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SAN LEUCIO DEL SANNIO

 

Sequestro del Marchese Zamparelli

La Guardia Nazionale

 

 

Autodifesa di due sacerdoti

San Leucio partecipa all'unità d'Italia

 

Fotografia d'epoca

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autodifesa di due Sacerdoti

da "Preti, Contadini e Briganti" di Pietro Zerella, La Scarana, Benevento, 2000

 

Tra il 1860 e il 1861, il Sannio fu attraversato da una parte da rivolte, fucilazioni, sangue e denunce, e dall'altra da scomuniche e proteste, che partivano dal Papa contro le nuove Autorità politiche, in particolare nei confronti di Vittorio Emanuele II e del governo cavouriano a causa delle spoliazioni dei beni della Chiesa. In questo clima due piccoli, ma coraggiosi sacerdoti del comune di S. Leucio (del Sannio), lottarono con intelligenza e determinazione contro le nuove Istituzioni, per evitare il carcere o la sospensione a divinis da parte del loro Vescovo, mentre altri religiosi meno fortunati furono processati e arrestati. In tutto il Mezzogiorno la resa di Gaeta doveva essere ricordata con manifestazioni religiose di ringraziamento. I vescovi di Trani e di Chieti, che in base alle istruzioni di Roma non avevano permesso il canto dell'inno Ambrosiano, furono costretti dalla popolazione irritata a fuggire dalle loro Diocesi. Il Prelato di Avellino per lo stesso motivo fu chiamato a Torino, per dare spiegazioni al Governo. Altri presuli e religiosi del Meridione subirono trattamenti analoghi, mentre i sacerdoti che aderivano all'ordine del nuovo Governo incorrevano nelle sanzioni della Chieesa. Le nuove autorità sostenevano che ogni ordine proveniente dal Papa, tendente a contrastare l'azione di Governo, dovesse ritenersi illegale e quindi i trasgressori sottoposti a processi giudiziari. Il 13 febbraio 1861 il sindaco di Montesarchio, De Simone, con un rapporto, informava il Giudice di questo Circondano che Padre Don Marcello Grassi non era intervenuto al Te Deum, cantato in onore del diletto Re Vittorio Emanuele. Non aveva partecipato all'elezione della camera dei deputati e, soggiungeva, metteva il colmo alla misura della sua perversità d'animo col denegarsi alla solita annuale funzione delle 40 ore che a divagazione della Congrega di S. Giacomo Apostolo celebrasi in questa chiesa negli ultimi tre giorni del carnevale, e ciò faceva al fine di suscitare scandali e disordini contro la legittima nazionale autorità e per non pronunziare l'orazione pro Rege, e inoltre prosegue l'accusa, il religioso si era allontanato dal comune lasciando la chiesa abbandonata nel giorno di domenica, senza far celebrare la messa solenne, come di costume, mentre era parata a festa. Per il sindaco quest'episodio avrebbe potuto provocare dei disordini e turbare la pubblica tranquillità, se non fosse intervenuta la Guardia Nazionale, dimostrando il suo solito contegno e zelo. Il Giudice, qualche giorno dopo, il diciannove, informava il sindaco di aver disposto perché sollecitamente venisse espletato il giudizio a carico di Padre Marcello Grassi dell'Annunziata di Montesarchio, reo di fatto delittuoso. Ritornando all'autodifesa dei due parroci del piccolo paese, questa fu una grossa battaglia legale, cavillosa, piena d'argomentazioni logiche, che fecero ben riflettere i giudici e coloro che erano preposti all'ordine pubblico. Dopo la caduta di Gaeta, per solennizzare l'evento, il governatore di Benevento invitò il sindaco di S. Leucio (del Sannio), Michelangelo Iannace, a far cantare dal clero locale il Te Deum nella chiesa madre. Il giorno 24 febbraio del 1861, nella chiesa piena di fedeli e d'autorità civili e militari, l'arciprete Don Nicola Iannace e suo fratello Raffaele, economo, non si presentarono per la Sacra funzione, perché uno si era ammalato e l'altro chiamato improvvisamente all'assistenza spirituale di un moribondo. Per tale assenza il giudice Regio, in base al decreto emanato da Garibaldi il 24 settembre, condannò i due religiosi a tre mesi di prigione e a dieci ducati d'ammenda.

Arciprete Nicola Iannace

Michelangelo Iannace Sindaco all'epoca dei fatti

Economo Raffaele Iannace

 

Il 4 aprile 1861 i due fratelli Iannace, impugnarono la sentenza presentando ai giudici della Gran Corte Criminale della Provincia di Benevento una propria giustificazione in base alla quale essi sostennero: la causa forma una pagina importante della storia presente, volendo rendere un omaggio di devozione al Clero, ed al Sommo Pontefice, imprendiamo noi stessi, senza avvalerci di Difensori esterni, la nostra difesa. I sacerdoti evidenziarono, nella loro arringa, di essere stati condannati non in base al diritto positivo di una legge esistente, ma a seguito di un decreto pubblicato dal dittatore Garibaldi, il 24 settembre 1860, soggiungendo che il giudice, nella sentenza, non aveva tenuto presente i confini tra la giurisdizione secolare e quella ecclesiastica. I due erano accusati perché erano gli unici religiosi pagati dal Comune. Questi, con il loro comportamento, avevano ingannato il paese, deludendo la Guardia Nazionale. Poiché stipendiati, sostenevano gli accusatori, una volta invitati, avevano l'obbligo di andare in chiesa e cantare l'Inno Ambrosiano per la resa di Gaeta o farsi sostituire da altri preti. Il giudice, nella sentenza dì condanna, faceva rilevare ai due fratelli che come cittadini dovevano ubbidire al sovrano e non comportarsi in modo da mostrare il loro disprezzo nei confronti delle istituzioni dello Stato. In questo caso, non facevano altro che alimentare nei concittadini il malcontento contro il nuovo Governo e turbare le coscienze pubbliche. I fedeli, non vedendo arrivare il sacerdote per cantare il Te Deum, avrebbero potuto sospettare che la religione non lo avesse permesso e quindi fosse contraria. Gli accusati, con grande coraggio, impugnarono il decreto e misero in dubbio la sua esistenza chiedendo se veramente fosse stato pubblicato in questa Provincia e se si erano osservate le forme richieste dalla legge per renderlo obbligatorio. Nel carteggio del processo non esistevano prove di tale pubblicazione e, quando una legge non è promulgata nelle forme richieste, nessun cittadino può essere punito per la mancata osservanza della stessa. Nell'ipotesi di ritenere regolare il decreto, soggiungevano, i due religiosi, dopo la caduta del dittatore Garibaldi, erano decadute tutte le leggi emanate da quest'ultimo. I fratelli precisavano che Vittorio Emanuele, con decreto, del 6 novembre 1860, aveva nominato un luogotenente per le Province Meridionali, conferendogli fra gli altri poteri, quello di provvedere esclusivamente ai bisogni delle stesse. Tuttavia, le disposizioni del precedente Governo, per conservare la forza e la virtù di legge, dovevano essere discusse ed approvate dalle camere, in cui risiedeva il potere legislativo. Poiché tale decreto non era mai stato né approvato dalle camere né pubblicato' in provincia, aveva perso ogni valore di legge. Nelle ipotesi che tale legge fosse valida, la difesa, analizzando l'art.1, metteva in risalto che non fu trasgredita nessuna parte di essa in quanto non fu pronunciato alcun discorso in pubblica adunanza, che avesse offeso le istituzioni dello Stato. Non fu commesso neanche un atto, tale da eccitare l'animo dei presenti in Chiesa, poiché il non aver cantato il Te Deum fu un'omissione e non un'azione. A supporto delle loro tesi i sacerdoti chiamarono in causa il parere di noti giuristi europei. Sostennero inoltre che il loro compito religioso era quello di avere la cura delle anime e di amministrare i Sacramenti. Il canto del Te Deum non entrava nella loro missione, anzi gli era stato espressamente proibito dall'Autorità Ecclesiastica, ragion per cui, se si fossero prestati a cantarlo, avrebbero trasgredito una legge della Chiesa, tanto da turbare veramente le coscienze dei loro parrocchiani. I giudicati, nel continuare la loro difesa, cercarono di dimostrare la differenza fra invito e precetto. La chiamata al canto del Te Deum, se fu un invito, il rifiuto, non dev'essere considerato una violazione di legge. Nella lettera del Governatore si parlava d'invito, ma se anche si fosse trattato di un precetto, poiché questo era impartito da un'autorità secolare diretta ad un ecclesiastico, non poteva mai essere obbligatorio per i due accusati in quanto lo vietavano le leggi della Chiesa. I fratelli Iannace, sostennero la divisione dei poteri tra Stato e Chiesa come il regolare la funzione religiosa era d'assoluta competenza dell'Autorità Ecclesiastica. Continuando a sostenere questo principio, si ricordava che il Consiglio di Stato di Torino e il Ministero Governativo nel 1855 aveva richiamato il Municipio di Genova, che autonomamente aveva pubblicato un regolamento sul suono delle campane, rammentando che le campane sono oggetto di culto, e perciò d'esclusivo dominio dell'Autorità Ecclesiastica: spetta quindi a lei, e non al Municipio il regolarne, il suono. Replicavano i sacerdoti, se il suono delle campane è oggetto di culto e appartiene alla Chiesa, a maggior ragione le spetta il dominio dei riti religiosi. I due sacerdoti affermavano che l'Autorità politica non aveva alcun diritto su quell'Ecclesiastica e che l'ordine di celebrare la festa con il canto del Te Deum doveva arrivare dal loro diretto Superiore. Non si poteva addebitare loro nessuna colpa, in quanto non avevano fatto altro che ubbidire alle leggi della Chiesa. Quale onesta legislazione stabilirebbe pene contro chi fa il suo dovere, o qual magistrato punirebbe chi rispetta la propria coscienza sino a preferirla agli averi, alla libertà, alla vita? Dopo aver dibattuto sulla libertà di parola e di coscienza, soffermandosi sull'inconsistenza delle prove d'accusa, e ancora su tante argomentazioni a loro discolpa, i due accusati terminavano: .. .Siam fiduciosi, che avete posta ben mente alle nostre ragioni, e le avete giustamente valutate, giacché abbiam trattato la causa di Preti Cristiani Cattolici Apostolici Romani avanti a Giudici della credenza medesima. La vostra decisione formando una pagina troppo importante della storia presente, come fin dal principio dicemmo, sarà giudicata ora dal Pubblico, poscia dai posteri. Ite ai voti... Ascoltammo noi stessi allorché nella inaugurazione di questa istessa Gran Corte prometteste con giuramento di osservare lealmente, e fare osservare lo Statuto... Le argomentazioni dei due fratelli convinsero i Giudici della loro innocenza. Infatti i due sacerdoti continuarono ad esercitare il loro ministero nella Chiesa di S. Leucio ancora per diversi anni. Nella difesa i due sacerdoti evidenziarono, seppure con molta diplomazia, il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa che in quel momento affliggeva la nuova Italia ed in particolare il Mezzogiorno. Era lo scontro del nuovo e del liberalismo contro l'assolutismo religioso per la difesa della libertà di coscienza. I fratelli Iannace, come tutti i religiosi di quel momento, si sentirono usurpati della loro fede, delle proprie convinzioni religiose, maturate in tanti anni di sacerdozio, dell'abitudine all'obbedienza ai superiori ed al silenzio della preghiera. Difesero strenuamente la libertà di coscienza e le prerogative della Chiesa (libera Chiesa in libero Stato). Inconsciamente o volutamente non credettero nel nuovo Stato, nelle sue leggi, nelle attuali regole, abituati com'erano a tradizioni religiose millenarie, ai piccoli privilegi, ad essere i primi nelle loro comunità, ad essere i soli acculturati del paese, a non avere contrapposizioni d'idee, essi, che fino a qualche giorno prima, avevano vissuto su una terra, che faceva parte del potere temporale della Chiesa (S. Leucio del Sannio e S. Angelo a Cupolo erano gli unici paesi del Ducato Pontificio di Benevento). Non si potevano cancellare con un colpo di spugna prerogative maturate nei secoli, convinzioni e abitudini religiose ritenute inattaccabili. Per quei tempi, i due sacerdoti furono dei coraggiosi. Seppero difendere il loro credo in un momento delicato per la Chiesa, mentre era esiliato il cardinale di Napoli, Sisto Riario Sforza (punto di riferimento per il clero meridionale, grande personalità che calamitò intorno alle proprie idee e decisioni anche i prelati). Erano allontanati e costretti a lasciare volontariamente le loro Diocesi: vescovi, arcivescovi e vicari generali. Si assisteva all'espulsione di gesuiti e all'arresto di preti, parroci e frati, sospettati, non sempre a ragione, di cospirazione e attentati contro le nuove istituzioni.

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Sequestro del Marchese Zamparelli

da "San Leucio del Sannio - frammenti di storia" Cassa Rurale ed Artigiana del Sannio, 1994

 

 

il Marchese Michelangelo Zamparelli

…… il brigantaggio nostrano era di natura cronica, fatto di piccoli furti, qualche rapina, qualche sequestro di persona. Raramente si uccideva. Nelle campagne i furti erano frequenti, specie nei periodi della raccolta della frutta e della mietitura del grano. Di notte si andava nei campi a rubare il grano appena falciato. Si racconta che i contadini, nel riferire l'andamento della mietitura e della resa qualcuno superava la media locale, dicevano: "ca luna, ca funa e ca bona fortuna u grano mio è sciuto u trentunu" cioè di notte; con la luna, con la fune e con un pò di buona fortuna (poiché nessuno l'aveva scoperto mentre rubava dai vicini), il suo terreno aveva dato un'ottima resa. Nel nostro paese si facevano notare Leucio I., Zamparelli M. e Mazza R., ma più delle volte operavano in trasferta. I briganti nostrani, in fatto di fantasia, nulla avevano da imparare da quelli di altre province.

Sapevano studiare la vittima e sapevano offrire la loro protezione, ma se non veniva accettata, delicatamente facevano saltare un orecchio. Stiamo a vedere cosa successe al re della Provincia cioè al Marchese Michelangelo Zamparelli, da noi ben conosciuto. Il 19.7.1863 dei briganti inviano una lettera minatoria al Sig. Don Michelangelo Zamparelli in S. Leucio.

"Signor Don Michelangelo dovete darci tremila monete in oro entro tre giorni dalla presente senza ammettere la minima scusa. Detta somma potete consegnarla al Sig. D. Felice Varricchio oppure a mastro Leuci Cavuoto i quali fanno i tabaccai. Uno di questi che riceverà la somma in moneta d'oro, appena ne saranno venuti in possesso, porteranno al collo un fazzoletto contro loro abitudine e a detto fazzoletto faranno un nodo che scende sul petto, così noi potremo capire che questi avranno quanto da noi richiesto. Badate bene, perché noi vogliamo tale somma e non dateci dispiacere se vi preme la vita e, nel consegnarla, direte a uno degli individui di fare gli uomini perché sarà loro vantaggio. Ci farete conoscere sotto questa lettera che ci manderete indietro di quale protezione avete bisognò, perché ve la possiamo dare in tutti i momenti, e non ci credete lontano. Non mancate di mandarci anche quaranta mazzi di cartucce con polvere di buona qualità. Non si ottiene scusa di non aver ricevuto la lettera."

Don Michelangelo non diede peso alla richiesta, era così potente che non prese per nulla in considerazione tale minaccia. I briganti, non ricevendo risposta, (non fu accertato se erano gli stessi della lettera o altri), si fecero di nuovo sentire e questa volta anche vedere. Dalle memorie del Sig. Gnerre Amleto, segretario ed amministratore dei beni del Marchese Zamparelli si apprende che Don Michelangelo il giorno 4 settembre 1863, mentre rientrava dai propri tenimenti in quel di Sant'Angelo dei Lombardi, attraversando, verso le ore 7 pomeridiane, la gola di Barba (sotto Ceppaloni), sette briganti, armati e a volto coperto, circondarono la sua carrozza e lo sequestrarono. I briganti lasciarono proseguire il cocchiere con l'incarico di avvisare la famiglia Zamparelli del sequestro e del pagamento di 5.000 ducati in oro per il riscatto del loro caro. Il riscatto doveva essere consegnato allo stesso latore della notizia, cioè tale Lucio Varricchio, che come da istruzione dei briganti doveva consegnare la somma alle due di notte in una località segreta. L'11 settembre 1863, poiché la famiglia Zamparelli non aveva pagato ancora il riscatto, all'una di notte si presentava al palazzo una donna accompagnata da un uomo con un fazzoletto insanguinato, in cui vi era il lobo dell'orecchio sinistro di Don Michelangelo. Avvisò i familiari che se non fosse stato pagato "immantinenti" (immediatamente) il riscatto, Don Michelangelo sarebbe stato ucciso. Evidentemente, dopo questa prova, la somma fu versata, infatti il 13 settembre 1863 "grazie al cielo, dopo il pagamento del riscatto, il nostro amato Don Michelangelo fece ritorno a casa alle due di notte." Il sequestrato riferiva che era stato trasportato da due uomini alla guida di una carrozza e che, nel congedarsi, lo avevano ossequiato, baciandogli la mano. Durante la prigionia era stato trattato in modo ossequioso ed urbano, aveva mangiato con posate d'argento ed era stato servito da una donna che, prima di approntare i pasti, chiedeva il suo assenso sui cibi da preparare. Don Michelangelo, durante la prigionia, aveva avuto libri di lettura a sua disposizione e non aveva sofferto per l'amputazione del lobo auricolare, (oggi si direbbe affetto da sindrome di Stoccolma, cioè affezionato ai suoi rapitori). Un altro episodio, che fece parlare per diversi anni, fu un tentativo di assalto alla torre del Barone Saveriano sita al di là del fiume Sabato, di fronte a S. Leucio, dove si riteneva che custodisse un favoloso tesoro. Per tale impresa si organizzarono i briganti di S. Leucio e dei paesi vicini e stabilirono che, in una notte designata, avrebbero dato l'assalto alla torre. Ma fra di loro vi era un "pentito", che rivelò il piano alle autorità. Quella notte i banditi trovarono ad attenderli nella torre le guardie papaline, le quali spararono appena questi si avvicinarono. Per i malviventi vi fu un morto e un bagno fuori stagione nel veloce riattraversamento del fiume. Questo fatto fu considerato una sommossa politica e il barone fu costretto a fuggire dopo la vittoria di Garibaldi. In genere nel nostro paese si commettevano ruberie e furti campestri, ma ciò era dovuto più alla miseria che alla tendenza delinquenziale.

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La Guardia Nazionale

da "San Leucio del Sannio - frammenti di storia" Cassa Rurale ed Artigiana del Sannio, 1994

 

La Guardia Nazionale era stata istituita da Francesco II , nel giugno del 1860, nel tentativo di evitare la caduta del Regno. Fu concessa anche la Costituzione e gli Ordinamenti liberali. Della Guardia Nazionale facevano parte borghesi e artigiani della città ma anche, come truppa, contadini senza terra. Il Governo Italiano, dopo l'Unità, non si fidò mai troppo, della Guardia Nazionale, ma per combattere il brigantaggio, che impegnava buona parte dell'esercito della nuova Italia, anche la Guardia Nazionale fu chiamata a dare maggiore contributo alla repressione di questa piaga meridionale. Il Sindaco di S. Leucio, Filippo Zamparelli, aveva ai suoi ordini un Battaglione della Guardia Nazionale della Legione Mandamentale di Benevento al Comando del maggiore Innocenzo Zamparelli, forte di 139 unità, per combattere il brigantaggio locale. Il Battaglione era composto da n. 6 Capitani, 12 Luogotenenti, 10 Sottotenenti, 5 Sergenti furieri, 27 Sergenti, 5 Caporali furieri, 24 Caporali e 50 Militi e provenivano da vari luoghi: S. Leucio, Ceppaloni, Arpaise, Chianche (Beltiglio) Chianca, Bagnara, Pastene, Montorso, Perrillo. Si riportano i Sanleuciani appartenenti al Battaglione:

Varricchio Elziario anni 35 Capitano

De Longis Batta anni 51 Luogotenente

Marcarelli Onofrio anni 43 Tenente

Iannace Michelangelo anni 45 Tenente

Varricchio Felice anni 38 Sergente furiere

De Longis Beniamino anni 43 Sergente

Lepore Pasquale anni 38 Sergente

Truccaglione Alfonso anni 39 Sergente

Zamparelli Luigi anni 34 Sergente

Lepore Filippo anni 28 Sergente

Facchiano Felice anni 26 Sergente

Lepore Bellisario anni 36 Sergente

Iannace Giovanni anni 53 Caporale

De Longis Giovanni anni 52 Caporale

Manna Angelo anni 51 Caporale

Chiumiento Giovanni anni 50 Caporale

Ferrara Filippo anni 50 Caporale

Parente Luigi anni 49 Caporale

Catalano Enrico anni 47 Caporale

Scarano Giuseppe anni 47 Caporale

Marotti Alessandro anni 43 Milite

Romagnolo Delizio anni 43 Milite

Feleppa Angelantuono anni 39 Milite

Varricchio Vincenzo anni 39 Milite

Pipicella Raffaele anni 38 Milite

Varricchio Lorenzo anni 32 Milite

Ferrara Remigio anni 28 Milite

Il Maggiore Comandate era Innocenzo Zamparelli.

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San Leucio partecipa all'Unità d'Italia

da "San Leucio del Sannio - frammenti di storia" Cassa Rurale ed Artigiana del Sannio, 1994

 

La mattina del 2 settembre 1860, la compagnia beneventana forte di 102 volontari, dei quali 30 provenienti delle truppe borboniche e papaline, due da S. Leucio - Felice Varricchio, portabandiera e Alessandro Furno, uno da S. Angelo a Cupolo - Pietro Ozzella -, al comando di Salvatore Rampone, mazziniano, che aveva combattuto alla difesa della Repubblica Romana, nel 1848, dopo aver prelevato le armi nascoste nella casa del Sig. Domenico Mutarelli, membro del Comitato Patriottico cittadino, con la banda musicale in testa percorre le principali strade della città acclamata dalla popolazione inneggiante a Vittorio Emanuele, a Garibaldi ed alla Libertà. Poco dopo, la compagnia si concentra a Porta Rufina nella taverna di Giuseppe Buonanni, mentre per tutta la notte si festeggia per la città la nascita del nuovo corso della storia. Intanto viene invitato il maggiore De Marco di Paupisi a marciare su Benevento con i suoi 800 volontari, i "cacciatori irpini" o della Valle Vitulanese, provenienti da Vitulano, Foglianise, Cautano, Tocco C. e Torrecuso. Il 3 settembre, la popolazione è tutta per le vie della città, curiosa di quello che succederà, ma certa che non vi sarà spargimento di sangue, mentre la banda musicale allieta il momento suonando..." si scopron le tombe, si levano i morti...". Nella prima mattinata, Salvatore Rampone, capo del Partito Democratico, coraggioso, patriota e animatore dell'insurrezione, indossata la camicia rossa, da solo, si reca dal Delegato Pontificio presentandosi come il Capo del Governo Provvisorio e Commissario di Garibaldi. Rappresenta al prelato l'inutilità della resistenza e dello scontro armato e quindi chiede la resa delle due compagnie di soldati e degli uomini della guarnigione (in tutto 250 militari). Monsignor Agnelli, conscio degli avvenimenti italiani, del nuovo momento storico e della situazione militare presente, che lo vede isolato e senza speranza di arrivi di rinforzi da Roma (ma era certamente a conoscenza, che i volontari di De Marco si stavano organizzando e pronti per marciare su Benevento), dopo le proteste di rito, accettò l'invito di Rampone e due ore dopo lasciò il palazzo apostolico. Il giorno seguente parti definitivamente da Benevento. Verso mezzogiorno, a rivoluzione ormai conclusa, arriva anche Giuseppe De Marco con i suoi Cacciatori Irpini e con la Legione del Matese (120 uomini) entrando da Porta Calore, fra una folla in festa, passa davanti al Duomo, per il Corso, davanti al Castello (Rocca dei Rettori) e va ad accamparsi al collegio dei Gesuiti, sulla Pace Vecchia (i volontari la sera precedente e durante la notte si erano concentrati a Torre Palazzo in attesa della Legione del Matese). Nel pomeriggio di questo lungo giorno, in Piazza Orsini, di fronte alla cittadinanza e ai volontari schierati in armi, si proclama ufficialmente il "GOVERNO PROVVISORIO", composto con le stesse persone del Comitato Insurrezionale e dal maggiore De Marco: Rampone Salvatore, Presidente -Mutarelli Domenico, membro - Vessichelli Nicola, membro - De Marco Giuseppe, membro - Collenea Gennaro, membro - De Simone Giovanni, membro - Rispoli Francesco, segretario. I componenti del nuovo Governo Provvisorio, dalla loggia del palazzo comunale, prestano giuramento incrociando le spade a difesa dell'Unità e della libertà della patria. In queste vicende storiche un ruolo importante lo ebbero alcuni nostri valorosi concittadini i quali nei mesi precedenti avevano costituito a S. Leucio una Sezione del Partito insurrezionale, dipendente dal Comitato di Benevento i cui Capi Sezione, "in genere, erano uomini d'arme e risoluti, ricevevano dal comitato la parola d'ordine e come tutti gli affiliati avevano un segno di riconoscimento fra di loro". Rampone li ricorda perché "la loro opera contribuì, potentemente, a raggiungere l'intento della rivoluzione, ed a mantenere l'ordine nei momenti difficili".

Capi Sezione di S. Leucio:

De Longis Gian Battista

Pepiciello Agostino

Varricchio Felice

De Longis Beniamino

Iannace Michelangelo

Si concluse così, con una rivoluzione incruenta, una lunga pagina storica, cinque secoli di dominazione longobarda (570-1077) e ottocento anni di quella pontificia, con qualche breve interruzione (1077-1860). In seguito Salvatore Rampone nelle sue "Memorie politiche di Benevento - dalla rivoluzione del 1799 alla rivoluzione del 1860, affermava che "il Governo dei Papi finiva in questa città mercé la rivoluzione unitaria nazionale, compiuta da pochi ardimentosi suoi figli, e non dalla gente venuta da fuori...". Mentre altri sostenevano che il Governo Pontificio a Benevento, era caduto per la pressione esterna dovuta all'avanzare dei volontari venuti da fuori, che terrorizzarono Monsignor Agnelli e lo resero più arrendevole, diversamente, la compagnia beneventana da sola non sarebbe riuscita a fare la rivoluzione. Grande merito di Rampone è quello di aver avuto l'acume, sin dai primi di agosto, del ruolo che avrebbe avuto l'insurrezione a Benevento nell'avanzata di Garibaldi su Salerno e Napoli e perciò, in cambio aveva negoziato con il Comitato Centrale di Napoli il riconoscimento di Benevento a Capoluogo di Provincia. Garibaldi, arriva a Napoli il 7 settembre; due giorni dopo Rampone, alla testa di una deputazione di cittadini, va a Napoli per fare atto di adesione alla dittatura del Generale e per presentare alla sua approvazione la pianta topografica di Benevento e provincia, (incluso S. Leucio, che tentò di essere capoluogo mandamentale o appartenere a quello di Benevento, ma non vi riuscì, in quanto si dimostrò con documenti che il territorio di Ceppaloni giunge quasi fin dentro l'abitato di S. Leucio, e molti dazi e tributi si pagavano dagli abitanti di S. Leucio a Ceppaloni). Garibaldi approva la circoscrizione e poiché sta per partire per Capua vuole sistemare la faccenda di Benevento nominando definitivamente il Governatore. Ma Nicola Vessichelli, facente parte della delegazione beneventana, lo invita a soprassedere e di attendere la designazione che i cittadini faranno per iscritto. Forse Garibaldi, un po' impazientito da tante formalità, ma convinto che primo Governatore di Benevento sarà indicato Rampone, accetta il rinvio. Le manovre politiche e giuochi sottobanco non hanno mai premiato la lealtà e il merito, il fatto sta che Governatore viene eletto il Conte Carlo Torre, capo del Partito moderato. La Sezione del partito democratico di Benevento prende le difese di Rampone e insieme con quelle di S. Leucio e S. Angelo a Cupolo percorrono armati a "tamburo battente" le vie della città inneggiando al loro capo, presto seguiti dai beneventani per acclamare Rampone primo Governatore in quanto oltre a meritarlo è stato lui ad occupare per primo la città. La volontà popolare viene messa per iscritto davanti a cinque notai: Bruno padre e figlio, Mazziotta, Del Ninno e Iannace, alla presenza dei Capi Sezione fra i quali i nostri: Giambattista De Longis, Beniamino De Longis e Michelangelo Iannace. Questa dimostrazione si fa passare a Napoli come controrivoluzione e il segretario di Garibaldi, Bertani, il 27 settembre manda a Benevento il colonnello garibaldino Bentivegna, con ampi poteri, al comando di 300 uomini: i Cacciatori dell'Etna. Pone Benevento in stato di assedio, obbliga tutti a consegnare le armi; arresta i Capi Sezione del partito democratico: Campanella, Ricci, Zanchelli e il nostro VARRICCHIO e fa eseguire perquisizioni domiciliari. Comunque la rivoluzione metterà da parte Rampone anche se nulla gli si è potuto rimproverare, le calunnie si dimostrarono tutte false. La cittadinanza in seguito gli renderà omaggio con un busto marmoreo posto su di una colonna all'interno, lato destro dei giardini pubblici di Benevento e intestandogli una strada. Quasi stessa sorte toccherà a Garibaldi, ritirandosi triste e deluso a Caprera con un pugno di fave dopo aver conquistato un regno.

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