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EMIGRAZIONE ITALIANA DAL 1861 AL 1913

da: http://www.italiadonna.it/public/percorsi/12001/12001001.htm

 

PREMESSA AL PERCORSO

I dati relativi ai movimenti migratori degli italiani all'estero, prima del 1860, sono quasi inesistenti. Dopo questa data, la neonata Italia Unita, comincia a valutare il fenomeno dell'emigrazione della popolazione italiana all'estero, sia in relazione alle dimensioni considerevoli che di anno in anno stava assumendo, ma anche per censire, in qualche modo, il grande esodo di manodopera cui l'Italia assisteva impotente, e per valutare il flusso di denaro, che i lavoratori italiani all'estero mandavano ai loro congiunti rimasti in Italia. In poche parole, se per un verso, questa situazione era vantaggiosa per l'Italia, dall'altro contribuiva ad impoverire le risorse umane e professionali di cui l'Italia aveva bisogno. Il censimento generale del 1861, accertò l'esistenza di colonie italiane, già abbastanza numerose, sia nei Paesi di Europa e del bacino mediterraneo sia nelle due Americhe, infatti dai dati emerge la seguente situazione: Francia, 77.000; Germania, 14.000; Svizzera, 14.000; Alessandria d'Egitto, 12.000; Tunisi, 6.000; Stati Uniti, 500.000; Resto delle Americhe, 500.000. Prima del 1976, anno in cui, sotto la guida di L. Bodio, s'iniziò a rilevare con regolarità l'immigrazione italiana, riuscendo ad ottenere cifre più sicure e comparabili fra loro, il flusso migratorio mostrava già i lineamenti di un fenomeno di massa. Stava assumendo dimensioni annue di consistente entità, infatti già intorno al quinquennio, precedente questa data, cioè dal 1869 al 1875, la media delle emigrazioni si aggirava intorno alla cifra, record per quel tempo, di 123.000 unità. In questo periodo, però, l'emigrazione italiana appare ancora disorganizzata e sporadica, e mantiene questo carattere, con una media di 135.000 emigrati, diretti in prevalenza verso Paesi europei e mediterranei, fino alla prima metà degli anni 1880; dal 1887, a causa del notevole incremento dell'offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppa rapidamente l'emigrazione transoceanica e, si determina così, un raddoppio della media annua complessiva, che passa.a.269.000.unità (periodo.1887-900). Per quanto riguarda le destinazioni privilegiate dall'emigrazione continentale, è la Francia, seguita a una certa distanza dall'Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, che tiene sempre il primo posto tra i Paesi europei durante questo primo quarto di secolo; l'Argentina e il Brasile, invece, che assorbivano la maggior parte dell'emigrazione transoceanica nei primi venti anni, vedono rapidamente svanire il loro primato, a causa del repentino incremento dell'immigrazione negli Stati Uniti, avvenuto verso la fine del secolo.

Gli emigranti italiani che lasciavano l'Italia fra la fine dell'800 e l'inizio del '900, facevano il viaggio in condizioni terribili, ammassati nelle cabine di terza classe dei transatlantici, che partivano dai maggiori porti italiani.

Per una maggiore comprensione dell'incremento dell'emigrazione transoceanica, in valori assoluti e nei confronti di quella continentale (da 18,25% dell'emigrazione complessiva nel 1876 a 47,20% nel 1900), e dello spostamento della sua direzione dall'America meridionale a quella settentrionale, è utile ora mettere in relazione questi dati, sia con le mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani, sia con la diversa partecipazione delle varie regioni d'Italia all'espatrio. Nei primi anni del Regno, maggiormente colpiti dal fenomeno dell'emigrazione, furono gli abitanti delle regioni settentrionali, socialmente più progredite e con popolazione più numerosa; nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo irrilevante, a causa del loro isolamento, della scarsezza di mezzi di trasporto, di vie comunicazione e dell'ignoranza. Questa situazione di arretratezza e di estraniamento dalla vita del resto del Paese, continuò per lungo tempo, e senza ombra di dubbio, si può considerare come il residuo dei passati regimi, ma anche del tradizionale attaccamento alla terra e alla casa e di minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale. In pochi decenni, però, il rapporto si invertì, sia a causa dell'intenso ritmo di accrescimento demografico, sia per le poco floride condizioni economiche (in parte dovute alla tariffa protezionistica dell'87, che sacrificò l'agricoltura all'industria), che non permettevano di assorbire l'eccesso di manodopera. Negli ultimi anni del secolo XIX, la quota fornita all'emigrazione complessiva dall'Italia settentrionale diminuì (da 86,7% nel 1876 a 49,9% nel 1900) mentre crescevano quella dell'Italia meridionale e insulare (da.6,6%.a.40,1%) e dell'Italia centrale (da.6,7.a.10%). L'analisi e il controllo del fenomeno, in questo periodo iniziale, furono trascurati, infatti, la sola legge varata dal Parlamento fu la n. 5877 del 30 dicembre 1888, che peraltro si limitava a sancire quasi esclusivamente norme comportamentali. Tale legge affidava alla polizia, il controllo per arginare il fenomeno dei molteplici abusi, ad opera di chi si occupava di reclutare manodopera a basso costo. La situazione migliorò e i soprusi degli speculatori cessarono, solamente quando fu approvata una legge organica dell'emigrazione e fu creato un organo tecnico specifico per l'applicazione della legge stessa: furono abolite le agenzie e sub agenzie; il trasporto fu consentito solo sotto l'osservanza di determinate cautele e garanzie; si crearono organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio; si stabilirono norme per l'assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell'emigrazione e la disciplina degli arruolamenti per l'estero. Assistita, organizzata e diretta laddove maggiori fossero le possibilità di occupazione, l'emigrazione italiana, per quanto con andamento irregolare dovuto alle crisi attraversate dai Paesi di destinazione, tende ad aumentare nei primi anni del secolo XX; la media annua nel 1901-13 sale a 626.000 emigranti e il rapporto con la popolazione del regno, nel 1913, tocca i 2.500 emigranti per ogni 100.000 abitanti, pari a un quarantesimo circa dell'intera popolazione. E' soprattutto l'emigrazione dall'Italia meridionale e insulare che si sviluppa, raggiungendo livelli nettamente superiori rispetto a quelli dell'Italia settentrionale: 46% contro 41% dell'Italia settentrionale e 13% della centrale, su un totale di più di 8 milioni del periodo 1901-13. Ciò spiega anche l'assoluto prevalere, nel periodo, dell'emigrazione transoceanica sulla continentale (il 58,2% contro il 41,8%). Gli emigrati dall'Italia meridionale, prevalentemente addetti all'agricoltura e braccianti, costretti all'espatrio dalla povertà dei loro Paesi erano disposti ad accettare qualsiasi lavoro e anche a stabilirsi definitivamente all'estero, nelle terre d'oltremare; al contrario, l'emigrazione dall'Italia settentrionale, più altamente qualificata e, in genere temporanea, era per lo più assorbita da Paesi europei. Tra i Paesi di destinazione dell'emigrazione continentale, la Svizzera passò al primo posto superando la Germania, l'Austria e la stessa Francia; nell'emigrazione verso Paesi d'oltremare si accentuò invece il primato degli Stati Uniti, dove si diressero, dal 1901 al 1913, oltre 3 milioni di italiani, contro i 951.000 dell'Argentina e i 393.000 del Brasile. Gli alti salari offerti al mercato nordamericano, la diminuzione delle terre libere nei Paesi dell'America Meridionale, la maggiore facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande industria degli Stati Uniti, concorsero a dirottare il flusso dell'emigrazione dall'Italia. Il venire meno del vincolo fondiario, che lega l'emigrato al paese d'arrivo, e il diminuito costo dei trasporti favorirono una minore durata dell'espatrio: molti lavoratori decisero di investire i loro risparmi in Italia, prevalentemente in acquisto di terre o nella casa di proprietà. Questo carattere temporaneo, che già era dominante nell'emigrazione continentale e che cominciava ad estendersi a parte dell'emigrazione transoceanica, si ripercuote beneficamente sull'economia italiana, sia perché gli emigrati tornano, in genere con accresciute capacità di lavoro e di iniziativa e muniti di capitali accumulati all'estero, sia perché, contando di rientrare in patria, molti emigranti vi lasciavano le loro famiglie e ad esse provvedevano durante l'espatrio con l'invio di rimesse, quelle rimesse che contribuirono attivamente al saldo della bilancia dei pagamenti dell'Italia con l'estero. L'emigrazione italiana negli ultimi anni dell'anteguerra era ben diversa da quella degli ultimi vent'anni del XIX secolo. Non si trattava più di masse prive di appoggio, emigranti alla ventura in cerca di lavoro, ma di masse guidate e assistite, e capaci alla loro volta di contribuire al miglioramento delle condizioni economiche e sociali della patria. L'emigrazione, ritenuta inscindibilmente connessa alla struttura economica del Paese e al ritmo di accrescimento della sua popolazione, fu largamente incoraggiata e protetta.

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