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CARABINIERI NEL NOVECENTO ITALIANO

di:Vincenzo Pezzolet

da: http://www.carabinieri.it

Riproponiamo, con questa nuova serie, il cammino dell’Arma nel secolo appena trascorso. Un cammino complesso, a diretto contatto con il sofferto sviluppo della storia patria, ma che vede l’Istituzione sempre in primo piano, cosciente dello spirito del tempo e dell’importanza del suo ruolo nel quotidiano rapporto con la gente. Un’Arma "unica al mondo", grazie ai suoi valori ed ideali, sempre al di sopra delle parti e al servizio del popolo.

1861-1900
L’alba del secolo

Con il conferimento a Vittorio Emanuele II del titolo di "Re d’Italia", il 18 febbraio 1861 nasceva lo Stato italiano unitario. Quel giomo il nuovo Stato riceveva la proclamazione ufficiale da una Camera eletta da appena l’1,9 per cento della popolazione, a sua volta caratterizzata da un tasso di analfabetismo medio del 75 per cento. Tutto era avvenuto in fretta, praticamente in appena otto anni, da quando, nell’ottobre del 1853, Cavour aveva creato quel "grande ministero" che univa in un unico blocco i liberali del centro-destra e quelli del centro-sinistra, isolando le destre retrive e le sinistre chiassose e frantumate. Blocco che, peraltro, costituiva un ostacolo al re il quale, in base allo Statuto, riteneva di essere il titolare del diritto di nomina del Governo. Ma la fretta aveva bruciato "l’idea" di Cavour di tre regni: uno dell’Alta Italia (Lombardo-Veneto), uno dell’Italia Centrale, con la Toscana e il rimanente territorio pontificio, e uno dell’Italia Meridionale, dove ai Borboni poteva subentrare Luciano Murat; al Papa la Sovranità su Roma e il territorio circostante. Un’idea quasi realizzata nel 1859 e bruciata dall’iniziativa garibaldina e del Partito d’Azione mazziniano, che aveva prodotto tensioni interne (la ripresa delle correnti "estreme", e dei federalisti) e internazionali (il possibile intervento della Francia o dell’Austria). Nasceva così uno Stato caratterizzato da incognite e dilemmi che in seguito gli storici avrebbero definito "questioni".

LA QUESTIONE ROMANA

L’espressione indica il Conflitto tra la Chiesa e lo Stato Sardo, prima, durante e dopo il periodo risorgimentale. La Chiesa diffidava della cultura di "alcune élites piemontesi in odore di giansenismo, giacobinismo e massoneria"; sentiva il laicismo come un diretto attacco al "tradizionalismo" cattolico, da cui l’opposizione a ogni legge che potesse intaccare le aree che la Chiesa considerava di sua esclusiva competenza (ad esempio l’istruzione). All’inizio del periodo risorgimentale operava all’interno della stessa Chiesa la corrente del "cattolicesimo liberale": Pio IX venne acclamato proprio come "Papa liberale". Nel decennio 1860-1870 si manifestò però un irrigidimento dei rapporti tra forze risorgimentali e Chiesa, che impedì lo sviluppo dei cosiddetti "cattolici conciliatoristi", i quali puntavano alla fondazione di un partito cattolico conservatore, che non agisse solo in vista di una conciliazione, ma entrasse nella politica nazionale come polo di compensazione e di risoluzione delle tensioni tra il nascente stato unitario e la Chiesa. Il trauma dell’occupazione militare di Roma fece fallire tale progetto e il cattolicesimo intransigente riprese il sopravvento. Pio IX, che già nel 1864, in appendice all’enciclica Quanta Cura, aveva ribadito l’opposizione della Chiesa al liberalismo e alle nuove correnti di pensiero, emana nel novembre del 1870 l’enciclica Respicientes, nella quale, dichiarando ingiusta, violenta e nulla l’occupazione italiana dei territori della Santa Sede, dnuncia la condizione di cattività del pontefice e scomunica il re d’Italia e tutti coloro che avevano perpetrato l’usurpazione dello Stato Pontificio. Dal 1870 in poi, il Papa si considererà addirittura "prigioniero" e, per "l’occupazione" italiana di Roma, impossibilitato a esercitare il mandato spirituale. Nel settembre 1874 la sacra penitenziarie della Chiesa cattolica emanava il decreto Non Expedit, con il quale proibiva ai cattolici di partecipare alle elezioni e alla vita politica. È con l’enciclica Immortale Dei (1885) di Leone XIII che si avvia il processo di reinserimento dei cattolici nella vita politica, ma limitatamente a singole situazioni, ritenute dalla Chiesa opportune. Bisognerà attendere la Rerum Novarum (1889) perché il "cattolicesimo sociale" possa fondare la propria azione politica nella realtà italiana. Ma già in questi anni cominciano a manifestarsi quelle contrapposizioni che caratterizzeranno i movimenti cattolici del Novecento In occasione del XVI Congresso di Ferrara (1899) prevalsero gli "intransigenti" malgrado l’insofferenza degli aderenti al "movimento democratico cristiano" i quali, successivamente, creeranno una propria organizzazione (i Fasci Democratici Cristiani) con l’obiettivo di fondare un vero e proprio partito autonomo dalla Gerarchia. Tale movimento, non solo concentrava la sua attenzione all’area popolare ma dichiarava di voler appoggiare persino alcune battaglie dell’estrema sinistra (da cui la futura denominazione di "cattocomunismi" per la loro simpatia verso il primitivo "comunismo cristiano"). Per impedire tale progetto, nel 1901 Leone XIII emanerà l’enciclica Graves de Comuni.

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Tale questione va considerata in un suo duplice ordine di cause: l’arretratezza e l’interazione tra criminalità (mafie) e poteri "legali". I fatti di Bronte, con la dura repressione di Bixio e l’ingresso di Garibaldi a Napoli scortato dai capi camorra con la connivenza di Liborio Romano, testimoniavano sia l’arretratezza socio-economica sia l’incertezza sostanziale in merito ai concetti di legalità e illegalità. La questione – ancora oggi uno dei principali problemi da risolvere nel quadro della modernizzazione e dello sviluppo dell’intera nazione –, si presentava con peculiarità allarmanti: nel 1961 il reddito pro capite del Nord e quello del Sud segnavano uno scarto a carico del Sud di circa il 15-20 per cento. Nella produzione agricola il divario era del 20 per cento a favore del Nord. Nell’industria, l’inferiorità del meridione era caratterizzata dal modesto livello tecnologico oltre che dallo scarso sviluppo. Erano infine quasi assenti le interazioni tra città e campagna per la mancanza di un’adeguata rete di comunicazione e il predominio del latifondo, che dava all’economia una funzione pressoché esclusiva di autoconsumo. Il mercato delle città era decisamente orientato verso l’estero. Senza parlare del livello di analfabetismo, con punte del 90 per cento, e dell’infimo grado di scolarità. Tale situazione di arretratezza è stata studiata da due diverse scuole di pensiero. La prima, che affonda le sue radici nelle critiche formulate dai repubblicani, democratici e giacobini del Partito d’Azione, definisce il Risorgimento come una "conquista regia", con la conseguenza di un Sud trattato come "colonia" (leva obbligatoria, aumento delle imposte, repressione feroce di ogni tipo di insorgenza, mancata distribuzione delle terre ai contadini). Gramsci approfondirà questa tesi inquadrandola nell’ambito materialistico dei rapporti sociali, segnalando "il mancato coinvolgimento delle masse contadine nel processo risorgimentale", e accusando il Partito d’Azione di "non aver saputo realizzare la saldatura fra borghesia progressista e contadini". La seconda, fondata sulla revisione dello storico Rosario Romeo, non concorda con l’ipotesi secondo la quale la rivoluzione agraria avrebbe potuto favorire lo sviluppo del Sud. Infatti, la parcellizzazione della produzione avrebbe ritardato l’ampliamento del mercato del lavoro salariato e dei prodotti dell’industria. Si riteneva che un Paese deciso a imboccare la via dell’industrializzazione avrebbe anzitutto dovuto promuovere un processo di accumulo dei capitali indispensabili alla realizzazione delle strutture e delle infrastrutture. Purtroppo, anziché affrontare tali arretratezze sociali, il nuovo Stato fu obbligato a fronteggiare quella rivolta armata definita brigantaggio. Nell’aprile 1861 si accende improvvisa la prima grande rivolta armata, prima in Basilicata poi nelle altre province del Sud. Centinaia di bande misero in pericolo l’ Autorità del nuovo Stato il quale, sbagliando, intervenne in forma esclusivamente militare. I soldati impiegati nel 1861 salirono da 15mila a 50mila, per arrivare a 116mila nel 1864. Secondo alcuni dati ufficiali, dal 1861 al 1865 i rivoltosi uccisi in combattimento o fucilati furono 5.212, oltre 5.000 gli arrestati. La "questione dell’insorgenza" è stata sempre tenuta nell’ombra dalla storiografia risorgimentale. Nascoste o sottovalutate le gravi colpe dell’invasore piemontese. Prima fra tutte la famigerata azione dell’assedio di Gaeta, nella cui circostanza i soldati borbonici si comportarono da eroi: per oltre tre mesi, in condizioni disumane, sostennero l’assalto delle granate piemontesi. Ma anziché avere l’onore delle armi, i soldati borbonici furono inviati nei campi di concentramento di Finestrelle e San Maurizio Canavese. Per i disagi e le vessazioni morirono a migliaia. Si fece quindi ricorso alla "Legge Pica" che sospendeva le libertà nel Mezzogiorno. Tutto il potere veniva consegnato nelle mani dei militari con la possibilità per le "Giunte provinciali" di condannare, su base di labili indizi, al domicilio coatto. In tutta questa tragica confusione occorre anche tener conto del tentativo garibaldino di attaccare Roma (agosto 1862): lo scontro con le truppe del colonnello Pallavicini sancirono la frattura tra le due anime del Risorgimento: quella repubblicana e democratica e quella liberale-moderata e monarchica.

LA QUESTIONE CRIMINALE

L’epopea risorgimentale aveva fatto immaginare un meridione libero dall’occupazione straniera e, finalmente, libero di svilupparsi. La situazione successiva smentì le attese della vigilia. I baroni siciliani volevano mantenere l’antico ordine dei privilegi e Garibaldi era la loro speranza, certi che, una volta liquidato lo Stato di Napoli, i piemontesi non potessero dare che minimi fastidi, superabili con un patto tra i potentati siciliani e il re piemontese. Tutte le contraddizioni irrisolte del Risorgimento esplosero, il movimento unitario nazionale sprigionò forze popolari e le speranze di una riforma agraria si scontrarono con gli interessi di quanti avevano appoggiato Garibaldi. Lo Stato unitario aveva accentuato le contraddizioni, cercando di introdurre nell’isola il rigore della mentalità piemontese e, attraverso particolari leggi, aveva inaugurato una fase di modernizzazione che appariva come un’invasione straniera caratterizzata da soprusi e oppressione. Venne inasprita la pressione fiscale e furono smobilizzati i vecchi uffici pubblici, sostituiti da nuovi con personale settentrionale; vennero liquidati ordini religiosi e fu introdotta la leva militare obbligatoria. Centinaia di giovani si diedero alla macchia, creando o alimentando nelle campagne le bande di briganti; a causa dell’inasprimento dell’imposizione tributaria, le misere condizioni di vita fecero aumentare ovunque il numero dei reati: dai furti generici all’abigeato, dalle estorsioni ai sequestri, con complementare corredo di violenze. A loro volta, gli organi dello Stato, per fronteggiare una situazione ai limiti dell’ingovernabilità, fecero ricorso a dure misure repressive, inaugurando un lungo periodo di governo militare e alimentando nei siciliani il convincimento di essere sottoposti a una dominazione straniera. I metodi liberali venivano sacrificati e del resto non potevano essere in grado di fronteggiare situazioni al limite del terrorismo: come la "Notte dei pugnalatori" del 4 ottobre 1862, quando, senza motivo apparente, furono assassinate 12 persone. Né mancarono delitti eccellenti: l’ex operaio Giovanni Corrao, promosso generale durante la spedizione dei Mille, fu ucciso nella serata del 3 agosto l863, nelle campagne di Monreale, da alcuni assassini travestiti da carabinieri. Infine si andavano saldando intorno ad esponenti di fede garibaldina oscure ed eterogenee forze, che nel settembre del 1866 fecero esplodere a Palermo la "Rivolta del sette e mezzo" (dai giorni di durata) repressa dall’esercito. Ma mentre a Palermo la situazione poteva definirsi sotto controllo, nelle campagne le bande operavano indisturbate. A titolo di esempio, possono esser ricordate le bande di Tortomasi, Torretta, Sparacino, Sajeva, Playa, Lo Monte, Botindari e Alfano. La mafia sosteneva la strategia politica della classe dirigente siciliana, che di volta in volta si alleava con i briganti o con lo Stato. La situazione mutò quando, alle elezioni del 1876, la sinistra andò al potere anche grazie all’appoggio della Sicilia, ove su 48 deputati ne furono eletti 43 della sinistra. La più evidente conseguenza di un nuovo patto instaurato può essere trovata nella relazione della commissione parlamentare d’inchiesta del l875, presieduta dall’onorevole Borsani. La commissione concludeva che la mafia era soltanto un fenomeno delinquenziale, retaggio dei tempi borbonici, che aveva come vittime i ceti benestanti ma che era opportuno non sopravvalutare, come in passato aveva fatto qualche ansioso funzionario. Da questo momento comincia quel fenomeno di occultamento tipico del sistema mafioso. Nel gennaio del 1877 il ministro dell’Interno Giovanni Nicotera inviò a Palermo, con poteri eccezionali, il prefetto Antonio Malusardi, integerrimo funzionario piemontese. L’uomo, grazie anche all’utilizzo di metodi poco ortodossi, in meno di un anno riuscì a far cadere la rete di protezione di cui fruiva il brigantaggio, e in centinaia (tra cui Leone, Salpietra, Passafiume, Rocca e Rinaldi) furono arrestati e processati. Fin dall’inizio fu evidente che quel che era venuto a mancare al brigantaggio era la protezione della mafia, e ciò fu ancora più chiaro quando il Malusardi, tentando di spingersi oltre la bassa manovalanza, fu fermato e costretto a dimettersi da Crispi, subentrato nel frattempo al ministro Nicotera. In Campania la situazione non era certamente differente. Per la liberazione di Napoli, Liborio Romano era persino arrivato a chiedere l’appoggio dei camorristi, organizzati nella Bella Società Riformata. Il nuovo Stato prese coscienza con lentezza della grave minaccia di quel tipo di criminalità organizzata.

LA QUESTIONE AFFARI E POLITICA

Nasce con l’Unità d’Italia, a partire dal progetto della costruzione delle ferrovie del Sud "liberato", la "questione affari e politica", che vide coinvolti parlamentari ed esponenti del mondo della finanza. La "questione ferroviaria", con la relativa Commissione parlamentare d’inchiesta, avrà il merito storico (si fa per dire) di portare lo scompiglio nel già precario equilibrio delle forze parlamentari, con la nascita delle famigerate "consorterie" della Destra e della Sinistra nelle diverse regioni del Regno. E una serie di ribaltoni caratterizzeranno i governi risorgimentali, causa la "trasmigrazione" delle "consorterie" da un Presidente di turno all’altro. Fra i numerosi scandali possono essere menzionati quelli riguardanti la "Società anonima per la vendita dei beni del Regno d’Italia" (1864), la "Regia Cointeressata", cioè lo scandalo della concessione del monopolio dei tabacchi (1868) e quello della Banca Romana (1892), che, oltre a coinvolgere politici di primo piano, infangò lo stesso re Umberto. Tutte queste situazioni portarono alla luce un aspetto che caratterizzerà anche nel Novecento le vicende italiane: il costo della politica.

LA QUESTIONE IRREDENTISMO

È facilmente individuabile, nel Risorgimento, quell’idea spirituale e volontaristica che molta parte avrà nei movimenti nazionalistici del Novecento. Lo spiritualismo di Mazzini si espresse prima e dopo il 1860 nella "idea" di Roma, con i suoi valori di virtù repubblicana, polo di riferimento per la creazione della Nazione attraverso l’insurrezione popolare. Da qui la necessità di "educare" il popolo, non solo al "diritto" di diventare Nazione ma anche al "dovere" che l’Italia, in quanto erede di Roma, aveva nei confronti dell’umanità. Anche Gioberti, nel suo Primato morale e civile degli italiani concepiva l’idea di una missione per la nascente Nazione che guardasse "oltre" i confini. Peraltro, le aspirazioni unitarie del 1861 riguardavano terre considerate etnicamente e geograficamente appartenenti all’Italia, come la Venezia Tridentina, il Canton Ticino, il Friuli austriaco, Trieste e l’Istria, le città dalmate (Zara e Spalato ). Il problema delle terre irredente non può, quindi, essere coevo al nazionalismo interventista che determinò l’ingresso dell’Italia nella Grande guerra prima e nel movimento fascista poi; il problema delle terre irredente era vivamente sentito dall’ala radicale e repubblicana della sinistra storica. Nel maggio 1877, il repubblicano Matteo Renato Imbriani fonderà l’Associazione per l’Italia Irredenta al fine di rivendicare l’italianità di Trento e Trieste: da questo momento il termine "irredentismo" avrà un ruolo fondamentale nella politica italiana. Il movimento non si limiterà alla teoria: il 2 agosto 1882, a Trieste, l’esplosione di una bomba che doveva uccidere l’arciduca austriaco Carlo Ludovico provocherà diversi morti e feriti. Nello stesso anno, Guglielmo Oberdan sarà arrestato e condannato a morte con l’accusa di voler attentare alla vita dell’imperatore per "irredentismo". Il 20 novembre 1988 la "Società pro Patria", sorta a Rovereto nel 1885 allo scopo di difendere la nazionalità, la lingua e la civiltà italica di fronte alle prevaricazioni tedesche e slave, terrà a Trieste il suo II Congresso.

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