Storie di donne diverse |
le brigantesse ottocentesche del meridione d'Italia |
di Valentino ROMANO |
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Michelina De Cesare |
Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. La precarietà dell'esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie - spesso ingigantite - delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono. Dovunque, nei territori dell'ex regno - a Napoli come nei centri minori - sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i Piemontesi. Il possesso e l'uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive né l'esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali, la proprietà della terra. Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell'impossibilità pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di "galantuomini" per i "galantuomini". L'esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l'unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d'Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza. Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l'ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all'esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi. Il fenomeno del brigantaggio approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare - con una saggia politica di riforme sociali - di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle donne dei ribelli. In questo contesto matura il dramma delle "brigantesse", che è dramma della rottura dell'equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina. E' difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un'incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l'avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d'aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò - forte della sua posizione sociale - di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l'esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l'ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati. Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti. In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un'imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l'ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell'orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l'irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati. Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare di una "questione dentro la questione". E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell'intera questione delle classi subalterne meridionali. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre ed operare - semmai - un'altra distinzione che dall'ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra "la donna del brigante" e "la brigantessa". La "donna del brigante" è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia. La "donna del brigante" è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta - contro il suo volere - a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come "sindrome di Stoccolma". Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l'odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall'amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un'imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza. Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece - proprio nei confronti dello stesso Bizzarro - la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi. Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, "la donna del brigante " segue volontariamente l'uomo di cui è innamorata. Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le "nozze rusticane" e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall'accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare - attraverso false testimonianze - di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo. Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note "brigantesse". Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall'infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un'intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda. Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l'amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora. La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l'esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest'ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l'arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte. Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio. Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell'Ofanto che in ginocchio - chiedendole perdono - le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno. Filomena Pennacchio però non visse - come altre - nel ricordo del suo uomo. Preferì - allettata da una promessa di sconto della pena - tradire anch'essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose "brigantesse", Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima. Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta "Ciccilla", è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della "brigantessa": Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito. Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e - nel cuore della notte - la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d'ascia. Subito dopo - a dorso di mulo - raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario. Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé. Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte. Ed è uno dei rarissimi, se non l'unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza - contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti - non fu poi eseguita ma tramutata nell'ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all'opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna. Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto. Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la loro ferocia - come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie dell'epoca - fino ad inzuppare del sangue delle loro vittime il pane che poi addentavano avidamente, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d'amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al "capitano Cannone") o a ricamare per mesi l'immagine dell'amante (con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio. Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il bisogno di sentirsi pienamente donna, di essere madre. Sono molti gli esempi di briganti catturati in combattimenti che, ad un più attento esame, si rivelano "brigantesse" in stato di gravidanza. E' difficile però sostenere che ad indurle alla gravidanza sia solamente il calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano. Rosa Reginella, della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti, partorisce in carcere. Gravide al momento della cattura sono anche Serafina Ciminelli - simile per aspetto e corporatura ad una bambina - compagna del capobanda Antonio Franco e la bella Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi., Per le brigantesse catturate si aprono le vie del carcere. La legislazione dell'epoca non prevede condanne differenziate per i due sessi ma l'orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere. Infatti, le condizioni di vita all'interno dei vecchi bagni penali borbonici, trasformati in carceri del Regno d'Italia sono pessime: il rancio è appena sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico sanitarie sono impossibili. Costrette ad una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate le "brigantesse" accusano - più dei loro uomini - il peso dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. Il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell'indifferenza, quando non nel disprezzo, nel silenzio dell'opinione pubblica. Le cronache giornalistiche e gli scrittori coevi le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, " ganze", "drude", donne di piacere dei briganti. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali. Delle "brigantesse" restano oggi solamente le poco foto che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati ad un palo o ad una sedia, gli occhi rigidamente spalancati, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Emblematiche sono le foto che si conservano di Michelina De Cesare, una delle pochissime "brigantesse" uccise in combattimento: alcune la ritraggono negli abiti tradizionali che ne risaltano la bellezza mediterranea. L'ultima, scattatale dopo la morte, mette in evidenza lo scempio fatto sul suo cadavere. |
Nelle macabre fattezze di Michelina, sconvolte dalla violenza, si può leggere tutto il dramma e le sofferenze dei contadini del Mezzogiorno. |