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SAN LORENZELLO

BRIGANTAGGIO

 

di: Nicola Vigliotti da: "San Lorenzello e la valle del Titerno" - Ed. Fondazione Massone-Cerza - 1998

 

Il brigantaggio è esistito da sempre: le forme e i fini sono mutati secondo i tempi. Riteniamo perciò inutile tentarne una disamina, anche perché sull'argomento molto è stato scritto. Voglio solo ricordare che, per quanto riguarda il Regno di Napoli, il brigantaggio fu un'istituzione a cui il Governo stesso faceva ricorso m occasione di guerre e col quale, come ricordato, i baroni stringevano patto di mutuo soccorso (260). E politico fu quello che si organizzò, in era napoleonica agli ordini di Mammone e Frà Diavolo per sostenere le parti degli spodestati Borboni. Con queste bande il cardinale Ruffo potè marciare trionfalmente dalla Calabria e restaurare a Napoli l'ancien régime. Successivamente furono ancora queste bande a compiere azioni di disturbo contro il rinnovato potere francese. Con il ritorno dei Borboni nel 1815, i briganti, consci di aver svolto un ruolo non indifferente nella restaurazione, si ritennero in diritto di conservare le armi, anche perché sarebbe stato difficile, specie ai capoccia, tornare come Cincinnato ad una vita di lavoro, noiosa oltretutto dopo le gustate gioie del potere. I briganti perciò continuarono a vivere o piuttosto a rigogliare. Spesso, veri mafiosi, dimorarono tranquilli nei nostri paesi esigendo denaro ed alimento e ponendosi come unici arbitri nel dirimere questioni tra privati cittadini: ai deposti ras nobiliari erano subentrati i guappi. Guappo di San Lorenzello fu i Pint d'Maida. Teneva quartier generale in via Congregazione, onde poteva avere maggiori possibilità di fuga verso il Monterbano, dettando leggi a tutti: guai a contraddirlo o ad offenderlo anche nelle sue cose. La guardia campestre Pasquale Ruggieri, per aver respinto con sacrilego piè la vergine cuccia del bandito che lo aveva azzannato, fu incluso nella lista dei condannati a morte. Protetto dall'omertà, potè compiere indisturbato una serie di delitti finchè un giorno varcò la misura al punto da muovere il coraggio di tutti e segnare la sua fine. Mi narrò l'episodio, nel 1968, la allora ultranovantenne ma lucida signora Filomena Ruggieri vedova Mongillo ..... Il giovane calzolaio Nardo Fraenza, dovendosi allontanare dal paese per qualche tempo, si era recato, la sera del 27 giugno 1840, sotto le finestre della fidanzata, nei pressi del Sopportico dei Massoni e, come allora usava in paese, le aveva cantato la serenata:

Bella ca mo mi parto - amica addio!

Tutti gli affetti miei t'arraccumann.

Quando son giunto dove è il mio destino,

na lettricélla al cuore tuo i' mann,

là stanno scritti pur gli affetti miei.

Il mio ritorno ? Io non so dirti a quando.

La povera Carmela era ancora tutta in estasi quando udì dei colpi di arma da fuoco. Si precipitò nella strada e fece appena in tempo a cogliere l'ultimo sguardo implorante del suo Nardo: i Pint d'Maida lo aveva ucciso su commissione. Pochi giorni dopo le guardie locali, con la collaborazione popolare, potettero arrestarlo mentre era incuneato in un pagliaio e, giunta la Gendarmeria di Piedimonte, fucilarlo dietro la Congrega, luogo in cui i briganti venivano giustiziati. Nel sopralluogo effettuato poi nella casa del bandito, le guardie trovarono la lista nera col nome degli uccisi e di quelli da uccidere, con a fianco la motivazione della condanna. Con l'avvento del Regno d'italia il brigantaggio diventò, anche nelle nostre zone, fenomeno serio ed organizzato tanto da turbare i sonni dei governanti piemontesi che preferirono la via dura della reazione a quella della prevenzione e della ricerca delle motivazioni che alimentavano il fenomeno. Nè gli uomini del Sud, emergenti nella nuova situazione politica, si mostrarono più illuminati nel proporre serie riforme sociali, realizzare lavori pubblici e tutta quella serie di provvedimenti che sarebbero stati capaci di far apprezzare - come affermò Diomede Pantaleoni, inviato nel Sud da Bettino Ricasoli - il nuovo regime ad un popolo nel quale il concetto dell'Unità non era penetrato. Si trattò dunque di un brigantaggio favorito per l'occasione da motivi di reazione filoborbonica, ma motivato anche da ancestrale protesta contro soprusi secolari e spesso degenerato, come notato, in delinquenza comune anche per la necessità di sopravvivenza delle bande. Il brigantaggio di buona parte del Sannio e di Terra di Lavoro ebbe nome Cosimo Giordano. Cosimo Giordano nasce a Cerreto Sannita il 15 ottobre 1839 e trascorre sedici anni tra la vita di campagna e qualche sortita nel centro in compagnia degli amici. Alto mt. 1,70, capelli e baffi neri, colorito bruno, appare piuttosto gracile e cagionevole di salute ma di intelligenza perspicace. Cosamiello non pensa certo di divenire personaggio storico la sera del 28 giugno 1853, mentre se ne torna tranquillo dal lavoro dei campi insieme al padre Generoso. Dalla parte opposta, lungo la via che porta al Convento della Madonna delle Grazie, viene Giuseppe Baldini. Un incontro trascurabile se il Baldini non fosse creditore di pochi carlini che non riesce ad avere e se, proprio quella sera non gli saltasse il grillo di richiederli con violenza a Generoso Giordano. Dalle minacce ai fatti è solo un attimo: Generoso cade, colpito dall'accetta, ai piedi del figlio; ancora un istante e anche il Baldini giace colpito al cuore da una coltellata. Il timido Cosamégl, dinanzi all'uccisione del padre, ha cacciato le zanne. La Gran Corte Criminale di Napoli lo assolve con l'attenuante della giovane età e della eccitazione per la truce uccisione paterna. Cosimo, ormai ventenne, pensa di allontanarsi dall'ambiente, arruolandosi nel Corpo dei Carabinieri a Cavallo borbonico e, col grado di sergente, partecipa, il 10 ottobre 1860, alla battaglia del Volturno, meritando lodi per il suo coraggio, ma anche una serie di successive persecuzioni da parte del nuovo governo, fino al mandato di cattura. Riuscito a fuggire, Cosimo, diventa Capraccosimo, ossia Caporal Cosimo, capo brigante, organizzando una banda che ha come quartier generale le nostre montagne e che si fa più potente quando ne diviene luogotenente il cerretese Vincenzo Ludovico, alias Pigliucchegl; la rinforzano un gruppo di sbandati tra cui i cerretesi Antonio Barile e Domenico Di Crosta, alias Tribunale, Gerolamo Civitillo, alias Senzapaura, Pasquale Maturi, Pasquale Prece di Cusano, Nardone Prospero Cardillo, Salvatore Pistacchia di Campolattaro e i laurentini Costantino Fappiano, Vincenzo Petronzi, Domenico Tacinelli. Favorito anche dalle rispettive famiglie dei coniugi Pasquale Mendillo e Anna Testa, della cui figlia è fidanzato, Cosimo trova sicura ospitalità nelle loro abitazioni montane, come in quella di Andrea Borzaro alla Posta. Delle imprese di Cosimo molto è stato scritto. Mi contenterò pertanto di fare qualche notazione, specie per quanto riguarda la sua azione nel nostro territorio, facendo tesoro della ancor viva tradizione e di altri documenti che citerò. Spesso Capraccosimo faceva le sue apparizioni in case coloniche di San Lorenzello e dintorni: era di casa, per esempio, presso una famiglia abitante in contrada Serre (attuale proprietà del Seminario) o presso i Sagnella, in contrada Foresta. Vi trascorreva, banchettando, allegre serate sotto la protezione della banda che bighellonava sull'aia. Talvolta, invece, giungeva in veste di rapitore, e, alla maniera di un moderno kidnapper, faceva seguire al ratto un bigliettino con l'invito a versare una certa somma, pena l'invio di un orecchio o della punta del naso del rapito. Agevolava i contatti il giovanottino Alfonso Tacinelli, inviato speciale popolare, graditissimo a Cosimo. Ricatti e minacce erano rivolte a nobili e possidenti, ma anche a sacerdoti e suore, specie le Clarisse di Cerreto. Qualche volta la somma inviata dai ricattati non era proprio quella richiesta; allora Cosimo esclamava con sussiego: Pozza perd' semp' Còs'm. Tra i rapiti rimase famoso Luigi Marone che, nel tentativo di fuggire si buscò una schioppettata all'inguine e, con essa, il nomignolo di Sciaquapalle. Si rifece, però, partecipando come bersagliere alla Breccia di Porta Pia. Tra le donne rapite vanno ricordate: la moglie di Sciulitt, bassina ma agile che riuscì ad evadere anche se, durante la fuga, si cecò un occhio in uno spineto; un'altra soprannominata poi, la briganta, preferì rimanere coi banditi svolgendo il ruolo di cuoca e anche di... amica del Capo, perché - come poi ripeteva - anche i briganti sono figli di Dio e il Caporale, cioè Capraccosimo, voleva che i banditi rispettassero le donne. Diverse famiglie godevano la protezione di Cosimo e guai a disturbarle. Un fatto romanzesco ebbe le sue punte drammatiche proprio a San Lorenzello. Un landò conduceva Irene, figlia, pare, del Conte Murra, costretta da questi a monacarsi per evitare il matrimonio con Sigfrido, ufficiale dell'esercito ma di bassi natali. Lungo la strada Guardia-Cerreto, in località Bosco Piccirillo, la banda Giordano dette l'alt alla carrozza e rapì la fanciulla, conducendola verso San lorenzello. Il giovane Sigfrido, che seguiva di soppiatto la carrozza con le stesse intenzioni, vista la scena, precedette i banditi, appostandosi nei pressi del ponte sul Titerno, dietro la Cappella di S.Sebastiano. Ne nacque una sparatoria durante la quale Sigfrido, ferito al braccio, fu costretto a cercare scampo nelle acque del Titerno. Irene, invece, fu condotta alla Palommara, specie di fortezza alle falde del Monterbano e affidata alle cure della briganta alla quale rivelò la sua situazione familiare e l'amore per il giovane Sigfrido. Cosimo, appresa questa storia dalla sua donna, fece cercare Sigfrido che intanto era stato medicato dalla balia delle proiette Mariantonia Lavorgna, e lo fece condurre nella più fortificata tana di Monte Cigno, detta Grotta dei delitti. La vicenda ebbe buon esito perché Cosimo, commosso dalla romantica storia, costrinse il parroco di San Lorenzello a celebrare il matrimonio di sorpresa fra i due giovani nella Cappella di S.Sebastiano. Di questi episodi se ne raccontano molti, perché Cosimo crebbe nella fantasia popolare al punto di diventare leggendario. Risulta attestato, invece, il fatto che i banditi sotterravano spesso anche nelle nostre campagne i loro bottini (261). L'azione del fuorilegge costrinse per parecchio tempo il paese al coprifuoco, finchè il locale Corpo di Guardia fu rinforzato e posto al comando di Lorenzo Fraenza, l'uomo che diventò leggendario per la sua caccia spietata ai briganti. L'azione del Fraenza si svolgeva in certo senso motu proprio, anche se sovvenzionata dal Comune. Egli si era offerto spontaneamente allorchè la nostra Amministrazione comunale, come del resto quasi tutte le altre della Provincia, non accennava a destarsi dall'inspiegabile torpore. O meglio, spiegabile per ragioni che sarebbe lungo enumerare e che andavano comunque dalla paura all'interesse. ........ La banda Giordano, divisa in quattro brigate, funestò non solo la nostra ma anche altre provincie, turbando i sonni perfino del Ministro degli Interni Bettino Ricasoli, operando delitti su commissione, orientando gli elettori, nelle elezioni politiche e amministrative, verso i Padrini curando via via la ricostituzione o l'inglobamento di altre bande di Terra di Lavoro, Molise, Puglia che agivano in perfetto collegamento sotto la guida del Caporale Cosimo, ricorrendo perfino a messaggi criptografici o sibillini. ...... Dopo le azioni del 1861, Cosimo e Pilucchiello stettero a svernare a Roma, ospiti dei Borboni (264). Ritornarono a Cerreto nel giugno '62 iniziando un'attività frenetica che mandò in bestia Prefetti, Sindaci, Commissari di PS., Generali dell'esercito, Carabinieri ai cui agguati Cosimo, vera primula rossa del Sannio, puntualmente riusciva a sfuggire, prendendosi spesso anche beffe di loro. Così il 28 ottobre 1863, con la sua banda, dall'alto della Prece del Monterbano scandì più volte questa frase: Viva Vittorio Emanuele, vogliamo presentarci, se non oggi, domani. Inutile dire che le forze dell'ordine raggiunsero immediatamente la Prece, ma Cosimo si era eclissato. Vedendosi braccato, il Giordano visse di sotterfugi, assumendo via via il ruolo di cantastorie, cretino, venditore ambulante, negoziante di porci e perfino di guardia nazionale. Dopo un viaggio a Londra e Marsiglia, rientrò nello Stato Pontificio nel 1868, facendo poi diverse scorribande nelle nostre zone per esigere denaro dai suoi ex dipendenti. Nella sola Cerreto raccolse in pochi giorni settemila lire (265). Siccome la Gazzetta di Napoli, in un articolo del 28 giugno 1880 dette l'allarme, Capraccosimo, che si nascondeva sotto il nome di Giuseppe Pollice, pensò bene di svignarsela a Lione dove mise su un negozio di frutta e liquori. Ma fu scoperto: secondo il Mazzacane per aver iniziato pratiche onde sposare la sua concubina; secondo il citato processo, invece, perchè aveva svelato il suo vero nome alla donna amata, la quale novella Dalila, rivelò tutto alle autorità italiane in Francia e seppe ridestar vivo nell'animo dell'esule il desiderio di rivedere il cielo della sua terra natia (266), tanto che Cosimo, uomo sui quaranta, dallo sguardo penetrante e irrequieto, sbarcò a Genova il 26 agosto 1882, indotto da un Commissario di pubblica sicurezza che fingendosi commerciante lo aveva pregato di accompagnarlo e, prima ancora che si riavesse dalla sorpresa, poderose braccia lo qhermirono e qli avvinsero i polsi di catene (267). Esattamente due anni dopo dovè ascoltare la sentenza di condanna ai lavori forzati a vita. Durante il processo Cosimo chiese invano la convocazione anche di testimoni francesi e invano affermò di aver capitanato una banda armata per uno scopo politico, quella cioè di insorgere contro il Governo Nazionale, e restaurare il vecchio regime (268). Morì il 14 novembre 1888 alle ore 9,55 nel Bagno Penale di S.Giacomo, comune di Favignana (Trapani), dove è sepolto. Si chiudeva così l'era di Capraccòsimo e del brigantaggio nelle nostre contrade.

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