| Bibliografia | Documenti | Personaggi | Briganti | Storia | Brigantaggio Locale | Recensioni | Link | Libro degli Ospiti | Home |

LA BANDA DEL MATESE

La guerriglia insurrezionale come

"propaganda del fatto" nell'Italia del secolo scorso

di R. Brosio

da: http://web.tiscali.it/noredirecttiscali/maxtweb/aindice/archivio%20testi/013/13_09.htm

 

La storia dell'anarchismo italiano nella seconda metà dell'800, all'epoca del suo formarsi come movimento organizzato di uomini e di idee, è anche la storia di tutta una serie di tentativi insurrezionali ("congiure", come erano chiamate) che, se da un lato vennero sfruttati dai governi per dar credito alla solita immagine dell'anarchico bandito e mestatore, dall'altro contribuirono non poco, con la loro risonanza, alla conoscenza e alla diffusione delle idee libertarie. Furono tentativi falliti, bisogna riconoscerlo, spesso condotti in modo un po' dilettantesco. Ma sarebbe ingeneroso darne la colpa agli uomini perché essa, più che altro, era dei tempi. La fiducia nell'atto insurrezionale come strumento di rinnovamento sociale, la speranza che bastasse un pugno di coraggiosi per dare un nuovo corso alle cose, fu tipica di tutto l'ottocento genericamente progressista ed in particolare "risorgimentale". Gli anarchici non ebbero certo l'esclusiva di queste congiure. Prima di essi vi si erano dedicati i carbonari, i mazziniani, gente da Ciro Menotti a Garibaldi, cui la storiografia ufficiale si sente in dovere di tributare ben altro rispetto che a Cafiero, a Bakunin o a Malatesta. Eppure, a differenza dei loro più quotati "colleghi" (si fa per dire), gli anarchici non ebbero mai la pretesa di impadronirsi del potere, di imporre, armi alla mano, un nuovo status quo reputato migliore del precedente. Più semplicemente, con maggiore onestà e senso delle proporzioni, essi intendevano fare delle azioni esemplari, gesti clamorosi capaci di svegliare la coscienza delle masse sfruttate, di additare ad esse la via da seguire e i nemici da combattere. Questo era il significato della "propaganda del fatto", come allora si diceva. Al congresso dell'Internazionale di Berna, Cafiero e Malatesta avevano dichiarato: "la Federazione Italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse possa penetrare nei più profondi strati sociali...". Nell'Italia ancora occupata a celebrare un'unificazione che per le classi inferiori era stata solo un cambio di padrone, gli anarchici, soli, invitavano gli sfruttati a costruire da sé il proprio destino. In questa prospettiva, uno dei tentativi insurrezionali più importanti, per concezione e per risultati propagandistici, e comunque, forse il più tipico, fu quella attuato nel 1877 nella zona del Matese da un gruppo di aderenti alla Federazione Italiana dell'Internazionale, detto in seguito appunto "banda del Matese". Vi aderivano molti dei personaggi più rappresentativi dell'anarchismo italiano dell'epoca, tra cui, in particolare, Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. La scelta della zona non era stata fatta a caso. Impervia, montagnosa, scarsamente popolata, rappresentava un ambiente ideale per la guerriglia: gli uomini avrebbero potuto facilmente compiere le proprie sortite nei vari centri abitati e poi rintanarsi al sicuro nei posti e nelle cascine abbandonate. Inoltre rispondeva bene allo scopo di prendere contatto con le masse contadine, specialmente quelle meridionali, che, abbandonate a se stesse, considerate dalle varie classi dirigenti un puro "oggetto" del potere, sembravano più di ogni altra il naturale destinatario della propaganda di riscossa sociale degli anarchici. Il 3 aprile 1877 arrivò nel Matese Carlo Cafiero insieme a pochi compagni. Sfruttando il proprio aspetto distinto (un "signore", lo definiranno i testimoni), si era fatto passare per un gentiluomo inglese con tanto di servitù in cerca di un luogo tranquillo per le vacanze. Con questa scusa aveva preso in affitto una casa del paesetto di S. Lupo, un piccolo centro isolato distante un'ora e mezzo di carrozza dalla stazione di Solopaca, sulla Napoli-Benevento-Foggia. La casa, detta Taverna Jacobelli, era spaziosa, appartata, e soprattutto, particolare importante, dotata di un'uscita secondaria che la metteva in comunicazione diretta con le boscaglie retrostanti. Qui, nelle intenzioni dei congiurati, sarebbero affluiti nei giorni successivi gli altri partecipanti all'impresa, con tutto l'equipaggiamento di armi, munizioni, zaini, borracce, ecc., necessario per la guerriglia. Gli anarchici avevano organizzato le cose con cura e con la dovuta segretezza. Senonché, a causa della delazione di un certo Salvatore Farina, il Ministro degli Interni in persona, Nicotera, era al corrente dei loro progetti, già molto prima dell'arrivo di Cafiero a S. Lupo. Nonostante questo, li aveva lasciati in pace, senza far trapelare che le loro mosse erano spiate. Lo scopo era evidentemente di prenderli in trappola al momento opportuno e imbastire una speculazione politica sull'intera faccenda. I governi e le istituzioni cambiano, ma la mentalità dei Ministri dell'Interno resta sempre la stessa. Comunque, questa tattica da temporeggiatore non si rivelò del tutto felice. Vuoi per l'abilità degli anarchici, vuoi per l'eccessiva libertà di movimento che era stata loro lasciata, onde non insospettirli, sta di fatto che il concentramento degli uomini e dell'equipaggiamento alla Taverna Jacobelli potè quasi completarsi senza che l'autorità di polizia della zona mostrasse di accorgersene. Il 4 aprile arrivò all'abitazione degli "inglesi" un folto gruppo di "servitù", con diverse casse di "suppellettili e oggetti casalinghi"; i preparativi per l'insurrezione durarono, indisturbati, per tutto il giorno. Verso sera, il locale comando dei carabinieri, insospettito dall'eccessivo movimento intorno alla Taverna Jacobelli, si decise ad inviare una pattuglia in perlustrazione. La pattuglia si tenne dapprima un poco in disparte, poi nella notte, vedendo qualcosa di simile a dei segnali luminosi fatti con lanterne, si avvicinò alla casa. Fu una mossa degna della proverbiale sagacia dei carabinieri, perché, passando per i boschi retrostanti, i militi capitarono proprio nel mezzo di un gruppo di internazionalisti lì accampati che li presero immediatamente a fucilate. La sparatoria fu rabbiosa, anche perché, al buio, gli anarchici non sapevano esattamente con quanti avversari avevano a che fare, e due carabinieri (dei quattro che componevano la pattuglia) caddero feriti. Come vedremo, uno morirà dopo alcune settimane per sopraggiunta infezione, e questo avrà la sua importanza per gli sviluppi processuali della storia dell'insurrezione. Resterà comunque l'unica vittima di tutta la faccenda. Al rumore degli spari, altri carabinieri dislocati nella zona, accorsero sul luogo, questa volta in numero più adeguato alle circostanze, ma non poterono far altro che constatare l'avvenuta partenza degli insorti. Essi infatti, seppur a ranghi ridotti, perché molti compagni non erano ancora arrivati, si erano rapidamente radunati e avevano preso la via dei monti. "L'operazione Matese", bene o male era cominciata. Per la verità, era cominciata male. Alcuni compagni sopraggiunti in seguito vennero arrestati a Solopaca e a Pontelandolfo, lì vicino. Quelli rimasti liberi, d'altronde, avevano potuto portare con sé solo una parte dell'equipaggiamento, non avevano viveri e soprattutto avevano lasciato alla Taverna Jacobelli i "cavastracci", strumenti indispensabili per pulire e caricare i fucili di quei tipi. Da questo punto di vista, l'improvvida irruzione della pattuglia causò un danno notevole all'efficienza della banda. Ma, nello stesso tempo, facendo precipitare la situazione, aveva costretto gli anarchici ad anticipare l'inizio della sommossa, in un momento in cui la famosa trappola del ministro Nicotera non era ancora pronta per scattare. E fu così che la banda del Matese poté compiere, almeno in parte, le azioni che aveva programmato. Era proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere. L'alba del 5 aprile 1877 vide il gruppo degli anarchici in marcia verso nord. L'intenzione era di sganciarsi il più possibile dalle forze di polizia che stavano dando loro la caccia, e di dirigersi verso i centri abitati più isolati dove, con tutta probabilità, l'allarme sarebbe giunto con un certo ritardo. Le condizioni atmosferiche però, erano tutt'altro che favorevoli. In quella stagione, i monti del Matese erano coperti di neve, e più si saliva e più il tempo si faceva cattivo. Il freddo, oltre alla difficoltà di procurarsi viveri con frequenza, fu il vero ed unico nemico degli insorti per buona parte della spedizione. La banda era guidata da Cafiero, Malatesta e da Pietro Cesare Ceccarelli, che si alternavano ogni giorno al comando, primo tentativo, seppur limitato, di rotazione degli incarichi. Si marciò per tutto il giorno, addentrandosi sempre più nel Matese, e così si fece anche il giorno seguente. Il 7 aprile gli anarchici si diressero verso la zona di Cusano, e, dopo aver pernottato in una masseria, costeggiarono il lago del Matese, puntando verso il paese di Letino. Qui, alle dieci del mattino del giorno 8, domenica, entrarono, accolti dalla gente stupita e festosa, a seguito di una grande bandiera rosso-nera. Il caso volle che proprio in quel momento, in Municipio fosse riunito il Consiglio Comunale, che doveva decidere cosa fare di alcune vecchie armi, precedentemente sequestrate a bracconieri. La banda degli internazionalisti giunse in tempo per requisirle tutte e distribuirle, insieme ai fucili della Guardia Nazionale, alla popolazione. Si passò poi ad atti di ben altro peso. Gli insorti dichiararono pubblicamente decaduto Re Vittorio Emanuele II e ne fecero a pezzi il ritratto. Quindi provvidero a bruciare, in un grande falò acceso in piazza, tutta la "carta bollata" del Comune: registri catastali, schedari delle imposte, atti ipotecari, ecc., per dimostrare simbolicamente l'abolizione dei diritti dello stato e della proprietà privata. Infine, distrussero i contatori apposti ai mulini; che servivano a calcolare la famigerata tassa sul macinato. Agli atti concreti tennero dietro le motivazioni ideologiche. Cafiero salì sul basamento di una grossa croce (sostituita con la bandiera rosso-nera) e spiegò alla folla, in dialetto per farsi meglio comprendere, i principi della rivoluzione sociale, i suoi fini e i suoi metodi. Tutto avvenne in un clima di simpatia ed entusiasmo da parte della gente del paese, al punto che perfino il prete, Don Raffaele Fortini, si lasciò andare a dire che Vangelo e socialismo erano la stessa cosa e additò gli internazionalisti al plauso di tutti. La banda lasciò Letino verso l'una del pomeriggio e si diresse verso il vicino paese di Gallo, ad appena cinque chilometri di marcia. Ma prima ancora di giungervi si fece in contro agli insorti un altro prete, il parroco, appunto, di Gallo. Non si sa bene se per la curiosità o per la fifa, questi voleva sapere quali fossero le intenzioni della banda e si fermò un poco a chiacchierare con gli anarchici. Aprì perfino la tonaca, mostrando la miserabile sporcizia che vi si annidava sotto, per chiarire che era anche lui uno sfruttato come gli altri. Comunque, quando si rese conto di cosa si trattava, seppur a suo modo ("cambiamento di governo e incendio di carte") ritornò indietro tutto allegro per tranquillizzare i compaesani e, ad ogni buon conto, andò a chiudersi in casa. Al municipio di Gallo gli anarchici arrivarono verso le due del pomeriggio. Malatesta aprì la serratura a pistolettate, i compagni penetrarono nell'interno, e le stesse scene di Letino ebbero a ripetersi. Unica novità, venne distribuito al popolo quel poco di denaro che si rinvenne nelle casse della Esattoria Comunale. Tutto si svolse come prima, nell'entusiasmo e senza difficoltà di alcun genere. Ma le truppe governative, anche se non si erano ancora fatte vedere, non erano restate con le mani in mano. Al comando del generale De Sanget, quasi dodicimila uomini avevano stretto d'assedio nel frattempo l'intero massiccio del Matese: tre compagnie di bersaglieri a sud, un reggimento di fanteria a nord, altre forze ancora da Campobasso, Isernia, Caserta, Benevento e Napoli. Fu così che, quando abbandonarono Gallo, gli internazionalisti si trovarono praticamente e improvvisamente accerchiati. In qualunque direzione si volgessero per trovare qualche altro paese da occupare, si battevano nei presidi dei soldati e dovevano rapidamente tornare sui propri passi per non venire scoperti. A complicare la situazione si aggiunse il maltempo. Un terribile diluvio di pioggia mista a neve li sorprese già poco fuori Gallo bagnando armi e munizioni e rendendo più che mai difficoltosa la marcia. Le cose si stavano mettendo male. Gli uomini passarono tutto il 9 e 10 aprile nel duplice tentativo di cercare un rifugio e di superare l'accerchiamento, ma senza esito. Erano stanchi, affamati, fradici per la pioggia che non accennava a diminuire. I fucili erano ormai inservibili e la mancanza di cavastracci, lasciati a S. Lupo, non permetteva di pulirli e di ricaricarli. In queste condizioni, anche l'extrema ratio di uno scontro a fuoco era impossibile. Il giorno 11, la banda trovò finalmente riparo nella masseria Concetta, tre miglia sopra Letino e qui decise di fermarsi per riprendere fiato. L'intenzione era di attendere che il tempo migliorasse e quindi tentare, un'altra volta, di sganciarsi dall'assedio delle truppe governative. Ma rimase una semplice intenzione. Un contadino, sperando in un premio, aveva informato i soldati. Il 12 aprile un reparto di bersaglieri fece irruzione nella cascina sorprendendo gli anarchici. Date le condizioni degli uomini e delle armi non ci fu resistenza. L'insurrezione del Matese era finita. Gli arrestati vennero spediti in varie galere della zona e, di lì a poco, concentrati tutte nel carcere di S. Maria Capua Vetere, in attesa del processo. All'inizio le prospettive sembravano tutt'altro che rosee: il Ministro dell'Interno Nicotera, sull'onda del can can antianarchico suscitato, come era prevedibile, dalla stampa benpensante, aveva l'intenzione di far giudicare l'intera banda da un tribunale di guerra. In questo caso la conclusione sarebbe stata probabilmente una sola, il plotone di esecuzione. La faccenda non andò in porto, a quanto pare, per l'intercessione della figlia di Carlo Pisacane, Silvia, che (i casi della vita...) era stata tempo prima adottata proprio dal Signor Ministro, il quale, a sua volta, (sempre i casi della vita...) di Carlo Pisacane era stato compagno d'arme nella spedizione di Sapri. Un peccato di gioventù, evidentemente, ma salvò la pelle a Malatesta e compagni. Non che, così, le cose fossero definitivamente risolte. Anche se lo spettro di un giudizio sommario era stato allontanato, il capo d'accusa conteneva una serie di reati tali da non promettere, comunque, nulla di buono. L'istruttoria si era conclusa il 27 dicembre 1877, con una sentenza di rinvio a giudizio di questo tenore:

a) contro tutti gli arrestati, compresi quelli di Pontelandolfo e Solopaca, per reato di cospirazione avente oggetto di cangiare e distruggere la forma del Governo, eccitare gli abitanti ad armarsi contro i poteri dello stato e suscitare tra essi la guerra civile, inducendoli ad armarsi gli uni contro gli altri e portare la devastazione, la strage e il saccheggio contro una classe di persone;

b) contro i ventisei che consumarono i fatti di S. Lupo, Gallo e Letino anche pei reati di attentato in banda armata commessi allo scopo su indicato, e di complicità corrispettiva ne' reati di ferita volontaria a colpi d'arma da fuoco in persona di Antonio Santamaria e Pasquale Asciano, carabinieri reali nell'esercizio delle loro funzioni: le quali ferite produssero il debilitamento permanente di un organo ad Asciano, e, dopo i quaranta giorni immediatamente successivi, la morte di Santamaria.

Per fortuna degli accusati, il 9 gennaio 1878, re Vittorio Emanuele II morì. Infatti il successore Umberto I, essendo, come tutti sanno, un "re buono", concesse al paese una amnistia riguardante anche molti reati politici in seguito alla quale il lungo elenco di capi di imputazione della banda del Matese potè accorciarsi alquanto. Il processo si tenne davanti alla Corte d'Assise di Benevento e iniziò il 14 agosto 1878. Il processo, comunque, si svolse in un clima di grande simpatia popolare verso gli imputati, quella stessa che essi avevano sentito intorno a sé mentre bruciavano la "carta bollata" a Letino e Gallo. Gli anarchici si dimostrarono subito un osso duro per la pubblica accusa. Intelligenti, preparati, sicuri delle proprie ragioni, essi rispondevano con prontezza ai giudici, li rimbeccavano, e non perdevano occasione per fare propaganda alle proprie idee di uguaglianza e libertà. In questo vennero sapientemente aiutati dagli avvocati difensori, fra cui il giovanissimo e pur già abile Saverio Merlino, anarchico anch'egli. Per contrastare questa linea, d'altronde giuridicamente ineccepibile, il P.M. Forni fu costretto a concentrare tutte le sue energie forcaiole sulla sparatoria del 4 aprile e sulla conseguente morte del famoso carabiniere. Egli sostenne che gli insorti avevano sparato e ucciso coscientemente, per "libidine di sangue". Cafiero e Malatesta replicarono vivamente a questa accusa grottescamente esagerata e gli avvocati difensori dimostrarono, come si è già detto, che il decesso era avvenuto non in seguito alle pallottole anarchiche, ma per "sopraggiunta infezione" (in altre parole il povero militare era stato mal curato). L'immagine tenebrosa dell'anarchico assassino diventava sempre più inconsistente e, parallelamente, anche le tesi dell'accusa che su tale immagine erano costruite. La sentenza fu emessa il 25 agosto, dopo un'ora un quarto di discussione. I giurati dichiararono gli accusati non colpevoli della morte del carabiniere e applicarono l'amnistia per gli altri reati. La banda del Matese era assolta e rimessa in libertà. Era la sentenza che il popolo attendeva. Una folla di 2000 persone accolse gli anarchici, applaudendoli, all'uscita del carcere, segno tangibile della rispondenza che la "propaganda del fatto" trovava allora fra gli sfruttati. Un corrispondente del "Corriere del Mattino" di Napoli il giorno dopo concludeva così il proprio articolo sull'avvenimento: "Un processo di questi per provincia e il governo si sarebbe ucciso con le proprie mani".

INDIETRO