La vera storia del risorgimento italiano

"LA STORIA PROIBITA"

presentazione di NICOLA ZITARA

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Questo libro è il frutto di un singolare lavoro editoriale realizzato da autori vari; "singolare" perché' è, in assoluto, il primo libro scritto "via e-mail". Se pensiamo al contenuto del testo, inerente la storia negata del Meridione ed all'incontro del "passato" con il "presente" delle nuove tecniche di scrittura e di comunicazione, si evincono le vere motivazioni di una "nostalgia" che non è per niente sterile e improduttiva ma fautrice del risveglio dell' "orgoglio meridionale". E' il prodotto dell'impegno di più' persone, di diversa professione, di diversa estrazione sociale ed anche di diversa tendenza socio-politica, residenti ognuna in diversa località italiana e incontratisi, per caso, in una mailing-list; tutti comunque accomunati dall'amore per il Sud. Andiamo da Marina Salvadore giornalista in Milano ed ex conduttrice TV, ora responsabile della Comunicazione ed Immagine del Movimento NeoBorbonico e madrina del libro, a Giuseppe Ressa ideatore del testo e medico di famiglia in Roma, ad Alfonso Grasso ingegnere navale e meccanico in Genova, ad Alessandro Romano studioso della storia del brigantaggio in Latina, ad Antonio Pagano avvocato e direttore del periodico "Due Sicilie" in Vicenza, a Carmine Colacino ricercatore universitario e realizzatore del sito http://www.duesicilie.org in Potenza, Maria Russo professoressa in Firenze, a Maria Sarcinelli ed Andrea Moletta, medici analisti presso l'ospedale Niguarda di Milano e cultori della storia della musica napoletana del '700. Il presente libro e' testimonianza del fatto che quando si lavora per un progetto comune, ogni differenza caratteriale, di censo, di stile di vita, di "tendenza", viene ampiamente superata se non addirittura ignorata. L'intero testo sembra essere stato scritto da una sola persona e non da "nove teste" diverse. In questi termini, sembrerebbe addirittura risolta l'equazione dell'ottimo Carlo Alianello che pur riconoscendo ai Meridionali supreme doti di coraggio ed abnegazione, generosità e sacrificio, insisteva sull'unico e peggior difetto dei Meridionali: l'individualismo! Quell'individualismo che partecipo' per buona parte allo sfascio di una Nazione tanto civile. Mi piace ricordare che gli autori hanno volutamente adottato nella stesura dei personali contributi un linguaggio semplice e scorrevole, poiché il libro e' destinato a tutti quei Meridionali "non iniziati" alla vera storia della loro terra e che intendono comunque riappropriarsi delle loro "radici". E' esattamente la "bibbia del sudista", da tenere sul comodino e sul banco di scuola; è la storia da raccontare ai propri figli. E' un'iniezione di Orgoglio Meridionale.

Marina di Partenos

PRESENTAZIONE

a cura di
NICOLA ZITARA


Come collettività nazionale, siamo considerati il paese più subdolo del mondo. E, in effetti, lo siamo. Si tratta di un vizio antico, spesso sanzionato dagli stessi italiani, a cominciare dal padre Dante, elogiato, invece, da Machiavelli. Bisogna aggiungere, però, che la disistima degli altri popoli europei, se, un tempo, coinvolgeva i signori regionali, la curia romana, i soldati di ventura e il personale politico che si metteva al servizio di monarchi stranieri, toccava molto meno i meridionali. Al Sud, l'ipocrisia politica è un malcostume acquisito per contagio. La sua prima manifestazione ha una data ben precisa, i fatti del 1799, allorché la concezione borghese della proprietà piena e assoluta si scontrò con la vitale esigenza dei contadini a tenere in vita le antiche forme di godimento promiscuo della terra. La patriottica campagna denigratoria dell'uomo meridionale ebbe un corposo seguito al tempo della conquista del Sud. Cominciò Cesare Abba, seguirono Francesco De Sanctis e Pasquale Villari. Edmondo De Amicis e Renato Fucini vi aggiunsero un tocco di elegante scrittura, la testa bovina di Cesare Lombroso inquadrò il tema in termini scientifici. Poi, rinsaldatosi lo Stato unitario, la cosa passò in mano agli stessi meridionali, quelli reputati più illustri, come voscienza Giovanni Verga e il plurimiliardario don Benedetto Croce (fotte e chiagne). Dopo la seconda guerra mondiale, avendo letto Gramsci, il Principe di Lampedusa e tutta un'orda di maestri della penna e della macchina da presa trovarono che era pagante l'intingere nel brodo dell'arretratezza sudica. La corale e patriottica condanna dei sudici e acefali meridionali s'intrecciò - non proprio per caso - con la sistematica diffamazione dell'intera dinastia dei Borbone di Napoli, con calunnie confezionate nelle logge massoniche nazionali e forestiere. Probabilmente l'uso della facezia in un tema di sì grande portata farà rizzare il pelo alle anime belle, ma la cinica ed interessata ipocrisia che insozza gli ultimi due secoli di storia nazionale italiana merita non solo d'essere demistificata, ma anche irrisa e beffata. Nella prima metà del XX secolo la nuova classe dei capitalisti agrari, industriali e finanziari, oltre a mal sopportare il proletariato divoratore di pane - una terribile remora all'accumulazione di profitti - mostrava una grande avversione per quei re che si ostinavano a non cederle il potere. I re di Napoli erano fra i più coriacei, e non solo perché si autogiudicavano degli unti del Signore, ma anche perché erano convinti che le modernizzazioni non si dovessero obbligatoriamente accompagnare alla pauperizzazione capitalistica. Ma la calunnia è un venticello... Attraverso la stampa londinese e le missioni all'estero dei suoi leader mondiali, il partito dell'avvento dei capitasti al potere e della fame popolare ebbe l'abilità di caricare l'aggettivo borbonico di un segno fortemente negativo. Al buon esito della macchinazione, fece da supporto subliminale l'antagonismo tra il predace mondo anglosassone e la quieta civiltà mediterranea. Siccome il contenuto negativo, insufflato nell'aggettivo borbonico, faceva comodo ai a chi governava l'Italia unita in senso antimeridionale, le sue radici vennero rincalzate con insolita diligenza, cosicché l'ortica continua a provocare il prurito. Tuttora un'imposta particolarmente oppressiva viene definita borbonica. Una burocrazia poco funzionante viene raffigurata come borbonica. Un padrone antiquato ed esoso subisce identica censura e viene accusato di borbonismo. Ancora oggi i Borbone sono considerati la negazione di Dio, i nemici più fieri e accaniti della modernità, della civiltà, della democrazia politica, della giustizia sociale, del progresso culturale, della libertà di pensiero. Le loro carceri erano infami, e così pure la loro polizia; i loro ministri erano degli autentici carnefici; gli stessi re dei feroci buffoni. Per opposizione logica, i loro avversari godono della palma di patrioti, di persone che si prodigarono fino al martirio per la libertà del popolo meridionale e per la grandezza d'Italia; a loro viene attribuito il merito di aver salvato il Meridione, altrimenti condannato all'arretratezza, all'improduttività, all'ignoranza. Quanto detto salvataggio sia stato proficuo, è inutile dire: la cosa è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta, però, di una fotografia stampata su un cartoncino. La perdizione dei salvati dall'assunto naufragio non migliora minimamente, anzi ci sono del momenti in cui peggiora fortemente. Nell'analisi dei processi sociali attraverso cui il passato è divenuto questo presente infame (e non uno diverso), c'è qualcosa che resta ancora in ombra. Si tratta della ragione politica in forza della quale un castello di bugie regge da centoquarant'anni e tuttora allunga la sua ombra maligna sulla prosa giornalistica, sulla comunicazione mediatica e persino sui testi accademici. A ben vedere, la dinastia borbonica è ormai un ricordo vecchio di un secolo e mezzo. Nelle quotidianità, le sue tracce dovrebbero essere evaporate, come quelle dei Lorena, degli Estensi, del papa-re, dell'imperatore d'Austria. Allora perché anche gli attuali mali del Sud sono da imputare ai Borbone? Se Genova viene sommersa dall'acqua e dai detriti dei torrenti, a nessuno viene in mente di chiamare in causa Carlo Alberto o la Compagnia di San Giorgio. Se a Firenze accade la stessa cosa, nessuno si mette a sciorinare le responsabilità del granduca. Non è, per caso, che le colpe dei Borbone facciano il paio con quella mancanza di voglia di lavorare o con il familismo amorale per cui i meridionali siamo stati resi famosi in Italia? La spiegazione c'è, ma si ha un pressante interesse a tenerla nascosta. Essa consiste nel rovesciamento delle responsabilità, nella precostituzione di un alibi a favore del vero colpevole. Ormai vediamo una tale quantità di film gialli che ciascuno di noi può impancarsi a Sherlock Holmes. Garibaldi era ancora a Napoli, l'intrepido re del Regno di Sardegna non era ancora sceso attraverso le Marche e l'Abruzzo a prendere possesso della nuova conquista, che le classi proprietarie meridionali si rendevano conto d'avere commesso un errore grossolano, un atto controproducente, svendendo - immediatamente dopo la vittoria di Napoleone III sull'Austria - la dinastia borbonica e l'indipendenza del paese meridionale (qui stiamo attenti: non tanto ai Savoia, quanto) alla classe dirigente toscopadana. Dal canto loro i contadini, gli artigiani, gli sbandati dell'esercito borbonico, piccoli e grandi proprietari, sacerdoti, professionisti e massari delle province insorgevano contro l'invasore, accendendo una guerra per bande.
Io non so dire se chi aveva il potere a Torino si pose veramente il problema di lasciare il Sud conquistato. A riguardo si ha solo qualche dato, per esempio un articolo di Massimo d'Azeglio, nel quale l'ex primo ministro sabaudo propone una specie di referendum pro o contro l'unità, da svolgersi fra i meridionali. La proposta non ebbe eco presso la destra moderata, che era al governo, né tantomeno presso le varie correnti di sinistra, fortemente unitarie. Sta di fatto che, nonostante il malumore si diffondesse fra tutte le classi e nonostante la rivolta contadina andasse assumendo le dimensioni di una rivoluzione popolare, gli uomini che avevano la direzione del nuovo Stato non erano più nella condizione di tornare indietro e di restituire la libertà agli italiani del Sud. Il re, che adesso aveva contro non solo l'Austria, ma anche la Francia, non avrebbe potuto declinare a cuor leggero il trono di una potenza in fieri di dimensioni europee. Dal canto loro i comandi militari, che si prospettavano un grosso esercito e un'armata navale capace di fronteggiare sia la flotta austriaca sia, eventualmente, quella francese, sapevano che l'erario sabaudo non bastava alla bisogna. La base imponibile, passata, in meno di due anni, da cinque a ventitré milioni di contribuenti, non poteva venire revocata. L'apporto della Lombardia, della Toscana, dei Presidi e di gran parte dello Stato della Chiesa era stato divorato in un lampo dalla voragine debitoria che le iniziative cavouriane avevano prodotto nel bilancio sabaudo. Per giunta, il nuovo Stato si rivelava più costoso di tutti gli ex Stati conquistati, messi assieme. Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la banca ligure-piemontese. La montagna d'argento circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete metalliche, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di moneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino non tessevano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi. C'erano poi l'Inghilterra, contraria all'ipotesi che la Francia avesse altro spazio nel Mediterraneo, e non ultimi gli affaristi che badavano solo ad arricchirsi. Dal loro punto di vista, l'allargamento del Regno di Sardegna all'intera Italia era una manna: aveva fatto calare dal cielo, attraverso miracolosi processi, un mercato pari in ampiezza a quello britannico e a quello francese, ma tutto ancora da riempire di speculazioni. In tale clima, i progetti stradali e ferroviari saltavano fuori dai loro portafogli e dai portafogli dei mediatori sardi dei banchieri inglesi e francesi come i piccioni dal cappello di un prestigiatore. Insomma, nel quadro della politica liberista e allo stesso tempo espansionista (protezionismo dall'interno, la definì Francesco Ferrara) impostata, ed imposta, da Cavour, il paese meridionale, con i suoi nove milioni di abitanti, con il suo immenso risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva una gran risorsa. Invece il Sud borbonico era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale. La retorica unitaria, che copre interessi particolari, non deve trarci in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo. Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non aveva bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate. L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò del tutto una crescita e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali. Prima ancora che si riunisse il parlamento nazionale (marzo 1861), il paese meridionale mandava segnali ben visibili d'insofferenza. Chi vuol farsi un'idea dei sentimenti aleggianti nell'aria appena un mese e mezzo dopo la resa di Gaeta, legga l'intervento parlamentare del deputato napoletano Polsinelli - un antiborbonico che usciva del carcere - a proposito del dictat cavouriano in materia di tariffe doganali. E' un documento molto istruttivo! Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali, diversamente dalle favole sabaudiste raccontate dagli accademici circonfusi di alloro, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e incapaci a proiettarsi sul mercato internazionale, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). Niente di più sbagliato, dunque, che analizzare tale politica economica applicando canoni di valutazione coerenti con il liberismo, secondo la moda invalsa nelle nostre università, a cominciare da quella di Napoli. I nostrani scrittori di storia, quando affrontano il tema "Meridione borbonico", hanno il vezzo di lasciar intendere al lettore che la Torino del tempo non avesse niente da invidiare a Manchester e che Cavour fosse il fratello minore di lord Cobden, quando in effetti l'industria piemontese era alquanto indietro rispetto a quella napoletana e l'officina Ansaldo era finanziata da Cavour non meno di quanto lo fosse Pietrarsa da Ferdinando II (con la bella differenza, però, che questa era in condizione di realizzare prodotti che Genova ancora non si sognava). L'approccio borbonico alla modernizzazione era un dirigismo esplicito e non un dirigismo mascherato da liberalismo, come quello cavouriano che scaricava sul groppone delle classi diseredate il costo della modernizzazione. I Borbone non intendevano bruciare le tappe, creando parrocchie di ladri e tangentisti ante litteram come faceva il cosiddetto grande ministro. Il circuito economico legava le varie realtà regionali in modo perfetto, esemplare, come mai più si vide; la capitale assolveva compiutamente la sua funzione, assicurando al paese napoletano un prestigio di rilevanza mondiale, come mai più si vide; l'erario era ricco e i segni monetari in circolazione (le famose fedi di credito) accettati con fiducia e rispetto, come mai più si vide; la banca era incredibilmente solida, cosa di cui non solo le Due Sicilie, ma l'intera Italia ha perduto persino il ricordo. Il risparmio era interamente incorporato nell'argento circolante e in quello depositato presso il Banco. Partendo da così solide basi, all'occorrenza si sarebbe potuta emettere moneta bancaria per tre miliardi, senza dar luogo alterazioni nel cambio, cosa che invece turbò per più di trent'anni la vita italiana. Quella consistente ricchezza avrebbe permesso la crescita industriale del paese e il compimento delle opere stradali, ferroviarie e portuali quando, quarant'anni dopo, la navigazione a vela sarebbe stata scavalcata anche nel piccolo cabotaggio. Ma essa andò tutta a beneficio dei padani. Non si dice, forse, che l'uomo valente muore per mano del fetente? In cambio di quell'ingente esborso, il Sud ebbe un coloniale allungamento delle ferrovie padane, la cui costruzione dette patriotticamente luogo all'intrallazzo più grosso e clamoroso della storia nazionale (altro che tangentopoli!) e non ebbe altro scopo che permettere un veloce spostamento dell'esercito dal Nord al Sud. E non al fine di difendere le coste meridionali da un eventuale attacco dei turchi, che se ne stavano buoni buoni a casa loro, ma per il caso di altre insurrezioni dei cafoni meridionali. In verità la preoccupazione principale degli esecrati borboni stava nell'assicurare il vitto al popolo, nel suo paese. Dall'esperienza inglese avevano appreso che la corsa sfrenata allo sviluppo industriale avrebbe provocato ciò che poi si ebbe effettivamente: la fame, la disoccupazione di massa, la fuga in Argentina e negli Stati Uniti di otto milioni di uomini in età di lavoro, un terzo della popolazione del Sud, quella più capace di produrre. Nella loro visione politica i processi di modernizzazione andavano regolati, la modernità sarebbe venuta un passo dopo l'altro, con una crescita equilibrata della produttività del lavoro. E anche qui avevano ragione. Nonostante gli incredibili sacrifici imposti al popolo, i nostrani capitalisti furono piuttosto affaristi e speculatori che industriali. In Italia, di industria moderna e capace di proiettarsi sul mercato mondiale si può parlare solo a partire dalla Vespa, dalla Lambretta e dal frigorifero a buon prezzo, cioè dal 1950. E' storia vera: la gestazione dell'industria padana durò novant'anni e costò il completo azzeramento del Sud. Allorché, di fronte all'avanzata di Garibaldi, Francesco II non fuggì a riparasi fra le braccia dell'Austria, come avevano fatto i sovrani di Toscana e dei Ducati, ma si asserragliò a Gaeta con l'intento di sollevare i contadini, Cavour capì che l'oro inglese aveva esaurito le sue capacità corruttrici e procedette a trasformare il Sud in un campo di battaglia, in un paese soggiogato da uno Stato nemico. La tensione crebbe. La classe proprietaria stava tornando sui propri passi. Il Piemonte strinse le briglie. L'esercito d'occupazione mostrò i muscoli. Divide et impera, i toscopadani adottarono il motto che tanto piaceva a Metternik. Siccome il tutto doveva essere coperto da una decente maschera (anche perché Napoleone III si sentiva preso per il naso), fu richiamata in servizio attivo l'ipocrisia, arte antica degli italiani. L'esercito era stanziato al Sud per reprimere il moto di qualche migliaio di selvaggi. Ne nacque, infine, una di quelle congiure politico-culturali che Pietro Giannone aveva così fieramente denunziate: si dice bianco dove è nero, si disegna un bel profilo in modo che il brutto si presenti in bella forma, si mente metodicamente, si adorna di allori la disonestà morale, si mettono in trono i ladri e si espone l'onestà al pubblico ludibrio. Si chiusero gli occhi di fronte ai profittatori di regime, anzi li si celebrò come illustri e meritevoli di patrie glorie. I ministri più incompetenti ed esosi furono definiti dei salvatori della patria; un re inaffidabile, vizioso e sprecone fu messo in arcioni su cavalli di bronzo e glorificato come padre della patria; i traditori del loro popolo furono chiamati eroi nazionali. E ancora oggi, fra gli effluvi dell'incenso scolastico, degli autentici banditi accompagnano il povero meridionale nel suo passaggio da ragazzo a uomo. La storia d'Italia si regge su una menzogna sfacciata. La colpe dei Borbone sono l'alibi rivolto a coprire le colpe della classi dirigenti padane e, da ultimo, dell'intera nazione padana. Il disastro del Sud e le responsabilità dello Stato nazionale sono entrambi incommensurabili. Un paese di venti milioni di abitanti, di cui cinque milioni inoccupati a vita, appartiene allo stesso Stato in cui, fra trentasei milioni di abitanti, tutti quelli che intendono lavorare hanno un'occupazione e un alto reddito. Non credo che al mondo ci mai stata una nazione altrettanto doppia e altrettanto ridicola. E non esiste un termine più appropriato per definire la pagliacciata. In nessun paese al mondo il colonialismo interno è stato così duro e interminabile quanto in Italia. Esso non sarebbe stato (e non sarebbe) possibile altrimenti che rovesciando su altri la responsabilità del disastro. L'onta riversata a piene mani sui Borbone e l'onta riversata a piene mani sull'uomo meridionale non hanno altro scopo e funzione che assolvere i gruppi dominanti tosco-padani dalla storica responsabilità di aver imposto alla popolazione meridionale un ruolo identico a quello che legava gli Iloti a Sparta. Persino la tesi secondo cui l'unità d'Italia sarebbe nata dalla conquista regia puzza di falso lontano un miglio. Ciò perché la vera arma usata in quel gioco fu l'oro made in England. La verità vera è che lo Stato unitario altro non è che un'arlecchinata, un imbroglio, un falso più clamoroso della donazione di Costantino e dell'omaggio annuale di una giumenta bianca da parte del re di Napoli al pontefice romano, in segno di sottomissione feudale. Riportare a galla la verità, la storia effettiva, non è impresa facile in un ambiente in cui il falso è glorificato come patriottismo. Farla conoscere è ancora più arduo, perché la verità si scontra con una falsificazione istillata nella mente dei fanciulli insieme al catechismo. In quest'opera di recupero, che coinvolge animi generosi e autentici patrioti, gli autori non hanno messo soltanto la passione che il lettore vede zampillare da ogni frase, ma alquanta sagacia; la sagacia di chi vuole comunicare una fede, e che pertanto scrive per farsi leggere. Nel libro, le informazioni arrivano come le raffiche di una mitragliatrice che non s'inceppa. Bastano le prime venti pagine per stendere l'avversario. E' vendetta, rivalsa, giustizia sommaria? No, è la dignità di patria nata nel cuore di persone coraggiose. Ed è un'arma terribilmente efficace, in quanto arma a sua volta il cuore degli altri.


Nicola Zitara

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