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FRA PATRIOTI E BRIGANTI |
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di: Nicola Cirigliano |
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da: http://xoomer.virgilio.it/ciriweb/brigantaggio.htm |
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N essuno può negare la presenza, talora massiva, del brigantaggio nella lunga storia meridionale. Infatti, sia che lo si consideri come già radicato nel primo secolo della dominazione spagnola, sia che lo si voglia attribuire in funzione borbonica e antinapoleonica, è ampiamente documentato che in tutti i luoghi del Regno sorse una miriade di piccole o grandi bande che fra l'altro offrono la gamma completa della tipologia brigantesca del Mezzogiorno. Il brigantaggio è stato considerato, fino a non molti decenni fa, da molti illustri studiosi, come un evento totalmente negativo nella storia del nostro Paese. Certo, suscitava solo un sentimento di esecrazione in chi viveva bene in un sistema sociale che invece portava tanta gente all'estrema disperazione. In realtà, nel Mezzogiorno, il fenomeno più negativo consisteva proprio nell'esistenza di una classe dominante che egoisticamente sosteneva un rapporto unilaterale con la terra e la povera gente. Prendere quasi tutto e non dare quasi nulla era la formula con cui hanno agito per secoli i governanti locali, sfruttando la popolazione che si veniva a trovare in uno stato di disperazione inimmaginabile (1). Miseria, temperamento fiero e anche feroce degli abitanti, analfabetismo generalizzato, malformazioni strutturali dell'economia e della società, istituzioni politiche deboli se non assenti e comunque al servizio dei ristretti gruppi egemonici: tutto ciò in breve sintesi stava a monte di quel fenomeno. In concreto, molti meridionali, per vendetta, per onore, per rifiuto dell'autorità ingiusta e nemica, per gusto dell'avventura, per pura criminalità uscivano dal sistema accettato come legge e, come si diceva, si davano alla "campagna", si facevano briganti. E spesso o perché rispettavano i contadini di cui avevano bisogno per briganteggiare e sopravvivere o perché le plebi rurali li ritenevano campioni del loro modello di giustizia, divenivano ai propri occhi e a quelli della media del loro ambiente, banditi sociali. Il delitto era il loro mestiere e tuttavia, anche se atroci, i loro reati apparivano soprattutto alle plebi, non come fatti immorali, ma come giusta vendetta. Anche gli strati più alti della società, non ne erano immuni, specie sotto l'aspetto dell'utilizzazione dei briganti nelle loro guerre private. In più casi poi, il brigante si faceva tutore degli offesi e dei poveri e diveniva perciò il simbolo del rifiuto dell'ingiustizia tanto diffusa. Le cause profonde di questo fenomeno erano esclusivamente economico-sociali: partivano dal profondo del sistema agrario che creava precarietà e miseria, fenomeno, che poi finiva con l'assumere un aspetto politico. Nel 1799 e nel 1806 il brigantaggio s'incrociò strettamente con l'insurrezione. Fu contro rivoluzione, per estensione ed esito politico sociale del 1799. Fu rivolta ampia e sconvolgente nel 1806. Naturalmente, c'erano anche orde selvagge che non avevano nulla a che spartire con gli avvenimenti politici, ma perseguivano solo i loro scopi creando grossi fastidi: prendevano di mira piccoli gruppi di soldati e di civili, e gli impiegati e i partigiani del governo, collettori di imposta, giudici, macchiandosi di nefandi delitti come ci ricorda il Colletta. Grande l'insicurezza delle strade, sicché "Salvo qualche spiaggia di mare scoperta o frequentata, non si poteva in altri luoghi viaggiare senza grossa scorta" (12), continui i pericoli anche per i centri abitati, tanto che qualche paesino fu abbandonato dai suoi abitanti, i quali cercarono rifugio in borghi più numerosi e difesi, e chiesero al governo di recintare con mura l'abitato. Ma il governo negò, perché sarebbe stata da parte sua, una indecorosa dichiarazione d'incapacità di difenderli. E' il caso di Canna, dalla quale gli abitanti fuggirono in Oriolo e Rocca Imperiale per sottrarsi agli attacchi di Carminantonio, di Pirrone, di Taccone, di G. Battista Pace, atterriti dall'esempio di quanto era avvenuto a Bollita assalito dai briganti (3). In quell'avvenimento si distinse Battifarano Luigi, capitano dei legionari che difese strenuamente il suo paese il 25 luglio 1806 contro il brigante calabrese Mezza Capo (4). Murat usò dapprima misericordia e mitezza verso i briganti, come non si era mai fatto prima. Ma visto che con l'indulgenza non otteneva i risultati che se ne sarebbero sperati , fu necessario cambiar subito metodo per debellare il male che dilagava sempre più. E nel giugno 1810 diede disposizioni perché i reparti militari stringessero come in un cerchio i briganti. Il 29 luglio dello stesso anno ingiunse al generale Manhes di prendere il comando onde ristabilire l'ordine nelle Calabrie mettendogli a disposizione il reggimento corso, e dandogli come coadiutori due ottimi ufficiali. Il re scrisse al generale che con ogni mezzo pacificasse le Calabrie: "non lasciate i vostri stivali che quando i briganti avran cessato di esistere" (5). Il decreto reale che dava al Manhes i pieni poteri per la lotta contro il brigantaggio è del 27 settembre. Scontri, saccheggi, violenze da una parte e dall'altra, scriveva di quel periodo il Racioppi: "chè capi e soldati dell'esercito francese non sono da meno dei partigiani, che essi denominano briganti". E definiva il Manhes, che aveva diretto quella repressione, "Dio terribile di giustizia e di vendetta:vendetta e giustizia violenta, cieca, spietata, ma efficace" (6). Il 31 marzo 1810, Bollita, fu invasa dai briganti che distrussero l'archivio comunale come risulta da una lettera del 20-5-1811 contenente le disposizioni dei diversi sindaci succedutosi dal 1800 al 1810. In essa don Luigi Vicari così sintetizza la drammatica situazione: "L'archivio comunale al 3l-3-1810 fu intieramente saccheggiato dai briganti e tutto andò disperso". Tra maggio e giugno 1848 si erano cominciati a vedere dei briganti calabresi in non poco numero nel bosco Pantano, D. Nicola Santarcangelo nella qualità di primo eletto girò il paese con il Parroco ed altre autorità municipali per vedere come il paese poteva essere fortificato per difendersi ed essendosi fatta la risoluzione dì murarne una parte il sindaco offrì 50 tomoli dì calce. Poi non se ne fece più nulla perché cessarono i timori (7). Con l'Unità d'Italia, aboliti i decreti a favore del popolo e sciolto d'autorità l'esercito dei volontari meridionali, la disillusione fu grande e la reazione immediata. I contadini del Sud, abbandonati i piemontesi , tornarono ad abbracciare la causa della dinastia borbonica che aveva tormentato la reazione basandosi principalmente sulle "novità di vita". L'estensione indiscriminata a tutti i ceti sociali del paese del gravoso sistema fiscale piemontese, che non risparmiò neppure le umili dimore trogloditiche, finì con il rendere ancora più penoso il tenore di vita delle popolazioni, già generalmente assai basso. L'introduzione della leva militare obbligatoria, con decreto del 17 febbraio 1861, suscitò una vasta opposizione popolare con renitenze e diserzioni assai diffuse anche se severamente represse, che andavano a ingrossare le fila dei briganti. Tanto più che dovevano prestar servizio militare solo i giovani il cui nome fosse stato estratto a sorte, quindi una procedura facilmente "manipolabile" a favore dei "raccomandati" che penalizzava le famiglie contadine la cui unica ricchezza erano i figli. Inoltre l'estenzione nel Mezzogiorno di tutti gli ordinamenti legislativi in vigore nel più progredito regno sabaudo ,senza una necessaria e preventiva familiarizzazione con le popolazioni destinatarie, che con la loro connaturata rassegnazione ed abituate a credere che il governo era tutto, potessero d'un tratto persuadersi che il popolo era tutto e che dovesse provvedere a se stesso. Tale situazione era resa più critica dal fatto che le popolazioni meridionali si trovarono disorientate oltretutto dalla mancanza di un'opinione pubblica ben determinata e dalla scarsa fiducia in se stesso. Nel luglio del 1861 il generale Cialdini aveva sostituito il generale Durando ed aveva iniziato una politica di repressione molto dura sulle popolazioni che avevano fraternizzato con le bande brigantesche, provocando così un mutamento nella tattica della guerriglia. Pertanto i briganti ora avvertivano la necessità di risparmiare le popolazioni per non correre il rischio di un isolamento che, sebbene prodotto dal terrore, sarebbe stato determinante per una loro definitiva sconfitta. Mentre diminuivano quasi del tutto le invasioni e le reazioni dei paesi, si registrò però un aumento impressionante di azioni di brigantaggio vere e proprie. Questo mutamento di condotta delle bande colpì a fondo dapprima i borghesi liberali, poi sempre più indiscriminatamente tutti i possidenti, toccandoli nel bene più prezioso, la proprietà. In generale le bande evitavano ora gli scontri con le truppe fatte affluire in numero consistente, preferendo gli agguati a drappelli isolati di guardie nazionali. All'inizio dell'estate il brigantaggio non aveva capi, quindi non ordine, non organizzazione, non unità d'azione. Gli emigrati borbonici ritennero opportuno fornire una direzione militare e un chiaro indirizzo legittimista alla spontanea rivolta contadina. Quindi incaricarono della missione Jose Borjes, nato in Catalogna nel 1813, figlio, di un ufficiale distintosi nelle guerre antinapoleoniche, e poi fucilato durante la guerra civile scoppiata nel 1833. Sottufficiale di carriera, aveva militato nello forze partigiane carliste, dimostrando la sua valentia e finendo col grado di comandante di brigata nel 1840, quando i legittimisti furono battuti. In esilio aveva vissuto a Parigi, lavorando come rilegatore. Era rientrato in Spagna durante le campagne del 1846-48 e nel 1855, per sostenervi la causa di Isabella con azioni di guerriglia. Sembra che nell'inverno 1860-61 avesse compiuto alcune missioni di informazione a Messina e in Calabria affidatogli dai comitati borbonici di Marsiglia e Roma. Borjes si portò a Malta, dove si trovavano molti fuoriusciti borbonici, e il 14 settembre 1861, con soli 17 compagni spagnoli e napoletani, sbarcò in Calabria sul litorale Jonico, fra Bruzzano e Brancaleone, riparando subito sull'Aspromonte. Nè la scelta del tempo, nè quella del luogo, si potevano definire felici. A metà settembre del 1861, l'ondata della rivolta contadina stava già rifluendo sotto i colpi della repressione che era stata particolarmente rapida e decisa. Braccato dalle guardie nazionali e dalle truppe, Borjes riuscì a collegarsi con la grossa banda Mittica e a realizzare una difficile collaborazione per l'attacco a Platì, che fu respinto. Abbandonato da Mittica, Borjes riuscì a fuggire grazie alle indicazioni di un inviato del principe di Bisignano che lo indirizzò verso la Basilicata, dove aveva forse sperato dì giungere alla testa di una vasta sollevazione. L'undici ottobre passando dinanzi a Terranova, toccò S. Costantino, Noja e S. Giorgio dove arrivò il 12 mattina dopo dieci ore e mezzo di marcia per strade detestabili e digiuni. Ecco come lo racconta nel suo giornale: "13 ottobre Ieri sera avemmo del pane e della carne: il pane ci è giunto da Colobraro, la carne siamo andati a mangiarla alla Serra di Finocchio, ove siam giunti alle 7 circa di sera. Verso le quattro del mattino un pastore è venuto a dirmi che le guardie nazionali di San Giorgio e Favale eransi riunite per attaccarci oggi, e sebbene io abbia tenuta in conto di falsa tale notizia, pure si e avverata ……. Non appena fui sul punto culminante, ho veduto una compagnia che ci prendeva alle spalle, il che mi ha obbligato a ritirarmi verso il settentrione della montagna, ove mi sono imboscato. Là ho saputo che questa forza era la guardia nazionale di Rotondella. Tre ora e 20 minuti. Sono informato che quegli che ieri ci portò il pane, ci ha venduti al capitano della guardia nazionale Don Gioacchino Mele di Favale. Tre ora e 40 minuti. I nemici si ritirano prendendo la direzione di Rotondella e Belletta (Bollita). Tre ore e 50 minuti. Levo il mio piccolo accampamento por dirigermi verso il fiume Sinni ….. passo il fiume al punto indicato per seguire ]a direzione del bosco di Columbrera……."(18). Dopo durissime marce il 22 ottobre Borjes si incontrò con Crocco nel bosco di Lagopesole. L'accoglienza non fu amichevole: Crocco si sentiva "onnipotente" nei suoi boschi, e non amava cedere il comando. Infine, Borjes, dopo un vivace contrasto riuscì ad imporre i suoi punti di vista e potè ordinare le bande su basi militari, dando inizio ad alcune delle più memorabili scorrerie della storia del brigantaggio post-unitario. Alienandosi in tal modo il favore della popolazione; e per le difficoltà di intese con i briganti che non avevano affetto verso i Borboni vide svanire il suo obiettivo di ricalcare le orme del Cardinale Ruffo. E mentre si dirigeva verso i confini dello Stato Pontificio nel dicembre fu catturato e fucilato. La fine di Borjes, come scrive il Molfese, viene definita come la fine del brigantaggio politico: "Da quel momento in poi il fenomeno non sarebbe che brigantaggio comune, ossia manifestazione di criminalità, sete di rapina, di cieca vendetta da parte dalla feccia delle plebi contadine nel Mezzogiorno continentale. La suddivisione è convenzionale ed arbitraria, perchè la fasi di sviluppo e di declino del brigantaggio costituiscono piuttosto un fenomeno quantitativo che qualitativo, ma racchiude una certa parte di verità nel senso che col cadere del 1861, o piuttosto, dalla primavera '62, il carattere sociale del brigantaggio emerge sempre più nettamente, per una logica interna, spoglio ormai delle giustificazioni e magari, degli abbellimenti legittimistici e sanfedistici". Per avere un'idea realistica della condotta e della vita dei briganti è bene riportare alcuni documentati episodi, che serviranno anche a dissociare ogni relazione e confronto del banditismo con la lotta di classe del proletariato, o con la resistenza contro l'oppressione straniera e del potere assolutista. "…….nella sera de' 7 febbraio 1862, i fratelli D. Luca e D. Vincenzo Oriolo di Bollita, sa ne stavano pacificamente nella di loro masseria in contrada Campolongo in quell'agro, quando verso le ore due della notte una comitiva di cinque ignoti briganti armati li assalivano, li arrestavano in nome di Francesco Secondo, andavano in cerca dall'altro di loro fratello D. Antonio, che chiamavano barbuto, li legavano e l'inducevano a scrivere (9) al medesimo che avesse mandato ducati tremila pel di loro riscatto, in opposto gli avrebbero fatto tenere le teste. Di consegnare il biglietto a Vincenzo di Noia per recarlo a D. Antonio, come venn'eseguito…….che il danaro lo volevano nandato nel bosco Pantano di Policoro. Venuto qui consegnai la carta al ripetuto D. ANTONIO, il quale colla famiglia se ne addolorò, ed io me ne ritornai alla masseria……..il giorno seguente ritornato mio fratello dissemi che mi voleva l'altro padrone D. Antonio, e qui venuto mi consegnò un involto con danaro cucito, che io non vidi, nonchè da cinque rotoli di salsiccia, due formelle di cacio e tre pani che portai a' briganti nel bosco Pantano di Policoro, ove nel riceversi il denaro, vedendo che non era secondo la richiesta, volevano che si fosse di nuovo scritto por altra somma, un orologio ed altro, a con minacce verso i miei padroni non volevano liberarili……Furono tali e tante le mie preghiere, da persuadere quegli assassini a liberare i miei padroni, dei quali si presero due cappotti di pannetto, due camiciole dello stesso panno, due coltelli da tasca, un fazzoletto, un fucile detto micciarola ed otto cartucce, una corneta di polvere piena ed un scadolino di capsole……Ci partimmo senza di aver più veduto quegli assassini…. erano in circa otto o nove ma non li vidi tutti" (10). Nell'aprile 1862 incendiarano la biche della masseria Taverna che apparteneva al barone Gallotti, distruggendo molti tomoli di grano. Successivamente assalirono: Pietrantonio Panevino di Bollita guardia Doganale, il quale denunziava alla Giustizia che: "nella notte de' 16 ottobre 1862 era stato assalito da briganti nel posto Doganale alla marina di detto Comune e gli si rubarono degli indumenti……una forma di cacio del peso di rotoli quattro, un rotolo di sale, tre giberne, due caschetti militari, ad uno dei quali tolsero la coccarda tricolore e la calpestarono e quindi se la strinsero al petto chiamando Francesco II°, e dileggiando il Re Vittorio Emanuele. Involarono pure un fucile militare con la corrispondente baionetta". Il Panevino disse di aver riconosciuto tra i briganti, dal dialetto, di essere uno dì Lungro a l'altro di Latronico (11). Furono arrestati dalla Guardia Nazionale di Bollita: GAETANO CALVELLO di NICOLA da APRIGLIANO GIOVANNI MAZZEI fu VINCENZO da MANCONI ANTONIO MOLINO fu PIETRO da MANCONI PIETRO MARIA SALFI da MANCONI. Costoro vennero ritenuti responsabili dell'aggressione al Panevino; del furto delle giumente del barone Gallotti e del dott. Pietro Antonio Battifarano e di quello ai danni di Alfonso Picardi da Lagonegro fittuario della Taverna. Un brigante di S. Severino, tale Vincenzo Florio fu ucciso dal milite della Guardia Nazionale di Bollita Ascanio Scarano nel bosco Finocchio. Gli fu recisa la testa che venne esposta nella piazza del paese. Ciò non scoraggiava quei delinquenti che continuavano le loro scorrerie come ci racconta un'altra vittima dei loro misfatti: "….Mi chiamo Giovanbattista Costa di Nicola, di anni ventidue, nato e domiciliato in questo Comune di Bollita, celibe, massaro di campo, proprietario di circa ducati seimila. Nel mattino de' ventisei novembre milleottocentosessantadue, standomene nella mia masseria alla contrada Fosso di Inghiottisano, in queste agro, quando verso le ore ventidue una mia cagna latrava incessantemente vicino ad una gran macchia, e detto al mio forese Francescantonio Corrado di vedere chi vi era, si avvicinò, quando uscirono due briganti armati di fucili militari, ed portava anche la pistola, e tutti a due i stili. Domandarono se io era il padrone a glielo niegai, ma quelli avvedutisi che ero io , uno di essi m'incominciò a percuotere con schiaffi, ed indi postami in mezzo mi obbligarono di seguirli per un buon tratto di strada, ma accortasi mio padre Nicola Costa, questi diede voce a Vincenzo Bruno , il quale postosi a gridare unitamente al detto mio padre uscirono innanzi, ed io così ebbi il destro di svincolarmi, venendo con uno di essi in colluttazione". Corse uno dei due briganti verso Vincenzo Bruno e il suo forese Vincenzo Guida alias Fontana perchè erano accorsi, e scaricò un colpo di fucile al Guida, senza ferirlo. Un secondo colpo uccise la somara al Bruno. "dietro di che vedendo che null'altro potevano fare se ne andiedero via per la direzione del bosco" (12). Il giorno dopo un'altro sequestro: "Nella sera de' ventisette novembre 1862 quattro ignoti briganti armati pervenivano nella masseria di D. Biase Albisinni nella contrada denominata Manganello agro di Bollita , tenuta in fitto da Domenicantonio Montagna del fu Vincenzo, e sequestravano costui dopo di aver rubato gli oggetti….......in quale massaria si aveano fatto guidare dal forese Vito Nicola Oriolo che rilevarono,dall'altra masseria di Nicola Cospite in contrada S. Nania, dopo che in essa con violenza si presero….. Di là indi passavano per la tenuta denominata Lucido, pure tenimento di Bollita,dov'e la masseria di Luigi Pavese fu Giovanni, e catturavano anche costui, dietro l'involamento degli altri oggetti….. Da quivi pervenivano nel tenimento di Rotondella Contrada Trisaia e transitando per la masseria di Giovanni de Matteo ove riuniti si erano Gaspare de Matteo, Nicola de Matteo, Pasquale e Giuseppe Bianco per divertirsi da buoni amici venivano anch'essi sequestrati, e tutti sei legati si dirigevano pel vicino bosco Pantano di Policoro in mezzo ai quattro anzidetti masnadiari. In passando per la masseria di Giuseppe Petrosino, post'anche nella sezione Trisaia,ordinavano i briganti al forese Gennaro Lauranzana di mettere sotto il carro per valicare il fiume Sinni, ma giunto nel mezzo dalle acque il carro affondò, e speditesi là per là il Lauranzana a chiamare un forese de' signori Federici dal vicino fondo Rivolta onde portato avesse altro carro, vi andiede Francescantonio Mazzei alias Macerata, e col carro da costui guidato riuscirono a passare il detto fiume immettendosi nel bosco Pantano di Policoro i briganti ed i sequestrati. Quivi trattenuti per tre giorni, le famiglie de' catturati incominciarono a spedire le taglie loro impostesi da' birbi pel riscatto de' medesimi sequestrati, ed ognuno di essi ne veniva poi liberato…… Rimanevano ancora Pavese a Montagna, i quali furono gli ultimi a riscattarsi l'uno dopo di avere la sua famiglia inviato agli assassini ducati 100 di contante, oggetti di oro e commestibili e paramenti del valore di altri ducati quaranta (13). E l'altro dietro il versamento di ducati 30 di contante, del cacio ed altri oggetti mobili del valore di ducati 10…… i quattro briganti rimangono ignoti. Il Calabrese che si vide in relazione con i suddetti quattro briganti venne scoverto per Michele Chirieleison del fu Pasquale di Marzi in Calabria Citra, arrestato dal potere militare, riconosciuto in legale atto di affronto da sequestrati Pavese e Montagna. ……interrogato dichiarava di avere avuto abboccamento co' quattro suddetti briganti, in occasione che regalava i lavori di arginazione del fiume Sinni vicino al bosco di Policoro ....... ma che ciò era stato per fingersi uomo di fiducia, e per scovrire se vi era la comitiva a premura del sig. D. Filippo Serio (14) Agente di Policore……." Con una lettera del 14-1-1863 il giudice di Rotondella dava notizia che la Guardia Nazionale di Bollita aveva ucciso due briganti ai quali aveva tagliato la testa che furono esposte per alcuni giorni in paese, e poi in Rotondella ma non furono riconosciuti. Detti briganti, si ritenne, avessero sequestrato il Pavese ed il Montagna insieme agli altri cittadini di Rotondella. La repressione generalmente, è stata il prezzo, che prima dell'unità d'Italia il brigantaggio ha dovuto pagare a quei governi che intendevano conservarlo e riciclarlo al fine di strumentalizzarlo in opportune circostanze . Quando invece, il governo nazionale del Regno d'Italia decise di seguire la via della legalità nella gestione del potere, usò allora, una repressione che valse a sradicare definitivamente ogni traccia e velleità di brigantaggio. Con la legge del 15 agosto 1863, detta comunemente "legge Pica", ebbe inizio la legislazione eccezionale che, con modifiche non sostanziali, durò fino al 31 dicembre 1865, grazie a varie e non previste proroghe autorizzando l'impiego di 2117 uomini della Brigata Palermo e di 293 bersaglieri del 45° Battaglione che repressero nel sangue il brigantaggio, abbandonato anche da tutti coloro che, ormai avevano perduto ogni speranza di restaurazione borbonica. Il brigantaggio era nato e cresciuto in un contesto sociale, che bisognava correggere e non soltanto eludere con l'autoritarismo e lo spargimento di sangue di cittadini disperati ed emarginati. La repressione non è mai la vera ed esatta soluzione dei problemi sociali, perchè come la legge del più forte, è il metodo, che più si avvicina allo stesso brigantaggio autoritario ed irrazionale. In tal senso, essa non ha fatto proprio onore al governo risorgimentale italiano che con questo primo atto terroristico ha fatto ricredere la popolazione accomunata nel pensiero; "che stavano meglio quando stavano peggio". "In conclusione se i moderati settentrionali avessero avuto sufficiente lungimiranza (alcuni lo capirono, per vero, ma troppo tardi) da condizionare la loro solidarietà di classe, imponendo ai "galantuomini" il sacrificio (o anche soltanto la limitazione) di taluni loro iniqui privilegi economico-sociali; e se, oltre a ciò, avessero compreso al di là delle apparenze, la "ragionevolezza" dei democratici e dei liberali meridionali, accontentandoli nelle loro aspirazioni fondamentali (impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica), avrebbero, grandemente esteso nel Mezzogiorno l'area del consenso alla loro direzione. In tal modo il fenomeno del brigantaggio sarebbe stato ridotto, la ripresa reazionaria sventata, e la costruzione dello Stato unitario nel SUD avrebbe poggiato su fondamenta molto più solide". (15)NOTE 1. Aspetti e momenti della Questione Meridionale - liceo scientifico D. Alighieri -MONTEMURRO Matera pag. 410 2. Rapporto dell'Intendente COLLETTA 9 febbraio (Fascio 2253) 3. A.VALENTE - Gioacchino Murat e l'Italia Meridionale - Einaudi ed. pag.178 nota 4 4. PEDIO T. op. cit. p. 116 5. A.VALENTE op. Cit. Pag. 176 6. G.CINGARI - BRIGANTAGGIO: proprietari e contadini nel Sud 1799-1900 ed. Meridionali Riuniti 1976 pag. 89 7. ASP 112/8 8. M. MONNIER: Notizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle provincie napoletane -aggiuntovi l'intero giornale di Borjes finora inedito Firenze 1863 pag. 106 9. D.VINCENZO scrisse il biglietto 10. GIUSEPPE DI NOIA fu il latore del riscatto ASP cartella 287 fasc. 11-12 e 15 11.ASP 287/15 fasc. 12. ASP 288/7 e 8 fasc. 13. A mezzo del calzolaio Giuseppe Mattone 14. Capitano della Guardia Nazionale di Montalbano 15. MOLFESE -Storia del BRIGANTAGGIO DOPO L'UNITA'-Feltrinelli 1983 pag. 339 |
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