INTERVISTA A CHIAVONE |
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Essendo venuto in possesso di un giornale Francese del 1862, con una intervista a Chiavone, ho pensato bene di tradurlo............ traduzione di Armando Calvano |
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"L'Illustration, Journal Universel", numero Jan-June 1862 'al direttore Dal mese di giugno, ossia dal momento in cui la guerra del brigantaggio iniziò a prendere la sua più grand'estensione nelle province napoletane, io ho assistito personalmente a quasi tutti i fatti di cui, a loro volta, i dintorni di Napoli, Basilicata e Calabria sono stati il teatro. Ho visto, morti o vivi, tutti i capi di banda più famosi, sia per i loro precedenti, sia per le loro imprese: mi rimaneva da vedere il più famoso di tutti questi capi, Chiavone. Molti negano la sua esistenza. Altri credono che il suo nome funga da copertura a tre o quattro capi di bande distinte, che appaiono quasi alla stessa ora su punti distanti gli uni degli altri. Si capirà dunque facilmente che la mia curiosità era destata, e che il mio più vivo desiderio era di garantirmi, per me stesso, cosa ne era di questo generalissimo di Francesco II: un bel giorno, lasciai Napoli e mi diressi su Sora, accompagnato dal mio fotografo inseparabile e dalle nostre quattordici enormi casse di bagagli. Poiché non voglio, al giorno d'oggi, annoiare i lettori de l'Illustration e di Chiavone, passerò subito agli episodi del nostro viaggio. Arrivati a Sora, la mia prima visita fu per l'intendente Homodei, un bravo lombardo, inviato, - a causa della sua energia ben nota, - a dirigere un paese dei più di difficili. Noi ci assicurammo, tramite lui, dell'esistenza, ben reale di Chiavone e, come prova d'appoggio che il brigante famoso esisteva realmente, ci mostrò un enorme dossier elaborato contro di lui, dossier che conteneva non meno di centosettantadue capi d'accusa. Egli ce lo fece leggere e ci diede una lettera indirizzata la vigilia da Chiavone ad un ricco proprietario del paese. Con questa lettera, Chiavone richiedeva a don Agostino 2.000 ducati, sotto pena d'essere afferrato e ferito al corpo. Avendo la certezza ufficiale che l'uomo esisteva, io dissi all'intendente che il mio solo scopo, e il mio unico desiderio, era di vedere Chiavone personalmente e fare il suo ritratto destinato all'Illustration... Homodei sebbene intelligente, rimase stupefatto; non poteva comprendere come un uomo, dotato apparentemente di tutta la sua ragione, andasse giocare la sua vita di gioie per una ragione puramente artistica. Tuttavia, quando fu bene convinto che parlassi seriamente, il bravo intendente si mise interamente a mia disposizione. Dopo quarantotto ore di preparativi, mi diressi su Veroli, città degli stati romani, più vicino alle frontiere. I negoziati durarono tre giorni. Più di quindici persone s'intromisero in quest'affare. Infine, uno di quelli a che mi fu raccomandato mi mise in relazione con un patriota di Veroli, e quest'ultimo s'incaricò di farmi mettere in comunicazione con una persona che vedeva spesso Chiavone. Dopo due giorni d'attese, venne a cercarmi e mi condusse in casa di terzi; là, mi trovai in presenza di una donna di trent'anni circa, dall'aspetto delle più accentuate, con gli occhi, le sopracciglia ed i peli neri come gatto. Insomma un aspetto notevole. La persona tramite la quale avevo trovato questa donna ci lasciò soli dopo averci presentati l'un l'altro e aver assicurato, a quella donna, che poteva fidarsi a me. Io esposi allora a Vincenza Sacqui, - tale era il suo nome, - il mio vivo desiderio di vedere Chiavone, parlare un po' con lui, e soprattutto di fare il suo ritratto. Vincenza era una buona donna; non dissimulò alcuno dei pericoli che io avrei corso. Da parte sua, si metteva interamente a mia disposizione; ma non poteva far più niente: ella non era che l'intermediaria tra Chiavone e le persone che, a Veroli, gli consegnavano lettere, denaro e misure per l'illustre brigante. Inoltre, c'era ancora da temere che la donna che era vicino a Chiavone, e che era gelosa, non ci avrebbe fatto incontrare, precisamente perché io ero raccomandata da parte di Vincenza, malvista da quest'ultima donna. Infine, vedendo che non poteva fare presa sulla mia risoluzione, mi disse: "Venite, posso io garantirvi che, finché sarete con me, non sarà toccato un solo pelo della vostra testa". Io abbracciai di buon cuore la fidata donna; quindi, per mantenerla nella sua buona disposizione, le rimisi un conto sulla somma e metà m'impegnai a darle se ritornassi sano, ed accettò la mia escursione. Fu organizzato tutto e, prendemmo appuntamento per mezzogiorno al di fuori della porta di Napoli e, poiché c'era giorno di mercato, si recò per comprare gli approvvigionamenti ordinati da Chiavone. A mezzogiorno, tre muli e quattro asini ci attendevano all'esterno di Veroli; Vincenza arrivò con borse e canestri riempiti di misure. La facemmo montare su un asino grande come un cavallo; le misure furono messe su due asini; il mio fotografo ed io sui nostri muli, la cassa degli strumenti e i prodotti fummo fermamente attaccati sulla parte posteriore dell'altro mulo. Noi ed i mulattieri, poiché ogni animale avevano il suo conducente, formavamo, con una donna che portava sulla sua testa un canestro pieno di bottiglie di liquori, ed il servo di Vincenza, una carovana che presentava un aspetto abbastanza pittoresco. Dopo tre ore e mezzo di marcia, arrivammo, in un villaggio che apprendemmo nominarsi Scifelli. Era là che rimaneva Vincenza, che esercitava la professione di mercante di tabacco e liquori. Noi dobbiamo riconoscere che non fummo molto rassicurati, e maledicevamo, in noi stessi, la nostra troppo grande prudenza, che ci aveva fatto lasciare a Veroli, contemporaneamente alle nostre carte, le nostre armi. Alla nostra entrata appariva un villaggio in cui appena un centinaio di case esistevano; sulla porta di queste case, gente armata giocava alle carte, accovacciata a terra; altri in piedi ci osservavano passare con un'aria più, che minacciosa; tutta la marmaglia del paese che ci chiedeva la carità; le donne facevano segni agli uomini indicando la nostra cassa e i nostri vestiti. Noi iniziammo ad arretrare, eravamo [.] "manca un pezzo del giornale" [.] rosso, ampia cintura blu attorno ai reni, cappotto grigio con le spalline di lana rossa, legame blu, képi, - i bottoni del cappotto e del képi che portano il numero del 25° reggimento di fanteria francese. Il nostro stupore fu grande; ci avanzammo verso quest'uomo: "Come, ci sono soldati francesi qui!" gli gridammo. L'uomo ci osservò molto stupefatto, e ci rispose con un non capisco, che ci diede immediatamente la chiave dell'enigma. Ci ricordammo gli acquisti fatti per conto di Francesco II al ghetto di Roma, acquisti negati dopo la pubblicazione del memorandum del barone Ricasoli... Infine, una dozzina di briganti entrarono nel negozio, e Vincenza s'impegnò a distribuire a ciascuno le sue misure, invitandoli ad andarsene il più rapidamente possibile una volta che essi s'erano serviti. Il barile di vino destinato a Chiavone fu messo sulle spalle del più forte. Le bottiglie di liquori, di rum, di rosolio, il pane fresco, i polli, la pancetta, un pezzo enorme di vitello, i legumi da granella, i maccheroni, i frutti, e infine tutto quello che formava la parte del generale fu anche distribuito agli uomini che dovevano portare il tutto alla casa di Chiavone. Il negozio s'era quasi svuotato, Vincenza prese da parte il brigante vestito da soldato francese ed uno dei suoi camerati. La loro conferenza durò circa una mezz'ora; di quello che si dissero, non so nulla; vidi Vincenza fare grandi gesti, vive dimostrazioni, ed alla fine dirgli sorridendo: "Tutto va bene". Il capitano, - che aveva designato un piccolo uomo - vi condurrà vicino al generale... Quindi chiamò due donne, fece scaricare la cassa, degli strumenti da sopra il mulo e la fece porre sulla testa di una delle due ciociaresse che dovevano accompagnarci.Una casa a due piani era di fronte a noi, lì c'era Chiavone. Le nostre guide entrarono in questa casa; ci sedemmo all'esterno su pietre... Una mezz'ora dopo, iniziammo a spazientirci, quando il capitano uscì dalla parte nella quale l'avevamo visto entrare, fece un approccio con le due ciociaresse, parlò loro a bassa voce, scivolò loro qualcosa nella mano e le congedò, quindi, senza nulla dire, rientrò nella casa. Non comprendevamo nulla di questo mistero: inoltre, dopo alcuni minuti d'attesa, col rischio di dispiacere ai nostri ospiti, andammo a colpire con grandi colpi di canna, - sola arma che avessimo conservato, - alla porta nella quale avevamo visto entrare tutti coloro che erano venuti da Scifelli con noi. Quasi immediatamente la porta s'aprì, e vedemmo sfilare dinanzi a noi una sessantina d'uomini armati, che stringevano nelle loro ampie mani, del denaro in contanti. Noi comprendemmo allora la causa del ritardo portato alla nostra entrata nella casa. C'era l'ora del soldo, ora solenne, ed alla quale nessuno faceva difetto. Quasi immediatamente il capitano venne a noi e ci disse: il generale vi attende. Il capitano ci precedette, ci mostrò il cammino; lo seguimmo, ed entrammo in una grande camera. Era un po' oscuro, nonostante tre o quattro piccole lampade messe sotto immagini di santi. I mobili consistevano in un letto, alcune sedie, un tavolino, due recipienti per il pane, e un grande armadio; immagini sante erano attaccate al muro; alcuni fucili erano messi qua e là lungo le pareti. Quattro uomini e due donne stavano in questa camera. Alla nostra entrata, uno solo si alzò, era un uomo di dimensione media, all'apparenza una persona franca, aperta e simpatica; egli si avanzò verso di noi, con le braccia aperte, ci abbracciò al modo italiano, e ci disse: "Siate il benvenuto, tutto questo che è qui è a vostra disposizione, gente e cose..." Restammo un pò stupiti da quest'accoglienza più che gentile. Io presi la parola. "Sono autore, dissi -voglio scrivere di Chiavone, e sono curioso di vedere, e conoscere tutto ciò che è straordinario. Voi costituite, nel nostro secolo così positivo, un'eccezione delle più curiose. Sono venuto vicino a voi, per fare, se lo volete, il vostro ritratto, e, poiché cerco qualsiasi documento autentico sulla storia di questo paese e di quest'epoca, vengo a pregarla di darmi, lei stesso, tutti i dettagli, e tutte le spiegazioni sulla vostra vita e sulle ragioni che vi hanno spinti a difendere la causa di Francesco II. Se vorrete soddisfare il mio desiderio, passerò due giorni con voi. Se, all'opposto, ripugnate di fornirmi le precisazioni che vi chiedo, me ne tornerò a Veroli molto tranquillamente, come sono venuto". Pur parlando così, conservavamo una capacità ferma ed assicurata. Chiavone teneva la nostra mano nella sua, e non la sentì tremare. In queste occasioni il primo momento è il più difficile da superare. Inoltre, dopo avere riflettuto alcuni momenti, Chiavone ci rispose: "Venite a sedervi vicino a me, e parleremo un po'". Fece un segno, e tutti coloro che erano restati seduti, uomini e donne, si alzarono. Tutti ci osservavano e ci scrutavano; avevamo grande cura di lasciar vedere che non portavamo nessuna arma apparente o nascosta. Chiavone era un uomo dalla figura franca ed aperta. Era di dimensione media, forte e proporzionato. Aveva gli occhi blu, e la barba ed i peli erano castani. C'era molto del generale Turr nel suo aspetto. Parlava abbastanza bene l'italiano. Insomma, era un uomo il cui aspetto e il mantenimento stavano in mezzo tra il contadino semplice ed il soldato. Era vestito con ciocie, indispensabili nelle montagne, di pantaloni di velluto nero, d'una camicia di flanella alla Garibaldi, d'un soprabito alla raglan, e con un cappello rotondo alla spagnola. Una cinghia rossa cingeva i suoi reni; un revolver a sei colpi era al suo interno. Dopo alcuni momenti di riflessione seria, Chiavone ci rispose che acconsentiva di gran cuore a lasciarsi fare il suo ritratto; che, sulla sua vita, la mattina del giorno dopo, ci avrebbe fornito tutte le precisazioni che desideravamo; che ciò non gli era possibile in quell'istante, perché avremmo dovuto fare molto tardi nella sera e nella notte... ...Le persone che si erano allontanate al nostro arrivo rientrarono. Gli ospiti succedettero agli ospiti. Chiavone distribuì una grande quantità di carlini ai suoi uomini... Infine, verso le ore dieci, s'allontanò da tutto il suo mondo; uscì per vedere se tutti fossero al loro posto, s'assicurò che le sentinelle vegliavano, che i fuochi erano accesi, che i vasi bollivano; allora rientrò nella camera dove l'avevamo trovato arrivando, ed ordinò di servire il banchetto. Eravamo lungi da aspettarci di fare un così buon banchetto. La cucina di Chiavone era, - chi lo crederebbe! - un vero cordon blu. C'erano dei maccheroni, - dei polli alla Marengo, - un agnello alle uve di Corinto, - un cosciotto di capriolo, - il vitello con delle piccole cipolle, - dei cavolfiori al parmigiano, - frutta splendida, - del vino degli Abruzzi dai riflessi di color topazio - del marsala, - del vino da cucina, - e, per coronare la totalità, del vino di Champagne Moet, con caffè e brandy della Francia, cosa rara in Italia, - tale fu il menu di questa merenda: la totalità servita con una pulizia perfetta... Verso un'ora della mattinata, Chiavone ci invitò a riposarci. Egli ci offrì il suo letto al quale aveva appena messo dei panni bianchi. Si fece portare un materasso, s'avvolse in una coperta, e presto, in questa camera molto rumorosa a quell'ora, si addormentò con una respirazione uguale e misurata. Tutti gli invitati si erano ritirati. La mattina del giorno dopo, verso le ore otto, iniziammo a montare lo strumento fotografico; una prima prova di Chiavone, in costume ordinario, fu fatta; - e riuscì: purtroppo si ruppe per strada durante il nostro ritorno. Pregammo Chiavone di rivestire la sua uniforme famosa di cui era stata questione ultimamente. Chiavone che faceva tutto ciò che volevamo, inviò dei suoi uomini a cercare i suoi abiti, e facemmo il suo ritratto tale e quale a com'è rappresentato nella fotografia che inviammo all'Illustration. Si comprenderà quali difficoltà dovevamo superare. Infine, alla meno peggio riuscimmo. Mentre il nostro fotografo agiva, disegnai con la matita alcuni tipi di briganti, in fondo abbastanza buoni diavoli, che si prestavano facilmente ai nostri desideri. Vi fu una scena abbastanza curiosa, c'erano un centinaio di briganti armati fino ai denti, ma il nostro fotografo fu ripreso da Chiavone, affinché fotografasse solo i tipi più rilevanti. Descrissi un vecchio brigante con meno di settanta anni, che aveva l'aria d'essere completamento assorbito dalla lettura d'una consegna che mi sembrò essere un libro di preghiere. M'avvicinai al vecchio bandito, e gli chiesi il volume per un minuto. Era un libro che spiega i sogni, e che dà, contemporaneamente la spiegazione, e i numeri che fanno guadagnare alla lotteria. Questo vecchio uomo usava tutti i soldi che riusciva a risparmiare sulla sua retribuzione di quattro carlini al giorno. Due volte alla settimana andava a Veroli per tentare di centrare il terno e la quaterna. Dopo il pranzo, così sontuoso come il banchetto della vigilia, Chiavone ci descrisse la sua vita. Il poco di spazio che mi accordò non mi permette di dire in dettaglio quest'esistenza così sfortunata da un anno. Riassumerò in alcune linee la biografia del generale brigante. Luigi Alonzo, detto Chiavone, nacque a Sora nel 1827. Suo nonno, Valentino, aveva fatto parte delle bande che, sotto l'ordine di Gaetano Mammone, durante un lungo tempo, avevano gettato il terrore nella città e provincia di Sora. Ci disse che la regina Maria Carolina, la moglie di Ferdinando IV, e amica di lady Hamilton, aveva nominato il bandito Gaetano Mammone il suo mandatario, suo generale, il suo alter ego. A quest'uomo sia il re Ferdinando IV che la regina Carolina scrivevano: "Mio caro generale, il mio amico caro." Occorre leggere, in Coletta ed in Botta, tutti i dettagli degli orrori e dei crimini commessi da Mammone... Il nonno di Chiavone fu uno dei tenenti principale di "Mammone". Soltanto, seppe fare economie e, con i prodotti dei suoi crimini, - prodotti accuratamente messi di parte, - comperò una casa e delle terre. Lasciò dunque alla sua morte una piccola fortuna che i suoi figli aumentarono. Suo padre si chiamava Gaetano, in ricordo di Gaetano Mammone che era stato il suo padrino... ... La gioventù di Chiavone avvenne come avviene quella della gente della sua condizione, ossia lavorava il meno possibile, mangiava e beveva più di quanto poteva. Tozzo e molto forte, si imponeva ai suoi camerati: quindi aveva acquisito un tipo d'ascendente su loro. Diventato soldato, Chiavone non superò la categoria di sergente; ritornato a Sora, fu nominato guardia forestale del comune. Da allora iniziò a rivelarsi come l'erede degno di suo padre e di suo nonno. Mai, da memoria di guardia forestale, aveva visto così pochi danni commettersi. Il legno di Sora doveva essere certamente il legno meglio conservato del regno. Mai una piccola offesa verbale si lasciava sentire fino alla fine dell'orecchio; mai un delinquente era temuto dal suo corpo. Infine, se la foresta di Sora fosse il modello delle foreste, Chiavone, incontestabilmente, era il principe delle guardie forestali. Il comune doveva tirare prodotti splendidi da legno così ben sorvegliato, e ciò produceva ricchezza. Purtroppo per Chiavone, questo stato di prosperità non durò. Infatti, quando il comune, molto fiero della sua guardia, verificò lo stato del suo legno, ebbe delusioni crudeli. Chiavone non elaborava mai verbali. Boscaioli, carbonai, bracconieri, ecc., perciò gli davano un compenso. Chiavone aveva fatto rivivere col suo profitto i tempi feudali; era padrone e signore di tutta questa razza. I montanari avevano in gran parte utilizzato del diritto che messer Chiavone aveva conceduto loro. Il risultato di tutto ciò fu semplicemente il licenziamento di Chiavone. La memoria del suo nonno lo protesse presso Mgr. Montieri, avvocato di Sora, perciò non gli fu fatto alcun processo. Consegnato all'inerzia, il futuro capo di bande, poiché si aveva avuto il presentimento del suo destino, continuò a tenere sotto una specie di sovranità i contadini ed i montanari con i quali aveva mantenuto buone relazioni. Quindi quando, verso la fine di settembre 1860, dopo che Garibaldi aveva messo la sua sede davanti Capua, il famoso colonnello Lagrange uscì da Gaeta per venire negli Abruzzi a fomentare l'insurrezione, Chiavone fu uno dei primi ad andare, con gli uomini che aveva riunito in banda, alla sua riunione. Chiavone con la sua banda, prese una parte attiva a tutte le imprese della montagna. Siccome era del paese, Lagrange lo prese in affezione, e fu dopo i suoi consigli che le città di Sora, Isola, Arpino, ecc., furono colpite d'imposizioni e di richieste di qualsiasi tipo. Più tardi, essendo Lagrange obbligato a ritirarsi nei Stati pontifici, in seguito all'entrata dell'armata piemontese negli Abruzzi, Chiavone rientrò in modo pacifico a Sora, e si fece ammettere nella guardia nazionale. Durante tutto il tempo che rimase in quest'istituzione onorata, fu guardia nazionale esemplare. Soltanto, quando l'intendente di Sora ritornò il 1° dicembre per prendere possesso della sua sede, accompagnato d'un battaglione di truppe italiane, Chiavone, che aveva alcune peccati sulla coscienza, giudicò a proposito di fuggire senza tamburo né tromba, e si rifugiò presso Casa-Maria, negli stati romani. L'intendente di Sora aveva mobilitato la guardia nazionale di Casalvieri, ed aveva chiamato un centinaio di guardie nazionali di questa città a Sora, per fungerle da guardie del corpo. Misteri sconosciuti del cuore umano! Appena Chiavone aveva appreso che Casalvieri montava la guardia nella città di Sora, nella sua città indigena, egli ebbe un vivo movimento di disprezzo, di collera. Occorre dire che da tempo immemorabile gli abitanti di Sora e quelli di Casalvieri hanno vissuto nei più cattivi rapporti. Chiavone inviò immediatamente un messaggio all'intendente di Sora, intimando l'ordine di congedare la guardia nazionale di Casalvieri entro ventiquattro ore, altrimenti, Chiavone, sarebbe sceso dalla montagna alla testa della gente che aveva raccolto, e avrebbe cacciato da Sora intendente e guardie nazionali. Le cose arrivarono ad un tale punto che l'intendente, che era pagato per compier il suo lavoro, fuggì da Sora, il 3 dicembre, verso le ore sette della mattina, e abbandonò le sue guardie del corpo, tutto grazie a Chiavone. Come aveva annunciato, il capo banda entrò, il 3 dicembre, alle quattro di sera, nella città di Sora. Visto sola la guardia nazionale di Casalvieri, che non aveva voluto fuggire, decise di uccidere un vecchio garibaldino. Le altre guardie nazionali, che imitarono l'esempio dell'intendente, si affrettarono a fuggire a gambe levate e a rifugiarsi nel loro paese. Per cinque giorni interi, Chiavone fu il padrone di Sora. Una cosa degna d'osservazione, e che mi ha particolarmente colpito di Chiavone, è il suo rispetto e la sua venerazione per Garibaldi. Non so se il generale sa di quest'omaggio di Chiavone, ma c'è un fatto, esiste, e devo constatarlo. Così, si necessità d'un esempio conclusivo. Quando Chiavone fu padrone principale di Sora, egli s'installò nel Municipio. Nella grande sala del consiglio, c'erano i busti di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. Lasciò rompere il busto del re; ma, quando i suoi soldati tentarono di rompere quello di Garibaldi, egli lo impedì e li malmenò anche con severità. Chiavone durante i cinque giorni che fu padrone di Sora, si accontentò di fare rompere gli emblemi reali decorati dalla croce dei Savoia; ristabilire quelli di Francesco II, e cambiare il sistema comunale. Infine, il quinto giorno, verso la sera, il padre del sindaco di Sora offrì 50 ducati a Chiavone, allo scopo di far comperare pane ai suoi uomini e di riportarli in seguito sulla montagna. Chiavone che aveva compiuto la sua intenzione, - quello di cacciare da Sora le guardie nazionali di Casalvieri, - non aveva più nulla da fare nella città, e riprese il cammino delle montagne, rientrando nel suo campo. Durante il mese di dicembre, Chiavone rafforzò la sua banda. Il suo quartiere generale soggiornava, come ancora oggi, a Scifelli. Il luogo d'assunzione, il posto dove arrivavano i rinforzi che gli erano inviati da casa e da Terracina, era il convento di Cisterna, a Casa-Maria. Era in questo convento che i nuovi chiavonesi prestavano il loro giuramento di fedeltà a Francesco II ed al suo rappresentante, il generale Chiavone. Quando il generale de Sonnaz si appostò, tra i primi giorni di gennaio, a Casa-Maria, gli mancò poco che tutta la banda, Chiavone in testa, ed i padri Cisternesi, non fossero catturati d'un sol colpo. Quando, alcuni giorni dopo, nel gennaio 1861, Bauco fu assediata, Chiavone si trovava con la sua banda in questa città. Si ricorda tutto della questione affare di Bauco, che costò un numero considerevole di morti e di feriti agli italiani, senza avere altro risultato che l'abbandono della sede. Dopo che il generale de Sonnaz rientrò nelle province napoletane, Chiavone si recò, con Christen, negli Abruzzi. Il 28 gennaio, a Frieti, il colonnello Quintini batté completamente Christen e Chiavone e uccise tanti uomini, che i due ebbero appena il tempo di rientrare, accompagnati soltanto da alcuni uomini, negli stati del Santo Papa. Da questo momento, Chiavone ha sempre occupato la frontiera. Scaramucce quotidiane, combattimenti ripetuti, nei quali le truppe hanno sempre avuto la meglio, hanno avuto luogo. Gli affari del 4 aprile, l'11 ed il 29 luglio, del 25 agosto, il 10 ed il 30 settembre, del 14 ottobre, hanno avuto una grande ripercussione, ma non hanno portato nessun risultato. Infatti, fin quanto non avranno la possibilità di rientrare negli stati Romani, non si finirà con i chiavonesi. Alcuni uomini vengono uccisi nelle due parti, alcuni feriti vengono raccolti, si fanno due o tre prigionieri che sono reciprocamente scambiati, e si ricomincia il giorno dopo. Come si deve ben pensare, Chiavone, facendoci il resoconto della sua vita, ci presentava i suoi atti sotto qualsiasi altro punto di vista che quello dove ci siamo messi (li raccontava dal suo punto di vista). L'ora si avanzava, il tempo di fare i ritratti, d'ascoltare la sua storia, e di pranzare ci aveva condotti lontano. Molti briganti arrivarono successivamente, alcuni dalla pianura, altri dalle montagne. Entravano, parlavano a bassa voce con Chiavone, egli gli rimetteva dei messaggi, e poi se ne andavano. Verso mezzogiorno il capitano della banda entrò nella camera; era portatore d'una borsa nera di cuoio: era la borsa delle lettere. Chiavone sfogliò la sua corrispondenza. C'erano lettere di qualsiasi tipo, tutte recanti l'indirizzo di: S. E. Il generale Luigi Chiavone. Tre volte alla settimana, arriva posta da Roma a Scifelli, con le istruzioni e le lettere che Francesco II i suoi ministri, i suoi generali ed i comitati borbonici indirizzano a Chiavone. Il servizio è regolarmente fatto. Due vecchi postini della Posta Reale ne sono incaricati. Nella lunga conversazione che ebbi con Chiavone, io mi convinsi d'una cosa, che Chiavone si sacrificava per il suo re. C'era un contadino che, essendo stato soldato, ha potuto apprezzare quanto era bello obbedire alle sue richieste. La sua prima cura, quando è stato destinato, a seguito della raccomandazione di un avvocato di Sora, a svolgere il ruolo di generale, che compie da un anno, è stato di farsi fare un'uniforme da generale con galloni d'oro. Così Chiavone ha preso il titolo del generale principale degli eserciti di Francesco II. Tutti i suoi uomini lo chiamano ciecamente generale. Egli non è conosciuto, nelle città frontiere degli stati Romani, che sotto questo titolo. I contadini, i giorni di mercato, intrattenendosi con lui, dicono: il generale. Chiavone mi ha mostrato i ritratti in fotografia del re Francesco II e di sua moglie la regina Sofia. Portano tutti due la menzione seguente scritta di mano propria dal re e della regina: AL MIO CARISSIMO AMICO E GENERALE LUIGI CHIAVONE. Chiavone ci condusse a vedere il suo campo. Era situato sul piatto della montagna. Capanne in legno che potevano contenere un migliaio d'uomini erano state costruite. Bufali, pecore, capre, maiali, galline, abbastanza in gran numero, erano anche al riparo in pagliai. Due cannoni di montagna, con i loro montaggi e le loro munizioni, stavano al coperto sotto una capanna. Chiavone aveva una gran quantità di munizioni, 192 bombe, 200 granate ed altri proiettili incendiari. La cifra degli uomini in attività era di 394. Essi ricevevano 4 carlini al giorno; inoltre, avevano il pane e la legna. Il bestiame che catturavano apparteneva all'intera comunità. Su questi 394 uomini attivi, ce n'erano 55 vestiti con l'uniforme del 25° Reggimento di linea francese, abiti comperati al ghetto di Roma, dopo la partenza di questo reggimento; 14 erano vestiti con l'uniforme da Cacciatori dell'antica Armata Napoletana; altri avevano vestigia d'uniforme; ma la maggior parte portava il costume dei contadini, con le cioce... Riassumendo, abiti tristi, gente triste. Passai il giorno nella casa di Chiavone, perché era troppo tardi per ritornare a Scifelli. La mattina del giorno dopo, vidi Chiavone interessato (preoccupato), e gli chiesi cosa aveva. Mi fece allora partecipe di questioni sulla situazione del papa, e soprattutto su quella di Francesco II. Mi chiese se era vero che in Calabria ci fossero al potere i monarchici borbonici; mi fece vedere delle lettere dei generali Vial e Clary, e del famoso Giorgi; in queste lettere, si affermava che le spedizioni partite da Malta erano riuscite a sollevare tutta la Calabria e la Basilicata, e che marciavano su Napoli. Io non avevo la forza da mostrare tutte le falsità di queste notizie... Nel vivo della discussione, gli chiesi: "ma infine, qual è il vostro scopo, quale futuro vedete apparirvi, a che vi condurrà tale vita?." egli mi rispose: "La mia idea è di cacciare il piemontese, marciare su Torino, e restaurare Francesco II, al posto di Vittorio Emmanuele." Avevo con me una carta d'Italia; gli chiesi se si faceva un'idea di dove era situata Torino, e gli feci vedere che non aveva altro che due strade; o partire da casa, passando per Ancona, Bologna e Milano per arrivare a Torino; - o partire da Civitavecchia, attraccare a Genova, e da lì di marciare su Torino. - Egli fu stupefatto; comprese allora che io non approfittavo della sua ignoranza... Rividi un'ultima volta Chiavone, ferito alla spalla sinistra! Non comprendeva come i francesi, che l'avevano sempre lasciato calmo, lo perseguitavano così ostinatamente da alcuni giorni... Lui mi promise, che se veniva ucciso durante il mio soggiorno in queste province, acconsentiva a farsi fare un altro ritratto di lui, morto... Per estratto PIERRE PAGET |
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