Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie avvenuta alla fine del 1860 le masse popolari dell’Italia meridionale si ritrovarono a vivere nelle misere condizioni sociali ed economiche di sempre. In regioni dove dominavano ancora il baronaggio e il latifondo, particolarmente grave si presentava la situazione dei contadini e dei braccianti che costituivano la maggioranza della popolazione: questi erano costretti a lavorare per un padrone autoritario e orgoglioso, sfruttati in modo brutale, in condizioni di arretratezza e di miseria che erano frutto della povertà del suolo, della lontananza dall’Europa industriale e di un malgoverno secolare. Ma nell’animo di quelle popolazioni l’odio per l’oppressione e lo sfruttamento fu reso più aspro dalle delusioni per il fallimento di promesse di benefiche riforme e di una grande speranza di rinascita. In una situazione di grave malessere sociale ed economico s’innestarono dei fatti politici, come lo scioglimento, da parte di Garibaldi, dell’esercito napoletano che tolse agli ex soldati di Francesco II ingiuriati e derisi, ogni possibilità di reinserirsi nella vita civile e li rese disponibili a qualsiasi avventura; il licenziamento, da parte del Governo italiano, dell’esercito garibaldino che nel frattempo si era ingrossato con l’accorrere di delinquenti comuni, falsi liberali, evasi dalle carceri, mendicanti, vagabondi e montanari affamati che speravano di ottenere il condono e l’assunzione in servizio regolare (provvedimento in se stesso onesto che fece, però, aumentare il numero degli sbandati e il vuoto delle forze militari); l’aggravamento delle imposte e l’estensione anche al Sud della coscrizione militare obbligatoria che allontano dal lavoro molti giovani e peggioro le condizioni economiche delle famiglie. Molti meridionali si convinsero sempre più che il nuovo Governo non sapeva comprendere le necessità del Mezzogiorno. Frattanto lo spodestato Francesco II, da Gaeta prima e dopo la caduta di questa, dal suo rifugio romano, risolse di adoperare gli scontenti meridionali per una guerriglia contro l’usurpatore piemontese, cercò di organizzarli per riconquistare il suo regno, con l’appoggio dello Stato Pontificio ostile all’unita nazionale, che forniva armi e denaro. I "cafoni" aderirono e divampò cosi il brigantaggio, un male antico affidato già all’iniziativa di pastori e contadini affamati che si davano alla macchia per assalire e spogliare la gente, saccheggiare, sequestrare e imporre taglie, e che ora assumeva carattere politico. Le bande dei fuorilegge divennero numerosissime nell’Abruzzo, nel Molise, nella Terra di Lavoro, nel Matese, in Capitanata, in Basilicata, in Calabria; furono formate da uomini decisi, rotti ad ogni avversità, guidate da capi famosi per la loro audacia (fra i tanti il Crocco, ex pastore e disertore, di cui abbiamo recentemente rivissuto le gesta nello sceneggiato televisivo "L’eredita della priora"). Il brigantaggio fu considerato dal Governo italiano un’esplosione di delinquenza e di insubordinazione politica e venne perciò combattuto con estrema energia, con l’intervento di veri eserciti di soldati e di carabinieri ed ebbe il carattere, dal 1861 al 1870, di una vera guerra civile, con migliaia di morti fra le due parti combattenti e fra i cittadini, fucilazioni in massa, deportazioni, distruzioni di interi paesi e incendi di foreste. Anche la zona vesuviana ebbe il suo bravo brigante. Antonio Cozzolino nativo di Boscotrecase, detto Pilone per la sua villosità e per la folta barba, fu prima scalpellino della pietra vesuviana. Fu arrestato una prima volta a causa di alcuni dissidi avuti col comandante della guardia urbana di Boscotrecase per porto d’armi abusivo, poi liberato. Nel 1860 in Sicilia, quale soldato dell’esercito napoletano, combatté contro i Mille di Garibaldi e compi un atto di valore col prendere in battaglia una bandiera "piemontese" che venne esposta poi nella Reggia di Portici. Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie si fece brigante di Sua Maestà borbonica e con la sua banda infesto tutta la zona vesuviana, fra Ottaviano, Boscotrecase, Boscoreale, Torre Annunziata e Torre del Greco. Aveva ottima conoscenza del Vesuvio e delle numerose cavità laviche che fungevano da nascondiglio e per parecchio tempo riuscì a nascondersi e a non farsi prendere dalle forze dell’ordine. Nel 1861, in piazza Annunziatella a Boscotrecase, assali e sequestro in pieno giorno il marchese Avitabile, direttore del Banco di Napoli, che aveva una villa poco distante dai Camaldoli e passava di li in carrozza; fece poi sapere alla fami- glia che questi sarebbe stato ucciso se entro tre giorni non gli fosse stata versata la somma di 20 mila ducati tutti in oro; indico il modo con cui la persona incaricata di portare il danaro avrebbe potuto raggiungere lui, cioè Pilone. La famiglia Avitabile non era in grado di mettere insieme tutto ad un tratto la somma e ricorse a parenti ed amici. Un amico ebbe l’incarico di portare il denaro richiesto nel luogo indicato, quasi sulla cima del Vesuvio e pensando di far risparmiare agli Avitabile parte di esso, nascose 10 mila ducati e si presento al brigante. Trovo questi con tre o quattro dei suoi che lo aspettava: all’offerta del venuto, il Pilone si ritiro in disparte per deliberare coi suoi, poi torno dicendo che si accontentava. Stese a terra il mantello e il denaro fu contato. Poco dopo comparve il marchese. "Potete andare - disse Pilone - e perdonateci". Il marchese e l’amico erano già lontani quando furono richiamati, con sommo sgomento, da uno dei briganti. "Ecco il vostro fucile - disse questi al marchese - ve lo riporto acciocché non diciate che siamo dei ladri". Lo stesso Pilone assalì, sulla strada che porta al Vesuvio dal versante di Boscotrecase, il corteo con l’allora principe Umberto di Savoia il quale non venne maltrattato, ma fu spogliato di tutto ciò che aveva e rimandato indietro. Occupò poi, per stabilirvi il suo quartier generale, la Villa delle Ginestre in Torre del Greco, che apparteneva ai Ferrigni, nobile famiglia napoletana che aveva ospitato li il poeta Leopardi fra il 1836 e il 1837. Enrichetta Carafa Capecelatro, che ebbe come nonna materna Enrichetta Ranieri sorella di Antonio che fu amico del poeta recanatese e come nonno materno Giuseppe Ferrigni, proprietario della villa torrese, in un libretto che fa la storia della stessa villa, racconta che il brigante minaccio con le pistole il guardiano e la moglie, costringendoli ad aprire la casa; che la banda, venuta a sapere poi dell’avvicinarsi della gendarmeria, si allontanò e che i due guardiani furono arrestati per favoreggiamento e condannati a dieci anni di carcere che scontarono. "Ricordo - scrive la Carafa dopo molti anni - di aver visto in casa di mia nonna i due vecchietti usciti dal carcere. Io, bambina, li guardavo con un misto di curiosità e di terrore. L’uomo non parlava, ma la donna, una vecchietta arzilla, col viso grinzoso come una mela d’inverno, raccontava vivacemente la loro terribile avventura. ’Bisogna compatirci, diceva; se li aveste veduti quei diavoli! Da una mano avevano la pistola e dall’altra una borsa piena d’oro’. Dopo molti combattimenti contro i "piemontesi", rapimenti ed imprese, Pilone fu costretto a lasciare il napoletano e a rifugiarsi nello Stato Pontificio dove si recavano tutti quei briganti che cercavano un luogo sicuro in caso di pericolo. Qui, pero, fu incarcerato. Riuscito ad evadere, fu ospitato da Francesco II nel palazzo Farnese e rimandato nel 1869 a Napoli perché riprendesse la sua criminosa attività. Tradito da un compagno, il 14 ottobre 1870, a Napoli cadde in un agguato tesogli dalla polizia napoletana. Scontratosi con gli agenti nei pressi dell’Orto Botanico in via Foria, tenne testa coraggiosamente agli assalitori; ma colpito da una pugnalata sotto il cuore da un appuntato di P.S., tenendosi la mano sinistra sulla ferita, cerco con la destra armata di pugnale di colpire il suo feritore ed una guardia accorsa, Ridotto all’impotenza, fu caricato su una carrozza e trasportato in Questura ove spiro poco dopo. Intorno al collo gli venne trovato un abitino (un sacchettino di stoffa che la gente del popolo porta per devozione con qualche reliquia) dentro il quale furono trovate immagini di santi; in tasca aveva un pezzetto di carta sul quale fu scritto "Antonio Cozzolino io sono figlio della Madonna Addolorata perché in cielo ce il signore che più di esso ce il padrone". Nel portafogli aveva 40 lire e un abicì seguito dalla dottrina cristiana (Pilone era devoto a modo suo). Finita nel vicolo cieco della violenza fine a se stessa, la guerra dei briganti era fatalmente destinata alla sconfitta, anche perché la protesta si esplicava in senso contrario alla storia, cioè a favore dell’assolutismo borbonico e contro gli istituti liberali e l’idea unitaria che avevano ormai trionfato in Italia. |