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PICERNO E L'UNITA' D'ITALIA |
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di: Giuseppina Caivano Bianchini |
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da: http://www.basilicata.cc/lucania/picerno/caivano/26.htm |
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Molto vivi furono i contrasti tra i sostenitori del Governo borbonico e quelli dell'Unificazione al Regno d'Italia. Le famiglie benestanti erano radicalmente borboniche e difficilmente avrebbero accettato un mutamento che potesse in qualche modo danneggiare la loro condizione di privilegiati: per difendere i propri interessi fomentavano il proliferare dei briganti, fornendo loro munizioni e viveri. I briganti avevano già da tempo creato gravi condizioni di disagio tra la popolazione agricola che svolgeva il proprio lavoro in un clima di terrore ed era costretta a recarsi ai campi, armata di "mazza e piroccola". La zona del Marmo ne era considerata il covo essendovi stati avvistati, ripetutamente numerosi gruppi di gente armata, sicchè già nel 1817 era stato proposto di disboscarne buona parte. Ci vollero però alcuni anni prima che tale proposta avesse attuazione, poichè si temeva che il disboscamento causasse "penuria di combustibile ai Comuni circonvicini" (160) e solo nel 1822 si provvide ad un parziale disboscamento della zona. Tale provvedimento non aveva estirpato il male; anzi nel periodo che precedette l'Unità d'Italia, e precisamente tra il 1848 e il 1860, i benestanti, per proteggersi contro le trasformazioni che il cammino verso l'Unità stava portando, avevano rafforzato il brigantaggio. Nè i contadini picernesi si azzardavano a fare vendette dei danni arrecati dalle bande brigantesche, temendo il peggio, e precisamente che venissero bruciate le messi quando queste erano pronte per il raccolto. Sopratutto il commercio di grano e vino con Ruoti era gravemente danneggiato; e si giunse ad un grado di paura tale che, qualunque forestiero, che attraversava il territorio picernese, era guardato con sospetto. Le condizioni di vita in cui versava la popolazione erano dolorosissime: uomini, donne, bambini erano costretti a vivere e a dormire in un unico ambiente, insieme alle bestie, compagne delle loro fatiche, mentre sotto il lurido giaciglio, spesso unico per tutti, trovavano posto legna, fascine, damigiane e provviste indispensabili alla vita quotidiana. Il cibo era scarso, e perfino il pane, confezionato prevalentemente con farina di granoturco, di vecce, di orzo, di legumi e biade varie, scarseggiava. Molto diffuse erano le focacce di granoni, dette "furcuat'"; la polenta della stessa farina costituiva il piatto principale del pranzo quotidiano (161). Numerosi erano i pezzenti che andavano di casa in casa a pitoccare un tozzo di pane che dividevano poi con la numerosa prole, vittima puranche delle più diffuse malattie dell'infanzia. A tal proposito si riporta lo stralcio della lettera del 21 settembre 1846 dell'Intendente di Basilicata diretta al Sindaco ed ai Capi Urbani di Picerno (162). "Signori. Nella fausta ricorrenza della venuta di S. Maestà il Re, nostro Signore, che tra breve onorerà la sua Real presenza, la nostra Provincia in occasione dei soliti esercizi istruttori delle Reali Truppe, io reputo conveniente di doversi impedire, che cenciosi, accattoni e pitoccanti si affollassero in questo capoluogo, dove non solo non vi sarebbe luogo da poterli dare ricetto, ma non farebbero altro che cagionare confusione Non intendo affatto di evitare a chicchessia il venire ad umiliare delle suppliche all'Augusto Sovrano, ma desidero vivamente di evitare unione di gente pitoccante che potrebbe cagionare disgusto tra la pubblica gioia in sì lieta ricorrenza. Elleno quindi dovrebbero far opera che siffatta classe fosse occupata in qualche pubblico lavoro. Non può mancare qualche accomodo di strada interna o esterna oppure di qualche altra opera pubblica dove tenerla impiegata e in ultimo per i storpi, vecchi, ed invalidi; ecc. ecc. anche qualche discreto soccorso pei fondi di beneficanza, ed in mancanza di questi sulle imprevedute del Comune. In questo modo si provvederebbe utilmente alla loro assistenza, e si può conseguire di non farli qui accedere senz'ombra di impedimento qualunque. "Son sicuro che si impegneranno ad assecondare le mie premure". La povera gente portava ai piedi "zambitti", o scarponi fatti con un sol pezzo di cuoio ordinario o cotica del proprio maiale allacciato ai piedi per mezzo di funicelle, "curgiol'", confezionate dagli stessi pastori con peli di capra, mentre le donne facevano grande uso di zoccoli di legno; le calze erano sostituite da "pezze" che avvolgevano le gambe ed erano tenute strette dagli stessi lacci che fermavano "li zambitti o scarponi". "Porzoni" confezionati dagli stessi pastori con pelli di pecore o di capre, con o senza maniche erano riparo al pastore e al contadino in genere durante il giorno, e guanciale e materasso durante la notte, mentre il capo veniva ricoperto da un cappuccio o da un turbante, raramente da un cappello, che era riservato per i giorni di festa solenne e per il giorno delle nozze. Gli uomini usavano portare mantelli a ruota di panno casareccio generalmente del colore naturale della lana delle proprie pecore. A rendere più dura la vita contribuivano i raccolti scarsi e le imposizioni di tasse molto gravose. Per la riscossione spesso il Governo si serviva di messi, detti comunemente "piantoni". Questi rimanevano in casa del contribuente dal quale pretendevano vitto ed alloggio fino a quando non avessero riscosso il tributo secondo i termini di legge. Diffusi erano i "censi" che gravavano su vari appezzamenti di terreni e che il lavoratore dei campi doveva pagare alla chiesa, allo Stato, ai feudatari, ai quali spesso venivano anche concessi beni in natura e prestazioni di manodopera gratuita. Per affrancarsi dal censo il contadino era costretto a sottoporsi a sacrifici inauditi. La mancanza di acqua potabile nelle misere e sconnesse catapecchie causava una larga diffusione delle malattie e l'inesistenza di servizi igienici, pubblici e privati, ne aggravava la situazione. L'analfabetismo non rendeva possibile un risveglio della popolazione ed un'apertura consapevole verso nuovi ideali politici e nazionali. Se i benestanti sostenevano il governo borbonico per conservare una condizione di privilegio, i contadini e la parte lavorativa del paese si mostravano incerti di fronte alle trasformazioni che stavano avvenendo, poichè, abituati alle sofferenze ed alle privazioni, temevano, nel mutamento del governo, un ulteriore aggravarsi della loro triste situazione. I giovani erano i più aperti certamente alle speranze, che sopratutto la spedizione garibaldina aveva fatto nascere in tutta l'Italia Meridionale e, quando giunse notizia che Potenza stava per essere liberata dal governo borbonico, le indecisioni e i timori lasciarono il posto all'entusiasmo ed al coraggio. Una notizia che è entrata nella storia di Picerno, ma che non ha conferma in alcun documento scritto che io sia riuscito a reperire, riguarda un breve soggiorno in questo paese di Garibaldi. Egli giunto qui sotto le spoglie di un venditore di ortaggi, avrebbe trovato ospitalità in un'abitazione oggi adibita a "bar" e precisamente quello di Felice Capece in piazza Plebiscito. La sua presenza avrebbe contribuito a rendere favorevoli molti picernesi all'Unificazione al Regno d'Italia. E, come da altri Comuni lucani, un drappello di uomini, guidati da Nicola Giustiniano Capece, mosse da Picerno alla volta di Potenza per offrire il proprio contributo all'Unità d'Italia. Era la sera del 18 agosto del 1860.
PLEBISCITO (163)Il 21 ottobre dello stesso anno, indetto a Picerno il Plebiscito attraverso il quale le popolazioni meridionali dovevano liberamente dichiarare se volevano "L'Italia una e indivisibile con Vittorio Emmanuele" Re Costituzionale", si tornò ai tentennamenti ed ai timori. La maggior parte dei sacerdoti osteggiava il governo borbonico ed auspicava il governo di Garibaldi. E' rimasta viva nella memoria dei picernesi l'azione svolta in questa occasione dal sacerdote D. Stefano D'Antonio nella zona denominata "Bassa la terra", dove attualmente risiedono i suoi lontani eredi. Egli, instancabilmente, andava di vicolo in vicolo, di uscio in uscio, a sollecitare la partecipazione al Plebiscito. D. Felice Marcantonio, dopo la celebrazione della Messa era solito sostare coi fedeli davanti alla chiesa della Pietà per discutere, raccogliere confidenze e fugare dubbi tra la moltitudine ivi radunata. Egli, durante il processo intentato contro coloro che si erano rifiutati di esprimere il proprio voto, interrogato sulle disposizioni d'animo dei picernesi, così depose: "Questi popolani, quantunque buoni ed arrendevoli all'attuale ordinamento politico, trovansi compresi da timore sulle false voci che si sono fatte correre di essere Napoli gremita di Tedeschi, accresciute le imposizioni, e che i proprietari, senza la protezione del governo, si studiavano di far giungere il grano fino a sei ducati" ed ancora che "non avendo fede nei proprietari temono che volessero, col pretesto della politica, sopraffarli e indurli alla miseria" ed inoltre che "i popolani non hanno fiducia nelle persone che chiedono il voto che senz'altro lo mettono a loro profitto specialmente perché la votazione non è stata fatta in luogo pubblico" (164). Il sacerdote Marcantonio ed altri, nonostante la sfiducia del popolo, continuavano a fare opera di persuasione in favore del plebiscito, ma il popolo non era propenso a seguire i loro consigli, anche perchè temevano rappresaglie da parte di gente armata che perlustrava continuamente il territorio picernese e quello di tutta la Basilicata. Felice Riviello di Giuseppe, sessantenne, proprietario, interrogato deponeva che "sarebbero andati invece a S. Rocco o al Paschiere dove se l'avrebbe veduto anche con gli altri ivi si fossero portati inermi" (165). Francesco Marchetti depose che le voci riguardanti le votazioni erano discordanti e molti dicevano "di non votare nè per l'uno e nè per l'altro, ma per S. Rocco". Nelle indecisioni e nei contrasti il popolo trovava sollievo nella preghiera che quotidianamente rivolgeva a Dio, portandosi nella chiesa di S. Rocco. Qui impetrava la pace e la fine delle perplessità e delle sofferenze. Si riportano i documenti relativi alle votazioni ed alle operazioni di scrutinio.Lettera diretta al Governatore della Basilicata L'anno milleottocentosessanta, il giorno ventuno in Picerno, nella Casa Municipale, alle ore sette antimeridiane. Noi Sindaco, Decurioni e Capitano della Guardia Nazionale del suddetto Municipio, in esecuzione del Decreto Prodittoriale dell' 8 e 13 corrente mese, per la convocazione del Popolo onde accettare o rigettare il Plebiscito per la formazione d'Italia una ed indivisibile sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti, ci siamo riuniti nella Casa Municipale ed abbiamo proceduto a quanto segue: 1) Abbiamo messo sopra una tavola grande tre urne, in una delle quali si sono posti i bollettini col "SI'", in un'altra quelli col "NO", e un'altra vuota in mezzo. 2) Abbiamo invitati i cittadini all'istante a Comizi a dare il loro voto con prendere quel bollettino che loro piaceva e buttarlo nell'urna vuota, e ciascuno ha dato libero e spontaneo il suo voto. 3) Finalmente terminate le operazioni abbiamo suggellata la cassettina la quale è rimasta nello Archivio della Cancelleria di questo Municipio essendosi dal Sindaco conservato il sigillo. Fatto e chiuso il presente verbale oggi suddetto giorno alle ore ventiquattro". (Seguono le firme) --------------------------------------------------------------------------------------------- Vittorio Emmanuele Re d'Italia Giuseppe Garibaldi dittatore delle Due Sicilie L'anno 1860 il giorno 23 ottobre in Potenza Recatisi innanzi a noi Governatore della Provincia di Basilicata, e Presidente della Gran Corte Criminale della Provincia medesima i signori Luigi Gavino e Nicola Capece, nella qualità il primo di Sindaco e l'altro di Comandante la Guardia Nazionale del Comune di Picerno ci han presentato un'urna di legno ben chiusa con fermature di fettucce bianche aderenti al legno mercè soggelli e cera rossa, portanti la scritta "Il Sindaco di Picerno". Sul coperchio dell'urna è scritto a penna "Municipio di Picerno": 1860. I suddetti componenti ci han dichiarato che l'urna esibita contiene i polizzini dei voti raccolti nel mentovato Comune per la votazione del Plebiscito: "Il popolo vuole l'Italia una ed indivisibile con Vittorio Emmanuele, Re Costituzionale, e suoi legittimi discendenti". E noi dando ai medesimi atto della presentazione dell'urna, abbiamo in loro presenza depositato la stessa nella stanza destinata alla custodia di tutte le simili urne che ci pervengono dalle Giunte Comunali. Ne abbiamo fatto quindi redigere il presente verbale in due originali, consegnandone uno a comparenti per depositarlo nell'archivio del proprio Municipio, e ritenendo l'altro presso di noi, dopo di essere stati ambidue da noi e dai comparenti sottoscritti. Il Sindaco - Il Governatore - Il Capitano della Guardia Nazionale - Il Presidente della Gran Corte Costituzionale ----------------------------------------------------------------------------------- L'anno 1860 il giorno 29 ottobre in Potenza. Noi Giovanni Gemelli Governatore della Provincia, Michelangelo De Cesare, giudice della Gran Corte Criminale della Provincia medesima (si omettono i nomi degli altri membri della Giunta). Riuniti nella sala delle udienze del Tribunale Civile in virtù dell'articolo 5° del decreto dell'8 del circolante mese onde procedere in seduta permanente allo scrutinio dei voti raccolti dalle Giunte Municipali nella Provincia per le votazioni del Plebiscito: Il popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emmanuele Re Costituzionale e i suoi legittimi discendenti " abbiamo proceduto a tale disimpegno nel seguente modo": (se ne omette la minuta descrizione). Letti i verbali di ciascuna Giunta Comunale, "si è proceduto all'apertura delle urne, l'una dopo l'altra, progressivamente, e fatto lo scrutinio con tutta scrupolosità ed esattezza per ciascun Municipio". Totale votanti: 98.312; Voti affermativi: 98.202. Voti negativi: 110. In conseguenza di che il Plebiscito per l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emmanuele Re Costituzionale e i suoi legittimi discendenti è stato con plauso generale affermato e proclamato in questa Provincia di Basilicata colla maggioranza di voti 98202 affermativi contro 110 negativi. Di tutto ciò si è fatto redigere il presente verbale, che è stato chiuso oggi sopradetto giorno, mese ed anno e redatto in duplice spedizione sottoscritto da tutti i componenti della Giunta. -------------------------------------------------------------------------- Nel Mandamento di Picerno si ebbero questi risultati: Votanti n. 845 Voti affermativi. .n. 843 Voti negativi n. 2.
AZIONI BRIGANTESCHE ALL'INDOMANI DELLA PROCLAMAZIONE DELL'UNITA' D'ITALIA Le speranze che l'unificazione potesse finalmente dare sollievo alle gravi condizioni in cui il Governo borbonico e il brigantaggio avevano condotto l'economia picernese, andarono presto deluse. Infatti il brigantaggio, nonostante i frequenti e tempestivi interventi delle Guardie Nazionali, continuò ad essere una piaga dolorosa. Di tanto in tanto gruppi di gente armata compariva nel territorio di Picerno infestando le contrade del Marmo, di Serralta, di Acqua Fetente, di Acqua delle Forre, di Monti Li Foj, e di Pantone di Vosa, commettendo estorsioni ai danni di gente tranquilla ed inerme. Non poche ne furono le vittime. Il ventiseienne poeta Achille Motta (166) ebbe maciullato dai briganti (167) il padiglione dell'orecchio destro, ebbe danneggiato gravemente il viso e infine venne lasciato in pericolo di vita dietro la Cappella del Pantano (168). La ricerca dei briganti (169) fu attiva e portò a degli eccessi, di cui si può considerare un esempio il caso del diciottenne Nicola La Torre da Picerno. Questi, il 13 agosto del 1861, sorpreso in compagnia di briganti, venne segnalato alle autorità ed arrestato nonostante avesse dichiarato di essere diretto dal Sindaco per costituirsi, venne trascinato nella masseria di Mancini e seviziato per tutta la notte: gli furono strappate le unghie dei piedi e la mattina seguente fu fucilato presso il Paschiere. Era in vigore un bando del Sindaco Gaimari che prevedeva la fucilazione di chiunque fosse stato visto in compagnia di briganti; ogni assembramento di cinque persone veniva considerato associazione a delinquere e reato contro la pubblica tranquillità; ma, per chi spontaneamente si fosse costituito dinanzi al Sindaco, ne era previsto il perdono. Numerosi furono i processi contro coloro che tentavano con ogni mezzo di capovolgere il governo di Vittorio Emmanuele II instruiti spesso anche in base di semplici sospetti. Ne è esempio il caso di Nicola Cerbasi di Rosa da Picerno ventisettenne calzolaio. Questi fu denunziato il 29 agosto del 1861 per aver preso parte "ad associazioni in numero maggiore di cinque ad oggetto di delinquere contro le persone e la proprietà, commettendo con ciò reato contro la pubblica (tranquillità) in tenimento di Picerno" (170) e arrestato anche perché sospettato di aver preso parte al sacco di Baragiano "nei dì 26 e 27 luglio ultimo" insieme ai briganti, ai quali avrebbe anche fornito notizie valide per le loro azioni ai danni delle popolazioni di Picerno, di Baragiano e della Basilicata in genere. Il Cerbasi, perquisito dal Sindaco, venne trovato in possesso del formaggio avuto in cambio, come d'uso allora, del lavoro prestato in quei giorni presso i compaesani Tommaso Carella "Bombalò" e Felice Marrese, cadde ogni sospetto e fu lasciato libero, il 1° settembre dello stesso anno. Risalgono a tale periodo e l'uccisione di Nicola Labriola e l'incendio della masseria di Emmanuele De Meo. Con lettere minatorie di cui si riporta un esempio, venivano tentate estorsioni di denaro. Eccone copia conforme:"Al Signor . . . il Signor D. Pietro preandovi per mezzo del vostro colono e di mandarmi la somma di ducati trecento - 300. Si no altrimenti strovimo tutte le pecore alle Foj. Sono io qui sottoscritto Saverio Cerbasi. Gridando sempre " Viva Francesco Secondo 'e fatimi la risposta e vi prego di farmi subito la risposta". I briganti, che in seguito continuarono ad operare nelle diverse zone di Picerno, erano decisi a non lasciare "nè beni, nè anima viva a Picerno" e spesso vennero a colluttazione con la Guardia Nazionale e con i carabinieri. Tale triste situazione durò fino al 1870 circa. Testimonianze relative vengono tratte da documenti giacenti presso l'Archivio di Stato di Potenza. Molte le depredazioni avvenute sul Marmo. Viandanti che attraversavano la zona per motivi di commercio venivano seviziati e spogliati di tutto. I briganti si impossessavano generalmente di pezzi di gran valore, e di antico conio, nonché di ingenti somme di denaro in moneta di bronzo e di argento; tesori, che essi stessi abbandonavano nei boschi. Notizie più particolareggiate riguardo ai tre viandanti Pasquale Marottoli di Agostino da Buccino, Giuseppe Visto da Pignola e Alfonso Bofano di Francesco da Polla, sono tratte dal "Procedimento penale contro ignoti armati di fucili e pistole imputati di associazione armata ad oggetto di delinquenza" (171). Questo reato avvenne nel tenimento di Picerno il 15 marzo del 1868, e venne denunciato dagli stessi malcapitati. Si riportano integralmente le rispettive deposizioni. Il 15 marzo Pasquale Marottoli di Agostino di 28 anni da Buccino deponeva: "Ieri mattina . . . mi recai in Vietri di Potenza ed ebbi occasione di riunirmi con altri due viandanti con tale Alfonso di Polla ed un altro individuo di Pignola entrambi trainanti. Poichè tutti dovevamo venire a Potenza. Siamo usciti in compagnia dal ripetuto Comune di Vietri. Giunti al pendio della contrada Marmo e precisamente alla distanza di un tiro di fucile dal Casino siamo stati aggrediti da sei malfattori armati i quali a viva forza ci hanno rubato il denaro che portavamo, spiegandomi meglio sul proposito debbo dire che ai miei compagni di viaggio è stata tolta una somma di denaro che essi medesimi potranno precisare ed a me la somma di ventisette o ventotto lire che portavo sciolto nella tasca e quasi tutti in argento, tranne due o tre lire in moneta di bronzo, un cilindro a doppia cassa di argento cisellato, cioè un frascheggio sulla cassa che covriva il quadrante, e con una piastra in quella opposta attaccata ad una catena di acciaio fermata da piccoli anelli, ed un portafoglio di suola con entro la carta di passaggio, il congedo ottenuto per il servizio militare, da me prestato e parecchie fatture di debito a me rilasciate da naturali di Cancellara, Tolve, S. Chirico, Pietragalla, i quali nel ricevere da me la rame promettevano farmi i pagamenti nel prossimo mese di agosto. Non ricordo i nomi dei debitori, ma posso accertare che le fatture suddette in complesso dettavano poi la somma di trecento lire, che lo dovrò perdere per non aver segnato sul registro i nomi dei ridetti debitori. Non voglio indicare per nome gli autori dell'aggressione, poichè mi sono ignoti secondo ho detto sopra e molto meno posso dare esatti connotati di essi, poichè mi hanno obbligato di rimanere con la faccia a terra. Posso solamente dire che la persona la quale si è avvicinata a me per saccheggiarmi era un giovane al di sotto di anni trenta, di statura giusta, grassotto, con barba rasa, vestito da contadino, cioè con calzoni corti e giacca di panno ordinario casareccio, di color caffè, un cappello ordinario e schiacciato, e poichè mi è sembrato molto accorto e pronto nel parlare, debbo supporre che abbia fatto il militare. Gli altri malfattori per quanto ho potuto scorgere al primo loro apparire, vestivano parimenti da contadini con mantelli ed armati tutti di fucili e pistole, tranne uno che faceva uso di una grossa mazza, ed il modo di vestire mi è sembrato uniforme al costume di Balvano, aggiungendo ancora che balvanese ho giudicato dal dialetto il giovane che lasciando dietro gli altri, si è avvicinato a me per depredarmi. Il fatto da me narrato è avvenuto verso le ore tredici e mezza e non posso indicare testimoni perché dalle campagne si ritirano i contadini nei giorni festivi. Non posso neppure indicare testimoni dell'esistenza del denaro e portafoglio che conservava in tasca poichè sono fatti di famiglia che io non credeva necessario fare e sentire a terze persone. Posso solamente assicurare che l'orologio, cioè un cilindro ad otto pietre mi venne venduto dall'orefice Rizzo di Potenza" Firmato Marottoli e il Pretore D. Pietro. Alfonso Bofano di Francesco Paolo di anni trenta, nato e domiciliato a Polla, trainante proprietario, illetterato denunciava: "Eravamo giunti nelle campagne di Picerno e precisamente al pendio del Marmo, cioè poco dopo il Casino (...) (172), quando mi è accorso di vedere a poca distanza due persone di faccia a terra e tre armati che loro stavano d'intorno, tre altri parimenti armati che avevano occupato un'altura per difendersi le spalle dei loro compagni. Io non ho esitato a sospettare che tutte le persone armate erano malfattori e che le persone che stavano di faccia a terra erano viandanti capitati nelle loro mani, che anzi ho prontamente sospettato che uno dei due aggrediti era un trainante di Pignola con altro suo conterraneo i quali ci precedevano nel cammino e si erano uniti con noi nella sera precedente in Vietri. Cercava di scansare il pericolo col ritornare indietro ma i tre malfattori che occupavano l'altura hanno spiegato le loro armi contro di me e del sopradetto calderaro obbligandomi di stendermi a terra con la faccia in giù e due di essi rovistandomi nella tasca e nel panciotto mi hanno tolto carlini dieci in bronzo e sei piastre in argento, cioè pezzi di carlini dodici dell'antico conio, e poichè io aveva negato di possedere somme di denaro, mi ho ricevuto due schiaffi da uno dei due. Non contenti della surriferita somma, i tre malfattori hanno sospettato che io doveva possedere altra più vistosa, poichè portavo i traini vuoti, e perciò si accingevano a forzare le cassette dei suddetti carri quando io ho creduto opportuno di consegnare la chiave per evitare una rottura; e così essi si sono impossessati di ducati quaranta in bronzo e ducati duecentododici in argento, che formava il mio capitale per l'acquisto del grano che doveva formare il carico dei traini che conducevo. Dopo di essersi impossessati del denaro mi hanno tolto dalla gola un fazzoletto di seta con fascia verde, e dalle orecchie un paio di pendenti di oro dalla forma di paniere, ed entrambi questi oggetti avevano il valore di lire otto e centesimi 50, sicchè calcolando tutto il danno da me sofferto si ha la somma di lire 1114 e centesimi 35. Non posso indicare i testimoni dell'esistenza del denaro perché nel partire dal mio paese non ho creduto farlo vedere a persone estranee poichè è nostro sistema di caricare con riservatezza onde non esporci ai pericoli del furto. Dopo la mia aggressione e quella degli altri due individui che io vidi faccia a terra, i malfattori al numero di sei si sono uniti ed hanno presa la strada che conduce a Balvano e a Baragiano. Io non ho conosciuto veruno ed essi, perché erano soggetti da me mai visti precedentemente, e non sarei al caso di riconoscerli poichè il timore ha impedito qualsiasi attenzione nelle persone di quei malfattori. Probabilmente potrei riconoscere uno di essi che vestiva con pantaloni bigio avente una striscia rossa, come quelli della Guardia Nazionale e un berretto alla milizia cittadina. Aveva un piccolo mustacchio steso, era di giusta statura ed andava armato di fucile e pistole. Tutti gli altri vestivano da contadini, e secondo il costume di questi paesi in vicinanza della stradale e cioè con calzoni corti, mantelli ordinari di color caffè e cappelli conico e tutti armati di fucili e pistole". Giuseppe Visto di Gerardo di 27 anni nato e domiciliato a Pignola, trainante, ammogliato con prole, denunziava: "Giunto alla contrada Marmo, e propriamente un tre e più di palla al di qua del cosidetto Casino, agro di Picerno, sono stato aggredito da tre individui sconosciuti, armati di fucile e mi hanno imposto di prostrarmi bocconi a terra. In quello istante ho veduto che altri tre individui erano fermati sopra un vicino rialto pure armati di fucile che avevano spianato contro di me. Appena messomi colla faccia in terra, uno dei primi tre ha diligentemente ravvisato sulla persona, e mi ha rubato due biglietti di Banca, uno di lire cinque ed un altro di lire due, tre piastre di argento di carlini dodici l'una e sette od otto carlini in bronzo in circa L. 24,65, nonché una pistola di misura, una fascia che mi cingeva la vita, un fazzoletto di cotone e due sacchi orlati di panno nero, con delle funi ed altri oggetti dentro; e da ultimo un coltello a pungitoio con forchetta, ed un portafoglio con entro le dette carte monete ed altri conteggi. Non ho fatto attenzione a marcare la foggia degli abiti di che quei malfattori erano vestiti, quello però che ha rovistato su di me portava un cappello di panno monacale, ed un cappello basso. Tutti poi erano nello insieme vestiti alla contadina. Per quanto ne penso e dal dialetto che parlavano quei malfattori mi conviene concludere che erano di Balvano e S. Gregorio. Questo mio sospetto è avvalorato dalla foggia di vestire e dalle considerazioni che solamente persone de' paesi posti in vicinanza della stradale potevano aggredirci, stante la mancanza di bande armate nei dintorni di Picerno. Non posso indicare testimoni della esistenza degli oggetti a me rubati perché furono acquistati in Napoli per ragione del commercio che esercito ed ignoro il nome dei mercanti dai quali feci acquisto. Però il mio conterraneo Luigi Pietrafesa il quale viaggiava con me potrà parlare non solo della esistenza degli oggetti ma sibbene dello involamento, giacchè nulla portava seco. Rivedendoli difficilmente sarei al caso di riconoscerli perché ebbero premura di sottrarsi alla mia vista col farmi mettere di faccia a terra. Probabilmente conosceva quello che mi ha saccheggiato ed avrà i connotati da altri. Le monete delle quali ho parlato sono quelle correnti del Regno, tranne le tre piastre che avevano l'effigie dei passati Borboni. Niuna delle dette monete aveva segno visibile da potersi distinguere dalle altre in caso di smarrimento. La campagna era spopolata poichè giorno festivo e per tale ragione non posso indicare testimoni".L'industria armentizia, l'agricoltura e il piccolo commercio, non trovarono, anche dopo il 1870, condizioni favorevoli per svilupparsi. Molti fattori concorsero a creare, tra la popolazione picernese, una condizione tutt'altro che sostenibile: l'isolamento politico, economico, culturale e commerciale a causa di una insufficiente estensione della rete viaria, completamente assente in vari punti del territorio, fu molto dannoso per Picerno, in cui nuove e più esose tasse anche non equamente distribuite, gravavano sulle popolazioni, specie quelle agricole costrette a ricavare di che vivere da una natura;ingrata irrimediabilmente danneggiata dall'irrazionale disboscamento inconsulto. Sicché le forze di lavoro si diressero allora verso le Americhe, ingigantendo il fenomeno della deprecata emigrazione, non certo molto benefica per Picerno. Questa cittadina, privata di braccia valide e capaci, assistette inerte ad un deplorevole depauperamento demografico delle proprie campagne, con il conseguente deprezzamento della proprietà fondiaria. Gli emigrati, raggiunto un certo grado di ricchezza contribuirono, con i loro sudati risparmi che mandavano in Italia, a migliorare lentamente, in un certo senso, le miserrime condizioni economiche dei congiunti lasciati in Picerno, mentre nutrivano in cuore l'ansia di vedere un giorno non lontano ricostituite le proprie famiglie in un ambiente veramente rinato e progredito. NOTE
160 Arch. di Stato di Potenza; Atti e Processi di valore storico.
161 Molto scarso il pane di grano riservato solo ai malati. I maccheroni venivano confezionati in casa quali "laan'", "strasc'nar'", "fusidd'", "r'cchi'tell'", ecc. raramente si acquistava la pasta fornita dal laboratorio molto modesto ubicato verso Bassa la terra. 162 Arch. di Stato: Da Atti e Processi di valore storico 1783 e s. cart. 73 fasc. 5 Documenti relativi al passaggio di Truppe Reali nel Territorio della Provincia. 164 Arch. di Stato di Potenza; Fondo Plebiscito Cart. 2 fasc. 6-12. 165 Ibidem. 166 Achille Motta, picernese d'adozione poeta e Cancelliere di Pretura in Mignano Napoli. 167 Si ritenevano briganti gli evasori dal servizio militare. 168 Achille Motta nel 1864 scrisse questa poesia dal titolo molto significativo: Sonetto contro il Borbone riparato a Roma dove di concerto col Papa, ci fomentò la piaga del brigantaggio. Trema Borbon già nel gran libro è scritto l'alto decreto: più regnar non lice! Diva legge lo scettro a te disdice: Lascia Roma, Fellon, l'ha il ciel prescritto La tua superbia al Nume giusto e invitto Umilia: non tentarne l'ira ultrice!!! Va ramingo pel mondo ed infelice ! Tradisti Italia! E' questo il tuo delitto! Dell'Aquila grifagna ai feri artigli Quasi l'intera Italia è ormai ritolta; Quale dunque tua speme, a che t'appigli? A rinnovar degli avi, alla tua volta, Gli empi proponimenti e i rei consigli? Ah! per Dio no 'l sperar, la speme è tolta! 169 Arch. di Stato. Atti e Processi di valore storico Cart. 245, fasc. 12-13. 172 Nel testo poco chiaro. |
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