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Pietro MONACO Brigante |
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di Scarpino Salvatore da: "La mala unità, scene di brigantaggio nel sud" (1987) http://utenti.lycos.it/SPEZZANO_Piccolo/scarp.htm |
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(...) Il popolino la chiamava Ciccilla o Maria, le carte del comando militare che trattò il suo caso la registrarono come Marianna Oliverio, "druda di briganti", e diverse fotografie scattate nel carcere, molto probabilmente in quello di Montalto Uffugo nel 1864 ce ne hanno tramandato l'immagine. Ciccilla vi appare vestita da uomo, alla brigantesca, col classico cappello a pan di zucchero, il duebotte (doppietta), un revolver alla cintura e un braccio al collo, conseguenza di una ferita. Fu la fuorilegge più celebre di tutto il Sud (di lei scrisse anche Alessandro Dumas) e la sua storia, depurata degli orpelli romantici, può aiutare a capire le tensioni e la violenza che caratterizzarono la stagione del brigantaggio postunitario in Calabria. Ciccilla era la moglie di Pietro Monaco, brigante della Sila che per tre anni riusci a sfuggire alle forze di repressione e fu ucciso da alcuni suoi compagni corrotti col denaro. Un'altra storia esemplare. Pietro era un sottufficiale borbonico che, all'arrivo di Garibaldi, aveva disertato abbracciando la causa della rivoluzione. S'era arruolato col biondo liberatore e aveva combattuto, pare bene, guadagnandosi anche le spalline di sottotenente durante l'assedio di Capua. Ignoriamo quale particolare atto di valore compisse Monaco durante quell'episodio di guerra che non diede a nessuno dei contendenti occasioni di eroismo. Ricordiamo che Capua fu investita il primo novembre 1860 dal V Corpo dell'esercito italiano. Nel pomeriggio di quel giorno le artiglierie cominciarono a battere la città e il bombardamento durò molte ore, provocando incendi e vittime fra la popolazione civile. Gli abitanti rumoreggiando chiesero ai comandanti borbonici - capo di stato maggiore della piazza era quel capitano Tommaso Cava de Gueva di cui abbiamo citato gli scritti - che cessasse ogni resistenza. E Capua si arrese. Pietro Monaco, comunque, era un animoso: se combattè coi liberatori con lo stesso coraggio con cui fece il brigante, certamente si distinse. Ma l'avventura unitaria fu breve e deludente. Come tanti altri volontari, l'ex sergente borbonico fu smobilitato, emarginato, diventando di colpo disoccupato e sospetto alle nuove autorità. Era tornato a casa pieno di rancori e s'era impelagato nella lotta politica locale, fatta di contrasti fra clan disposti ad indossare tutte le casacche pur di arraffare potere nei paesi. Scivolato in una brutta storia di vendette e di offese, Pietro uccise un possidente di Serrapedace, piccolo centro alle falde della Sila, e dovette darsi alla macchia. Dopo poco tempo, era a capo di una comitiva di sbandati e di ribelli, era brigante. La sua guerra non ebbe alcun obiettivo politico preciso, né si collegò direttamente ai tentativi di restaurazione borbonica operati in altre zone del Mezzogiorno: fu una lotta, ben nota da secoli a molti calabresi, contro baroni e galantuomini che, in questo caso, s'erano schierati non disinteressatamente coi nuovi governanti. E naturalmente questa lotta faceva gioco ad altri baroni e ad altri possidenti che, per motivi diversi, col nuovo ordine non s'intendevano. Per capire la guerra di Pietro Monaco bisogna conoscere la Sila, aspra, fatata e boscosa che un insondabile disegno ha fatto sorgere su una terra circondata da un mare tiepido. La Sila, prima che la riforma agraria dei tempi nostri l'ingrigisse, era ricca di mandrie, abitata secondo il ritmo delle stagioni da caporali delle vacche, carbonai e contadini caparbi e parchi che la sfruttavano magari senza il ritegno e la pazienza che gli ecologi di oggi avrebbero usati. Il bisogno non è un buon consigliere. Era una montagna solenne e dura, bellissima e ricca. Sì, ricca, almeno secondo i metri di valutazione del tempo andato: oggi le montagne appaiono buone soltanto per gli albergatori e i turisti, ma una volta non era così. La Sila era amata e difesa, soprattutto dai contadini senza proprietà ai quali il regime demaniale di gran parte di quella terra garantiva il diritto di sfruttamento. Ma proprio per questo la storia della Sila è una storia di rivolte e di usurpazioni, di boschi e di pascoli contesi da baroni e contadini. Una vertenza secolare che periodicamente finiva davanti ai giudici, spesso davanti al giudice supremo, che era il re. I baroni tendevano ad usurpare le zone demaniali, i contadini difendevano il diritto di fare legna e di coltivare. La storia giudiziaria del regno di Napoli è piena degli scartafacci con cui le "università", le comunità, silane si opponevano alle pretese dei feudatari. Ma per scrivere quelle carte bisognava trovare gli avvocati, pagarli soprattutto, avere pazienza e fiducia nei giudici. E giudici e avvocati quasi mai erano dalla parte dei cafoni, i quali conoscevano anche sistemi più spicci per regolare le questioni. Accadeva così che spesso le carte legali lasciassero il posto alle fucilate. La vita nei borghi era avvelenata da faide, soprusi, violenze. Anche per questo il brigantaggio nella zona era endemico: i Borboni nel 1845 avevano istituito le corti marziali per gli "scorridori di campagna" e nel '47 avevano inviato il generale Statella a dirigere la represione della guerriglia contadina. Nel '49 era stato mandato il maresciallo Ferdinando Nunziante col potere di dichiarare lo stato d'assedio che di fatto, in alcune zone della Calabria, cessò soltanto nel '52. Ma nel '59, quando il regno era vicino alla fine, Francesco II aveva dovuto mandare in Calabria il generale Emmanuele Caracciolo di San Vito col potere di nominare consigli di guerra per giudicare i briganti. Il crollo dei Borboni aveva creato quindi una situazione di disordine e incertezza nella quale il brigantaggio divampò con rinnovata violenza: tutto il Sud era in rivolta, la stagione era propizia per regolare i conti sospesi. La fine del regno scatenò gli appetiti: era il momento di accaparrarsi le terre demaniali e quelle ecclesiastiche e chi poteva concorrere alle aste se non i vecchi baroni e i nuovi protagonisti, i "galantuomini"? I moti contadini scoppiarono- anche per questo, non sarebbero bastate le sobillazioni dei borbonici e del clero. Per molti briganti calabresi può valere la morale che si trae da un episodio riferito dallo storico Franco Molfese. Eccolo. Un avvocato fu sequestrato da una banda di briganti campani e, per ingraziarseli e convincerli a rilasciarlo, cominciò a vantare il suo borbonismo, l'attaccamento alla spodestata dinastia. Un brigante lo ascoltò per un poco, quindi tagliò corto, dicendogli: "Tu sei avvocato, sei un uomo istruito, pensi veramente che noi fatichiamo per Francesco II?". Ebbene, i briganti della Sila combattevano per se stessi, contro i nemici di sempre, e facevano la guerra contro i soldati per legittima difesa, ma anche perché i soldati rappresentavano un regime che appariva oggettivamente schierato contro i pastori e i contadini, un regime fatto su misura per i "galantuomini" accaparratori. Cominciarono a tirare sui bersaglieri con lo stesso spirito con cui avevano tirato sui soldati e sulle guardie urbane del Borbone. La banda di Pietro Monaco fu abbastanza numerosa, anche se non raggiunse mai le dimensioni di quelle di Crocco o di Chiavone. I capibanda calabresi collaboravano fra loro, ma non cercarono mai di centralizzare il comando delle forze; individualisti e sospettosi l'uno dell'altro applicavano fino in fondo il vecchio proverbio calabrese che dice: "Miegghiu cap'i licerta ca cud'i liuni" (meglio testa di lucertola che coda di leone). Gli obiettivi non erano direttamente i reparti militari, coi quali comunque si doveva fare a fucilate, quanto i possidenti e i loro servi armati, squadriglieri da quattro carlini al giorno, sempre ambigui, in equilibrio instabile e sospetto fra i briganti, gente del loro mondo, e i padroni che pagavano poco e tardi, dopo avergli fatto allungare il collo, ma pagavano. Pietro Monaco - descritto da Michele Falcone, un sequestrato che ebbe modo di osservarlo da vicino per molto tempo, come "tarchiato della persona, bruno di volto e di pelo, con occhi fieri e incavati che ispiravano diffidenza ed orrore,— attaccava masserie isolate, scannava greggi intere, metteva taglie sui proprietari. Ciccilla se ne stava a casa, in paese, dove il marito rientrava spesso. La latitanza era facile, c'erano i manutengoli, i galantuomini disposti ad aiutarlo. Marianna un giorno si accorse che il marito guardava, durante i periodi che trascorreva a casa, con troppo interesse la cognata. Marianna non ebbe dubbi e una notte, con trenta colpi di scure, come lei stessa ebbe poi a confessare, uccise per gelosia la sorella. Pietro, che probabilmente avrebbe preferito lasciarla a casa, dovette per forza portarla con sè, non poteva abbandonarla alla giustizia. Quei trenta colpi di scure, poi, erano un chiaro indizio di predisposizione alla vita brigantesca. Cosi Marianna alias Ciccilla smise la gonna e indossò la tenuta del fuorilegge, giubba coi rever decorati da monete usate come bottoni e calzoni di velluto, che in più occasioni la fecero scambiare per "un imberbe e biondo giovinetto". Tutti coloro che ebbero a che fare con lei non accennarono mai a una particolare ferocia, a una morbosa violenza del carattere, mentre del marito molti sottolinearono la spietatezza, compreso quel Michele Falcone il quale scrisse che Pietro Monaco "nella ferocia dell'indole ritraeva moltissimo Fra Diavolo, il fido amico di Carolina d'Asburgo". Ma Michele Falcone non era obiettivo e pagava il suo scotto di galantuomo acculturato alle mode politiche e letterarie dell'epoca. Come vivevano i briganti? Si prendevano qualche soddisfazione, ma la loro vita era dura. Dormire con un occhio solo, spesso all'addiaccio, muoversi sempre, camminare, cavalcare, col fucile che diventa il naturale prolungamento del braccio, dare morte e aspettarsi la morte. Senza pace, una giostra violenta fra boschi e fiumare, muoversi a primavera e in estate, quando i giorni sono lunghi e caldi, quietarsi in inverno, come le serpi, nelle capanne misere dei carbonai, ma sempre col duebotte fra le ginocchia. Mangiare e bere, certo, cavarsi la fame, una fame stagionata, più vecchia di loro, banchettando con le pecore dei signori che loro e i loro padri per anni avevano guardato senza poterle toccare. Bevevano il vino nero e aspro (ma qualche manutengolo mandava il rosolio) e usavano le loro donne senza vezzi, contadine ardite che soltanto da brigantesse si levavano, anche loro, qualche sfizio. Di denari ne maneggiavano tanti, ma ben poco rimaneva attaccato alle loro dita. L'arte di tenere i soldi è da "civili", presuppone una collaudata consuetudine con l'oro; i briganti scialavano per una breve stagione, sapevano che una palla prima o poi li avrebbe fermati. C'erano anche i manutengoli da ungere, la gente che faceva arrivare in campagna - rischiando grosso - armi e polvere, tabacco, notizie. Ma l'ebrezza di quella vita raminga era costituita dal potere. Quanto valeva la morte di un nemico odiato intensamente per anni? Che prezzo dare alla sottomissione di un piccolo don Rodrigo di paese? Questa era la droga dei briganti, la sensazione inebriante di poter creare e applicare, lì e in quel momento, l'unica legge. Dopo, ma soltanto dopo, sarebbero giunti i bersaglieri, gli squadriglieri e la morte. Amen. Al fondo della morale dei ribelli c'è una disperazione senza fine, la convinzione che nessun regime assicurerà quella giustizia giusta che ai cafoni serve più del pane. E se si deve scegliere fra i governanti antichi e nuovi, meglio il vecchio re, sospettoso dei galantuomini e dei baroni, il vecchio re pacioso degli aneddoti napoletani - Francesco II era giovane, ma quel che conta è l'archetipo del regnante borbonico - che quello nuovo, tutto sciabole e speroni e squilli di tromba e scariche di fucileria. Viva lu rre, quello loro, quello della Sila regia e della dogana delle pecore, e viva la Madonna del Carmine, perdio! Torniamo a Ciccilla e alla sua banda. Pietro Monaco in poco tempo diventò noto e temuto e vide aumentare il suo prestigio quando, nel dicembre del 1862, un brigante pentito, Giuseppe Scrivano, d'accordo con un suo parente capo di una squadriglia, il famoso Rosanova, tentò di ucciderlo. Scrivano - che poi, sempre facendo il doppio gioco, finì sparato per sbaglio dai bersaglieri - gli tirò, ma lo ferì soltanto. In Calabria, allora, gli infami non erano amati e il tradimento mancato servì alla leggenda di Pietro Monaco, al mito della sua invulnerabilità. Ma l'ex sergente borbonico preparò da sè la sua fine quando decise di sequestrare alcuni membri di una ricca famiglia di Acri, i Falcone. Fece il colpo nel settembre del 1863 (insieme con i Falcone sequestrò anche il vescovo di Nicotera e Tropea, De Simone, e un canonico che poi furono rilasciati), ma inseguito da truppa e squadriglieri dovette portarsi dietro gli ostaggi per due mesi. La famiglia Falcone (schierata col nuovo regime: uno dei giovani era caduto a Sapri e altri membri erano, subito dopo l'unità, organizzatori e comandanti della Guardia nazionale impegnata nella lotta alle bande) in più rate pagò 16 mila ducati, oltre ad armi e orologi d'oro, e avrebbe pagato anche di più se i sequestrati, approfittando di uno scontro a fuoco fra briganti e truppa, non fossero riusciti a fuggire. Comunque, i Falcone a Monaco la giurarono e fecero sapere in giro che avrebbero ben pagato chi gli avesse portato la testa del brigante. Nel dicembre di quello stesso 1863, Marrazzo, Celestino e De Marco, uomini della banda Monaco, si presentarono a casa Falcone e dissero che, se gli fosse stato fornito del veleno, avrebbero assassinato il capo. E indicativo che scegliessero subito l'arma delle femmine, non se la sentivano di alzare la mano contro Pietro. I Falcone gli diedero della stricnina, ma il colpo andò a vuoto, i tre cafoni non seppero avvelenare l'acqua. I traditori, quindi, dovettero passare a metodi più spicci e una notte tirarono due colpi mortali a Pietro Monaco addormentato in un pagliaio. Contemporaneamente spararono a Ciccilla, che rimase ferita a un braccio, e uccisero un altro uomo della banda, Giacomo Madeo. A questo brigante tagliarono la testa che, per molti giorni, fu esposta nel punto in cui i Falcone erano stati sequestrati. Ciccilla però non si arrese. Assunse il comando della banda e tenne la campagna per altri 47 giorni, fino a quando, circondata dalla truppa, dovette arrendersi. E furono questi 47 giorni a procurarle la fama. Sulla sua fine si hanno notizie discordanti. Secondo un'annotazione manoscritta sul retro di una fotografia segnaletica, Ciccilla fu condannata a morte e fucilata, secondo un'altra annotazione le furono inflitti quindici anni di galera. Gli assassini di Pietro Monaco furono portati in trionfo per tutti i paesi della Sila e le autorità invitarono i proprietari a fare una colletta per i "pentiti". Una procedura barbara, che fece scalpore e provocò la reazione delle autorità centrali. Marrazzo, Celestino e De Marco furono quindi arrestati e processati, ma la condanna fu mite. |
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