa il sistema fiscale dello Stato unitario, responsabile di un gigantesco dragaggio di ricchezza dal Sud al Nord, fu il primo ad ipotizzare scientificamente il ruolo determinante dello Stato nel processo di industrializzazione. L'INCHIESTA ZANARDELLI E LA LEGGE SULLA BASILICATA E si giunse finalmente, nel 1902, all'inchiesta Zanardelli sulla Basilicata, da sempre microcosmo esemplare del sottosviluppo meridionale. Zanardelli, bresciano, fu il primo presidente del consiglio a recarsi in quella desolata regione. Il discorso che pronunciò a Potenza, sotto l'impressione di un viaggio fatto in parte a dorso di mulo, è una tappa importante nella scoperta della questione meridionale: "Distese di monti, nudi e brulli, senza qualsiasi produzione, senza quasi un fil d'erba, e avvallamenti altrettanto improduttivi. Si correva per ore e ore senza trovare una casa, e al desolato silenzio dei monti e delle valli succedeva il piano mortifero dove i fiumi sconfinati scacciarono le colture...". Nel 1904 fu varata la legge sulla Basilicata, uno dei primi interventi straordinari per il Mezzogiorno. Qualche lustro prima c'era voluto il tragico colera di Napoli, con migliaia di vittime, perché il Parlamento si decidesse a varare la legge "per il risanamento" dell'ex capitale del regno del Sud. LE RESPONSABILITÀ DEL SOCIALISMO - L'ANALISI DI CICCOTTI - LA POLEMICA DI SALVEMINI Nella mappa ideale delle responsabilità storiche per la disattenzione ai problemi meridionali c'è posto anche per il socialismo. Se è vero che per la sua particolare struttura sociale, caratterizzata dalla mancanza di un proletariato industriale, il Mezzogiorno non poteva avere, e non ha avuto infatti, sul finire dell'800 un consistente movimento socialista (i Fasci siciliani rivelarono il potenziale rivoluzionario delle masse contadine, ma furono un fenomeno a sé) è pur vero che il socialismo ufficiale manifestò una colpevole sordità al problema meridionale. Fu Ettore Ciccotti, socialista di origine lucana e deputato dal 1900 nei collegi di Milano e Roma, a sottolineare la difficoltà di promuovere forme di aggregazione moderna nel Sud, universo umano caratterizzato da una secolare diseducazione politica; ma fu un altro socialista, il pugliese Salvemini, a denunciare con vigore e razionalità la mancanza di un disegno e di una volontà da parte del primo socialismo, negli anni cruciali che precedettero la prima guerra mondiale, per tentare di saldare il destino del proletariato industriale del Nord col sottoproletariato contadino del Sud. "Il movimento socialista - egli scrisse - deve diventare il movimento di tutti i lavoratori italiani e non solo di una sua parte, quindi anche dei contadini meridionali, oltre che degli operai del triangolo industriale". Fortemente polemico con la "moderateria feudale e monarchica" del Nord - aveva 26, nel 1899, quando pubblicò due saggi, uno sulle "Origini della reazione" e l'altro sui Partiti politici milanesi" - e profondamente scettico sul ruolo della piccola borghesia intellettuale meridionale, che considerava servile e parassita tanto da paragonarla alla malaria, Salvemini portò le sue aspre critiche al partito socialista, cui rimproverava un'azione politica sostanzialmente corporativa e nordista, fino ad uscirne. Il capitolo della polemica meridionalista tra Salvemini e il partito socialista è di sicuro una delle pagine meno belle del socialismo italiano. A Salvemini si devono anche le pagine più illuminanti sul ruolo negativo, dal punto di vista morale, di una classe dirigente che strumentalizzò, anziché combatterli, i mali storici del Mezzogiorno. I suoi scritti sul "ministro della malavita" sono, non solo un'implacabile atto di accusa, ma la scoperta che il vero nodo da sciogliere nel Sud era - ed è ancora, purtroppo - di natura etico-politica. IL NODO ETICO-POLITICO - LA VISIONE DI DORSO: IL "BLOCCO AGRARIO", LA RICERCA DI UNA CLASSE DIRIGENTE "SENZA PAURA E SENZA PIETÀ" È proprio in chiave etico-politica che, più tardi, si delineò la visione meridionalista dell'avellinese Guido Dorso. "La rivoluzione italiana sarà meridionale o non sarà": in quest'affermazione c'è, meglio d'ogni altra, la sottolineatura della "centralità" per l'Italia del problema del Mezzogiorno. La visione politica di Dorso, in un certo senso figlia di quella di Salvemini, è lucidamente critica nei confronti dell'azione dei governi post-unitari, ai quali l'autore della "Rivoluzione meridionale" rimprovera di aver neutralizzato e controllato col trasformismo ogni spinta innovatrice manifestatasi nel Paese e soprattutto nel Sud. Il sostanziale accordo tra interessi industriali del Nord e il "blocco agrario meridionale" - questa la tesi dorsiana - ha permesso la sopravvivenza dello Stato regio in frangenti difficili, ma ha condannato al sottosviluppo politico ed economico il Sud. Dorso vede una sola possibilità per il Mezzogiorno: l'affermarsi di una classe politica capace di agire autonomamente e compiutamente, rifiutando trasformismi é compromessi. Questa classe - sta qui la grande speranza dello scrittore avellinese - potrebbe venir fuori dalla piccola borghesia meridionale, da quel ceto intellettuale tradizionalmente utilizzato dal blocco agrario. Dorso ipotizzò la formazione di una élite "senza paura e senza pietà" capace di sfruttare il "prezioso momento storico" del rinnovamento meridionale: una speranza rimasta tale, purtroppo. LA RADIOGRAFIA DEL MONDO MERIDIONALE DI GRAMSCI E LA SUA TESI DELLA "DISGREGAZIONE SOCIALE" "La rivoluzione meridionale" fu scritta nel 1924, su invito di Gobetti, mentre la dittatura fascista andava stabilizzandosi. Il saggio, che rappresenta uno dei capisaldi della letteratura meridionalista, stimolò l'analisi del comunista Gramsci. La radiografia sociologica gramsciana del mondo meridionale ripropone, in molti punti, gli schemi e i problemi individuati da Dorso. "I contadini meridionali - è uno degli assunti del sardo Gramsci - sono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare un'espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni". Da quest'assunto, che sintetizza la disamina gramsciana sulla "disgregazione sociale" del Sud, scaturisce l'ipotesi - mutuata in parte dal Salvemini - di un determinante intervento del proletariato industriale nella direzione rivoluzionaria del proletariato contadino, al fine che di staccare il ceto intellettuale dal blocco agrario. Come si vede, il centro del problema è sempre lo stesso: la funzione e le possibilità politiche del ceto intellettuale meridionale, nodo tuttora non completamente sciolto. Era 1930 quando Gramsci pubblicava il suo saggio su "Stato operaio": il fascismo era già pienamente regime. STURZO: LA CONTRAPPOSIZIONE TRA LA VOCAZIONE MEDITERRANEA E AGRARIA- COMMERCIALE DEL SUD E QUELLA CONTINENTALE E INDUSTRIALE DEL NORD - LA TESI DEL REGIONALISMO Una nota originale, nel dibattito meridionalista, la inserì Luigi Sturzo, il prete di Caltagirone fondatore del partito popolare. Egli analizzò la questione meridionale nel quadro della politica estera italiana: gli era chiara la contrapposizione tra la vocazione mediterranea e agraria-commerciale del Sud e quella continentale e industriale del Nord. Fu naturalmente quest'ultima a prevalere, perché la politica doganale, com'è noto, privilegiò la nascente industria settentrionale a danno dell'agricoltura e dei commerci meridionali. C'è nella visione sturziana, si potrebbe dire, quasi il presentimento di quello che sarebbe stato molto più tardi il ruolo del vicino Oriente in termini economici e strategici. Questa impostazione di fondo non impedì a Sturzo di vedere i difetti e le colpe del blocco agrario, che, con la sua cecità economica e culturale, condannava il Sud al sottosviluppo. Lo sbocco del meridionalismo sturziano fu il regionalismo: egli vi vide lo strumento per una autodeterminazione delle singole componenti dello Stato unitario e quindi per lo stimolo delle forze endogene, economiche e sociali, del Mezzogiorno. IL FASCISMO, APPENDICE DELL'ITALIA PROVINCIALE: IL MITO DELLA "QUARTA SPONDA", LE OPERE DI REGIME Il fascismo bloccò tutti questi fermenti meridionalisti. Non poteva esserci posto, nella visione mussoliniana, per una questione meridionale. Il fascismo non ammetteva particolarismi, non ufficialmente almeno, e inoltre tendeva a trovare soluzioni esterne ai problemi sociali ed economici: nacque così il mito della "quarta sponda", che discendeva da una visione politica e da una strategia che contenevano già i germi della disfatta per tutto il colonialismo europeo. Ma si farebbe torto alla verità se si dicesse che nel ventennio fascista il Mezzogiorno venne ignorato. Vennero affrontati taluni problemi, senza dubbio, ma nella logica delle "opere di regime": Bari mutò volto, per esempio; Napoli, per la quale fu istituito un "alto commissariato", ebbe opere di grande interesse cittadino e il suo porto fu potenziato e ammodernato; fu affrontato e risolto il problema delle paludi pontine; furono realizzate opere di bonifica e di appoderamento in diverse zone (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia). Mancò, però, la visione generale del problema meridionale: un po' per presuntuosa scelta politica, un po' per rozzezza culturale, perché il fascismo, nonostante tutto, era esso stesso un'appendice dell'Italia provinciale. 1945: RISCOPERTA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE - LE DIVERSE TESTIMONIANZE - IL NUOVO MERIDIONALISMO - LA TESI DI EINAUDI E DI DE GASPERI La questione meridionale tornò alla ribalta col regime repubblicano post-fascista, che ne fece la sua bandiera. Il grande problema fu "riscoperto" e nacque una vera e propria cultura meridionalista, nutrita dalle idee dei "padri fondatori" - Fortunato, Nitti, Dorso, Gramsci, Salvemini, Sturzo - e aggiornata da testimonianze ed esperienze letterarie, politiche, economiche, sociali, che portano i nomi di Carlo Levi, Jovine, Silone, Alvaro, Alianello, Tommaso Fiore, Rossi Doria, Compagna, per citare i più noti e i più impegnati. Grande merito del nuovo meridionalismo è che subito guardò alla questione del Mezzogiorno non più come ad un problema esclusivamente sociale ma soprattutto come ad un problema politico-economico. Fu un gran salto. Economisti di scuola liberale come Einaudi pensarono sempre che lo sviluppo del Sud sarebbe avvenuto automaticamente, in forza del progresso economico del Paese. Politici come De Gasperi accettarono in parte la teoria einaudiana, correggendola con robuste inezioni di partecipazione statale. I meridionalisti, più a sinistra, si sono subito battuti per un impegno totale da parte dello Stato. LA GRANDE "QUERELLE" - GLI INTERVENTI, TRA CONTRADDIZIONI E SPERANZE - LA PRESA DI COSCIENZA DEL PROBLEMA La questione meridionale è stata, per circa trent'anni dalla fine della guerra, la grande "querelle" nazionale, pur passando da momenti di euforia a lunghi periodi di rassegnazione, mentre si svolgevano tentativi operativi notevoli anche se spesso contraddittori. Per quasi trent'anni il problema del Mezzogiorno ha oscillato tra la speranza e la disperazione, in una eterna battaglia verbale che ha visto opposti pragmatisti e programmatori. Il nuovo meridionalismo, comunque, ha sfondato molte porte in questi anni. Partiti e sindacati, per esempio, hanno mostrato di aver appreso la lezione salveminiana. E nata anche una nuova sensibilità tra gli imprenditori settentrionali. C'è stata, infine, una presa di coscienza generale del problema meridionale: gli ammonimenti di Fortunato e di Nitti -"l'Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà"; "prego di non scherzare col fuoco" - li troviamo ormai scritti in tutti i libri, anche in quelli delle scuole elementari. La convinzione che la questione meridionale attraversa orizzontalmente ogni nostro problema economico-sociale, e quindi politico, è arrivata a livello popolare. IL SUD CAMBIA - RIVOLTE, SOMMOSSE, PROTESTE, FERMENTI - LA RIFORMA AGRARIA, LE "CATTEDRALI NEL DESERTO", LE INFRASTRUTTURE C'è anche da prendere atto di un fatto fondamentale: che la realtà sociale meridionale, quella che portò Gramsci a parlare di "disgregazione", è mutata profondamente. Non siamo più in presenza di masse "incapaci di dare un'espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni", non esiste più il "blocco agrario", lo schema gramsciano che dava l'immagine di una società immobile e apatica non trova più riscontro nella realtà. Atteggiamenti e indirizzi delle masse meridionali si sono avvicinati - qualche volta addirittura li hanno scavalcati - a quelli del proletariato industriale. Le rivolte di Reggio Calabria, di Battipaglia, di Pescara, dell'Aquila, decine di altre manifestazioni, sommosse, proteste, fermenti hanno dato la misura delle "febbri di crescenza" delle masse meridionali. C'è stata una "svolta" sociale e politica enorme. Quelle che erano regioni caratterizzate da situazioni economico-sociali e da strutture produttive cristallizzate, oggi si presentano mutate, e non solo esteriormente. La riforma agraria, che spezzò il latifondo - merito di De Gasperi, senza dubbio, anche se economicamente e tecnicamente quella riforma non si adattava alle prospettive moderne dell'agricoltura -, poi la creazione della Cassa del Mezzogiorno, strumento molto discusso ma in un certo senso rivoluzionario, e la istituzione di un ministero per gli interventi nel Sud, che ricordano entrambi la roosveltiana "Tennessee Valley Authority", gli investimenti industriali, pur con gli errori simboleggiati dalle cosiddette "cattedrali nel deserto", le numerose opere di bonifica, la realizzazione di innumerevoli infrastrutture - strade, autostrade, porti, acquedotti, scuole, eccetera - la diffusione del consumismo, tutti questi fattori non hanno soltanto operato una trasformazione materiale, ma hanno rimescolato a fondo le acque stagnanti della società meridionale. Rossi Doria, meridionalista critico, agli inizi degli anni Sessanta riconosceva che "gli ultimi vent'anni sono stati di crescita disordinata e di sacrifici durissimi, ma anche anni di maturazione". LA TESI DELLA "RIVOLUZIONE COMODA" - LE NUOVE CLASSI E LE NUOVE GENERAZIONI Qualcuno dice che si è trattato di una "rivoluzione comoda", che la vera rivoluzione meridionale, quella vagheggiata da Dorso, è ancora da venire, che i problemi di fondo non sono risolti. Ma è certamente merito della cosiddetta rivoluzione comoda se il mondo meridionale ha assunto una consapevolezza che prima non aveva, se le secolari stratificazioni si sono sbriciolate, se le nuove generazioni manifestano una volontà e una coscienza che in qualche modo rinnovano e vivificano il mondo meridionale. Non è scomparso soltanto il Mezzogiorno miserabile della giovinezza di Salvemini, ma anche quello apatico, disperato, pietoso e drammatico descritto da Carlo Levi. La rivoluzione meridionale, pur in una certa confusione trafficona, ha camminato. Una rivoluzione controllata e guidata quanto si vuole dal neocapitalismo e dal riformismo moderato, ma incontestabilmente benefica, che in questi ultimi anni sta facendo da lievito ad una rivoluzione più incisiva, più profonda. Se dicessimo che la società meridionale è rimasta la stessa saremmo dei falsi testimoni. Sono nate nuove classi, si va delineando una cultura diversa, nel Sud non c'è più aria di colonia, la capacità delle masse è cresciuta, c'è sempre più il rifiuto della cinica logica del trasformismo e del clientelismo, tra i giovani e i loro padri c'è il salto non di una generazione ma di un secolo. ANCORA IL NODO ETICO-POLITICO - I VECCHI MALI: CLIENTELISMO E TRASFORMISMO - LE NUOVE "BARONIE" C'è un nodo ancora da sciogliere, questo sì, ed è di natura etico-politica. La trasformazione meridionale sarà completa quando saranno colpiti al cuore i vecchi mali, trasformismo e clientelismo. La colpa della mancata estirpazione di questi veri tumori morali è della classe politica, che anzi li ha nutriti, se n'è servita. Scomparsi i baroni agrari, è sorto un neobaronismo, quello politico, che trova rifugio nei partiti, negli enti locali, nelle diverse strutture pubbliche. Una mentalità pari a quella delle baronie tradizionali s'è impadronita dei nuovi centri di potere. Ha scritto Michele Abbate, intellettuale barese, nel suo saggio "L'alternativa meridionale", che i nuovi detentori del potere sono "spesso non meno incolti dei vecchi signori e assai più avidi di loro, per antica fame, come una classe dirigente coloniale, rumorosa e procacciante, abilissima nei salamelecchi e nelle pugnalate alla schiena". Eccolo il vero problema meridionale, oggi, certo più rilevante di quello economico: il ricambio e il rinnovamento dentro le strutture politiche ai fini della creazione di una classe dirigente d'avanguardia, che sappia finalmente recidere alla base i mali morali della società meridionale. Gigantesco problema, che non è solo meridionale purtroppo. IL RUOLO DEGLI INTELLETTUALI - IL PERICOLO CHE IL SUD PERDA LA PROPRIA IDENTITÀ CULTURALE - L'ETERNA FUGA DEI GIOVANI Nell'estate del 1972, in una lunga conversazione che ancora ricordo come uno dei momenti più intensi dei miei viaggi alla "scoperta" del nuovo Sud, Vittore Fiore, un intellettuale pugliese cresciuto all'ombra delle idee del padre, nutrito di una cultura salveminiana, mi disse: "Le alternative cui aspirano gli intellettuali e i giovani sono difficili da realizzare in un mondo dove il quadro, nonostante tutto, rimane vecchio e le forze tradizionali tendono ad assorbire i nuovi fermenti. Le difficoltà del Mezzogiorno sono ancora coriacee, riescono in maniera tuttora notevole ad opporsi al nuovo, lo insidiano, lo circuiscono, lo stemperano, lo assorbono Fiore mi segnalò un altro grave pericolo per il Mezzogiorno: quello di smarrire la propria identità culturale. Il rischio, appunto, e che, per effetto della "rivoluzione comoda", il Sud, sradicato dal suo "humus" contadino, che bene o male in passato produsse valori umanistici ragguardevoli ed energie sia pure solitarie ma vigorose, perda la sua originalità. Man mano che il mondo contadino scade d'importanza e di peso, i ceti medi e la classe operaia, soprattutto nelle grandi città, vanno uniformandosi agli standard culturali che vengono dalle grandi centrali del Nord. La scarsezza di quadri culturali, anche per la eterna fuga dei giovani, porta al pericolo d'una massificazione. Come una bottiglia vuota, il Mezzogiorno rischia di riempirsi di un liquido che non è il suo, di sapore coloniale. I NUOVI PREOCCUPANTI SEGNALI DAL SUD - IL DIVARIO COL NORD - LA DISOCCUPAZIONE Quest'Anatomia della questione meridionale viene pubblicata mentre dal Mezzogiorno d'Italia giungono gravi e preoccupanti segnali. Dopo le grandi speranze degli anni Sessanta, la crisi nazionale sta accumulando nel Sud tutta una serie di problemi che fanno da lievito ad una pericolosa carica di delusioni e di rabbia. Il dato più preoccupante è quello della disoccupazione. Alla fine del 1977 i disoccupati erano, in tutto il Mezzogiorno, quasi un milione, tra persone in cerca del primo lavoro e persone che avevano perso un impiego. Drammatico il divario Nord-Sud: su mille persone in età di lavoro nel Sud 44 sono disoccupate, contro 26 della media nazionale. Ci sono dati particolari - li prendiamo dai bollettini Svimez del 1977 - che segnalano casi allarmanti: la sola Campania concentra il 37 per cento della disoccupazione meridionale; nel Molise, in un anno, s'è registrato un aumento di disoccupazione del 47,2 per cento; in Sicilia, del 34,7 per cento. A smontare l'attuale "scatola cinese" meridionale, ci si accorge della complessità e della gravità dei problemi vecchi e nuovi, dove i nuovi, oltre a fare da detonatore, moltiplicano la gravità dei ritardi e delle disattenzioni per i vecchi. I rischi di questa situazione sono la radicalizzazione e l'esasperazione della questione meridionale, oggi praticamente congelata nonostante tutta la liturgia meridionalista dei partiti e dei sindacati. Il fatto che riempie di sgomento è che la distanza economico-sociale tra Nord e Sud, in dati statistici, tende a crescere. CHE FARE? CINQUE OBIETTIVI: AGRICOLTURA, TURISMO, LE ZONE INTERNE, LA CREAZIONE DI UN CETO IMPRENDITORIALE, LA FORMAZIONE CULTURALE E PROFESSIONALE Che fare per "attaccare" con profitto la questione meridionale? Rossi Doria afferma che "oggi si sa quel che si deve fare" perché il meridionalismo "è passato dalla utopia alla scienza". Ma i dubbi in proposito sono molti. In realtà nella politica meridionalistica da quasi tre decenni si va avanti per successive approssimazioni. Oggi almeno cinque ordini di problemi si pesentano irrisolti e urgenti per il Mezzogiorno: (1) la riconversione dell'agricoltura, nel quadro della vocazione meridionale e delle esigenze di competitività imposte dalla partecipazione al mercato comune europeo; (2) la riconsiderazione del ruolo del turismo; (3) l'avvenire delle zone interne, che deve essere ripensato profondamente; (4) la creazione di un ceto imprenditoriale in grado di gestire autonomamente le nuove strutture produttive; (5) la formazione culturale e professionale ad ogni livello che consenta di corrispondere a precise domande di occupazione qualificata. MANCANZA DI UNA STRATEGIA - LA NUOVA DEMAGOGIA - LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE Non sono molti ad avere una visione chiara dei problemi meridionali e dei modi per affrontarli. Non esiste una strategia della classe politica, non c'è unanimità sui modi né tra i partiti né dentro i sindacati. La cosiddetta "centralità" del problema meridionale appare piuttosto come una nuova trovata retorica e demagogica. Nella realtà i problemi del Mezzogiorno sono tornati a marcire in questi anni di crisi economica per tutto il Paese. Una decina d'anni fa incontrai il socialista Giorgio Ruffolo nel suo ufficio di programmazione al Ministero del Bilancio. Due sue affermazioni ritengo ancora valide: "Non si entra in Europa con i nostri profondi squilibri"; "Elemento indispensabile per la programmazione meridionalista è la stabilità economica". Saraceno, all'inizio della nostra grande inflazione degli anni Settanta, non mancò di sottolineare come essa avrebbe impoverito ulteriormente le zone non industrializzate del Sud. C'è chi ha scritto che il Sud è arrivato al livello di guardia: non funziona più la valvola dell'emigrazione, rischia di chiudersi quella della politica assistenziale (opere pubbliche, sussidi) per la necessità di ridurre il disavanzo pubblico, monta gravemente la disoccupazione giovanile. Fremiti di rivolta sociale il nuovo Sud ne ha già conosciuti negli ultimi anni; ora si vanno addirittura manifestando forme di eversione terroristica. NON SI PUÒ PIÙ FAR CONTO SULLA RASSEGNAZIONE - L'IMPAZIENZA DELLE NUOVE GENERAZIONI - I PERICOLI DI UNA RADICALIZZAZIONE. Una cosa è sicura: nessuno può far più conto sulla secolare rassegnazione del Mezzogiorno. Se un cambiamento di fondo è certamente avvenuto, questo è nella psicologia delle popolazioni meridionali, che non sembrano più disposte a star sull'uscio della storia del paese. Nel 1961, l'americano Herbert Kubly visitò per conto di "Life" l'Italia meridionale. Scrisse queste parole che oggi appaiono singolarmente lungimiranti: "Avendo imparato il significato della disoccupazione, il meridionale oggi non si rassegna più alle condizioni di vita tradizionali. E impaziente. Ha visto che cambiare è possibile, e vuole che questo cambiamento avvenga nel corso della sua vita. Non sopporta che i suoi figli vivano senza speranza, e concede al governo solo un tempo limitato per dimostrare che le istituzioni democratiche sono in grado di fornir lavoro alla gente". Sono proprio i figli dei meridionali già 'impazienti" agli inizi degli anni Sessanta a destare le maggiori preoccupazioni. Dal milione e più di disoccupati meridionali, tra cui molti diplomati e laureati, possono partire gli atti disperati capaci di dar fuoco alle delusioni di mezza Italia. I pericoli per una radicalizzazione della situazione politica italiana si trovano più al Sud che al Nord. |
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