ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL SISTEMA FISCALE DEL PASSATO

"PRELIBAZIONE MAL RIUSCITA"

tratto integralmente dall'opera inedita del Preside Nicola Servodidio dal titolo "TERRITORIO E COMUNITA' DI SAN MARTINO SANNITA - Origini, vicende, ipotesi, aspetti, sviluppo socio-economico, note di antropologia" - Impostazione 1965, aggiornamento 31.12.1988

Premesso che non esiste società civile senza tasse, si rileva che i sistemi fiscali usati fino all'Ottocento erano esosi ed iniqui, per la pluralità degli impositori di gabelle: Stato, Chiesa, feudatari.

La mancanza di un criterio unificatore generò disparità di trattamento fiscale tra le diverse università e, all'interno di esse, tra i diversi cittadini aggravata dalle frequenti esenzioni, detti privilegi, concesse ad libitum dalla corte regia.

Alcune categorie di persone, nobili, ecclesiastici e pochi altri, erano escluse dalle imposte.

I vassalli pagavano più di tutti, sopportando fino ad un carico fiscale del 60%.

I proventi fiscali non venivano spesi equamente per i vari servizi nelle varie comunità locali. I soldi rastrellati andavano quasi tutti via: a Montevergine, all'Annunziata di Napoli e alla corte regia, oppure ai luoghi di residenza dei vari feudatari di turno.

Per questo motivo, nulla o poco veniva speso in loco per miglioramenti fondiari, per costruzione di strade, di ponti, di case, di fontane e per i vari servizi pubblici, che si può dire che non esistessero.

Nel bilancio delle università locali non si trovano le voci per la pubblica istruzione, per la nettezza urbana, per l'igiene e la sanità pubblica.

La prevenzione e la protezione civile, in caso di calamità naturali, come pure l'assistenza sociale, erano sconosciute.

I vassalli, poveri, affamati o malnutriti, distrutti dal lavoro lungo ed estenuante o dalle malattie, erano torchiati dalla corte, dal clero e dai feudatari. Era un ordinamento fiscale gerarchico: i vassalli pagavano le imposte al barone, alla corte regia e alla Chiesa; il barone alla corte e alla Chiesa.

Le imposte erano fisse ed occasionali. I vassalli erano tenuti:

- a macinare il grano nei molini del feudatario;

- ad assicurargli la servitù domestica;

- a frangere le olive nei suoi frantoi;

- a cuocere il pane nel suo forno;

- a comprare i commestibili e i vini nei suoi negozi;

- a servirsi dei suoi alberghi.

Ai tempi dei Normanni la figlia del feudatario, prima di sposarsi, doveva chiedere il consenso del re, una specie di proscioglimento da un obbligo.

La figlia del vassallo, invece, prima di sposarsi, doveva andare a spazzare la stanza da letto del barone. Questo obbligo, chiamato ius scopae, altro non era che una vergognosa prestazione abilmente mascherata.

Del primo obbligo si trovano tracce nei noti consensi regi a procedere al matrimonio; del secondo, invece, nessuna traccia si rinviene nei documenti, ma è attestato dalle fonti orali.

Chi avrebbe osato sancire in un codice un simile diritto?

Nel Medioevo le persone, spesso, erano considerate cose e vendute insieme col feudo, a loro insaputa.

Si tramanda, di generazione in generazione, che una coppia di giovani fidanzati era giunta in prossimità delle nozze. La ragazza, però, procrastinava il grande evento, non volendo andare a trascorrere la vigilia delle nozze nella casa canonica da un arcinoto "monsignore", secondo le consuetudini locali.

Il fidanzato, stanco della lunga attesa, insistette nel fissare la data del matrimonio, ma la giovane esplose in un pianto dirotto. Allora il giovanotto esclamò: "Non piangere più, andrò io a passare la vigilia delle nozze con don...". E così fece.

La sera tardi, travestito da donna, furtivamente bussò alla canonica, dove l'attendeva il monsignore. A lume spento i due si avviarono nella "santa alcova", dove il canonico ben presto manifestò il desiderio di esercitare il suo "diritto" di prelibazione sessuale.

Accaddero in quella notte infernale, episodi indescrivibili.

La mattina successiva i servi, recatisi ad augurare la buona giornata al monsignore, scoprirono che il suo letto, malmenato orrendamente, era vuoto. Allora, allarmatisi, cominciarono ad ispezionare tutti gli angoli più remoti della canonica, convinti che una strega maledetta avesse involato il prelato, però tacevano spaventati.

Era il mese di ottobre di un anno non ben precisato e la gente si preparava alla raccolta dell'uva, predisponendo i tini nelle cantine. Avvenne che un vassallo dell'abate, recatosi nella cantina di quest'ultimo per i necessari lavori preparatori, cominciò a svuotare il tino, che nei giorni precedenti aveva riempito di acqua, per far abbinare perfettamente le doghe, in modo che il vino non scorresse fuori. Terminata l'uscita dell'acqua, il buon cantiniere si apprestava a dare una pulitina al tino per liberarlo dalle incrostazioni vinarie, quando vide apparire, nudo e tremante dal freddo, un essere umano.

Superato lo spavento, riconobbe il monsignore che non parlava; poi con l'aiuto dei servi lo liberò dall'incomoda dimora. Dopo averlo vestito e riscaldato, lo condussero nella sua "mistica cella" dove restò a meditare sull'accaduto: aveva trascorso una mala nottata, col culo nell'acqua gelata. Infine concluse: "la prelibazione tocca a chi tocca, a me non tocca più".

Così il paese si liberò dall'oscura consuetudine e i promessi sposi, da quel giorno, potettero realizzare indisturbati ed illibati il loro dolce sogno d'amore.

Questo e un racconto della gente del luogo. Non se ne trova traccia in nessun documento. Qualcuno direbbe: è un invenzione. No! è una fonte orale, che fa testo in mancanza di una fonte scritta. Chi, tra quelli che allora sapevano scrivere, chierici e nobili, avrebbero scritto in un documento un simile fatto di cronaca? O chi avrebbe codificato un simile diritto? Certe pretese vergognose venivano abilmente nascoste e covate segretamente nel proprio seno.

Si può dunque parlare di un diritto consuetudinario, basato su abusi maltollerati.

Il prof. Fuschetto scrive: […] Gli atti di crudeltà e gli abusi perpetuati dai baroni durante la feudalità, non si contavano, ma sicuramente si raggiunse la perversione con il "vergognoso diritto" della Prelibazione, detto anche "Cunnatico", perchè rappresentava l'eccesso degli eccessi. Esso consisteva nella facoltà che avevano i Signori di trascorrere con le nuove spose dei loro vassalli la prima notte di matrimonio. Tale diritto veniva anche chiamato "ius scopae", "ius primae noctis", "ius feminarum"[…].(1)

In seguito, col passare del tempo, s'introdusse l'uso di riscattare tale diritto col pagamento di mezza marca d'argento e tale nuova consuetudine fu definita "Marchetta".

Si narra che fu il re Evene ad introdurre in Scozia tale abuso; poi passò in Inghilterra, in Germania, in Piemonte e in Francia, ove tale consuetudine fu attuata rigorosamente (2).

"Jus scopae" fu chiamato così per coprire la vergognosa oscenità. Con esso si pretendeva dal Signore, che la nuova sposa andasse a spazzare la stanza dove egli soleva dormire (1).

Note:

(1) A. Fuschetto, S. Marco dei Cavoti, pag. 56

(2) D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Napoli 1886, pag. 211

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