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MEMORIE INEDITE DEL GARIBALDINO FRANCESCO PARODI |
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di: Manlio BONATI |
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da: http://www.domusmazziniana.it/vecchi/1993/93_1/index.htm |
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I l mio interesse per Garibaldi e i garibaldini in genere mi portò nel 1987 ad acquistare un volume di memorie autografe, assolutamente inedite, del garibaldino Francesco Parodi, partito da Genova con la spedizione guidata da Enrico Cosenz in rinforzo ai valorosi "Mille" impegnati in Sicilia contro i borbonici. Queste memorie sono state scritte tra il 1901 e il 1905 in alcuni quaderni scolastici rilegati insieme alla buona con una copertina di tela e cartone, probabilmente dallo stesso autore. Escludendo alcune pagine bianche e alcune copertine dei quaderni, le pagine autografe sono 274 con tanto di indice che riporta i titoli dei vari capitoli e delle illustrazioni e cartine, qui chiamati "Tipi". Infatti il Parodi si dilettava a disegnare, a colori, con un piacevole stile da autodidatta preciso nella sua essenzialità, gli spostamenti delle truppe con particolare riferimento a quelli della battaglia del Volturno dell'1 - 2 ottobre 1860. In allegato al manoscritto ho trovato anche un suo bel disegno a colori, in formato un poco più grande di una cartolina, della prima casa di Garibaldi a Caprera. Sicuramente Parodi copiò l'abitazione del suo generale dall'iconografia dell'epoca, ma lo fece con amore e dedizione in memoria della sua indimenticabile avventura giovanile.Francesco Parodi , nato a Genova l'8 marzo 1840, proveniva da una famiglia borghese. I genitori, Luigi fu Gaetano e Angela Pedemonti, risiedevano a Genova. Un suo fratello era medico nel capoluogo ligure. Il Parodi si sposò, sempre a Genova, il 12 ottobre 1872 con Clementina Marini, nata a Milano l'8 maggio 1853, "maestra superiore". Queste notizie le ricavo da appunti del Nostro e dall'Atto di matrimonio dove figura anche la sua professione di "segretario comunale" residente a Carro, in provincia di La Spezia. Il 24 giugno 1905 la famiglia Parodi si trovava a Taglieto nel comune di Varese, come si evince dalla nota apposta, prima della firma, alla fine della prefazione delle memorie. I coniugi avevano quattro figli viventi: Vittoria, Mario, Angiolina e Giambattista, mentre un quinto, Garibaldi, era deceduto. Il garibaldino genovese fu decorato di medaglie in argento al valor militare per le sue gesta eroiche nella battaglia del Volturno, con annessa pensione vitalizia di L. 100 annue, con diritto di reversibilità alla moglie in caso di sua premorienza. Purtroppo non sono riuscito a conoscere la data della morte, comunque Clementina Marini divenne sicuramente vedova. L'ho potuto intuire visionando attentamente la copia della "domanda per la riversabilità della pensione dal marito alla moglie sulla Medaglia d'Argento al Valor Militare" intestata all'Ill.mo Sig. Intendente di Finanza di Genova che il previdente e scrupoloso garibaldino aveva preparato nel caso che la sua sposa ne avesse avuto bisogno. In questo facsimile il Parodi disegnò addirittura il bollo da lire 2 che doveva essere applicato sulla domanda, mentre alla fine della stessa aveva elencato tutti i documenti che dovevano essere uniti a corredo, tra cui il "Certificato di morte" che successivamente fu spuntato a matita. Altri due particolari stanno a dimostrare che questa domanda fu, un giorno, ricopiata ed usata: l'usura delle quattro facciate (formato quaderno) che furono piegate in quattro e un appunto a matita, di calligrafia diversa da quella del Parodi, con scritto: "atto di morte in carta libera". Questo foglio volante, affinché non si rovinasse ulteriormente, l'ho incollato alla fine delle memorie. Prima di lasciar parlare l'autore, simpatico personaggio figlio di un'epoca di grandi ideali, che scrisse i suoi ricordi non certo per la stampa ma per i figli e per i suoi discendenti (che non hanno evidentemente tenuto conto delle sue aspettative), riporto tutti i dati che ho potuto ricavare dal suo stato di servizio come volontario dell'Esercito Meridionale: faceva parte della 16° Divisione (Prima Brigata comandata dal colonnello Damiano Assanti); 2° Reggimento (colonnello Borghesi); 2° Battaglione (maggiore Setti); 5° Compagnia (capitano Pietro Cernuschi, luogotenente Mondola, sottotenente Gandina). Fu promosso caporale e gli fu conferita, come già anticipato, la medaglia in argento al valor militare con numero d'ordine 5678 (Brevetto del 26 marzo 1833, legge del 31 dicembre 1848) firmato il 18 dicembre 1861 dal Segretario Generale E. Bertolè Viale. Ricevette altre medaglie: a) medaglia commemorativa per l'Indipendenza e l'Unità d'Italia in argento istituita con R. Decreto in data 4 marzo 1865 al Furiere Parodi Francesco ascritto al n° 1401 di matricola nel 6° Reggimento Granatieri di Napoli; b) medaglia in argento commemorativa dell'Unita d'Italia istituita dal re Umberto I; c) medaglia in rame per la liberazione della Sicilia nel 1860 rilasciata dal Prefetto della Provincia di Palermo A. di Casilla il 20 novembre 1863. Per la compilazione della sua narrazione, intitolata Campagna dell'Italia Meridionale in Sicilia e nel Napoletano - 1860, si affidò sia alla memoria (e queste sono le pagine migliori), sia alla memorialistica contemporanea e in particolare, per illustrare la situazione politica di quell'anno fatidico, alle opere di alcuni protagonisti del Risorgimento. Precisa al riguardo che "fra i molti libri che ho letto il più veritiero trovai il 'Garibaldi' di Alberto Mario; epperò da questo ne ho attinto la maggior parte delle notizie, tanto più che lui, ufficiale d'ordinanza di Garibaldi e addetto al suo stato maggiore ha compilato il suo libro su dati certi e quindi merita tutta la fede". È superfluo specificare che Francesco Parodi era repubblicano, anche se non manca di ringraziare "Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II" per avergli conferito la medaglia al valor militare, "per cui posso lasciare un rispettoso e grato ricordo alla famiglia [....] che trovandosi a parlare di me, come garibaldino, non avrà da abbassare la fronte". Ma ecco qui di seguito trascritti alcuni dei passi più significativi tratti dal manoscritto del Parodi.prefazione Una prima bozza di consimile, ma più ristretto lavoro, l'aveva fatto appena ritornato dalla campagna del 1860, registrandovi a mente fresca e col brio della mia gioventù, date, circostanze, impulsi ed emozioni, viste e provate, perché se col tempo mi sfuggissero dalla memoria, potessi riferirmi allo scritto. Quella bozza la conservò mia madre per tutta la sua vita, e morta che fu, nel 1879, la trovai fra le sue carte ed io la conservai fino al 1899, quando in un cambiamento di abitazione andò smarrita. Negli anni 1899 e 1900, quantunque in maturità, ricordandomi ancor benissimo quanto aveva visto, provato e scritto, compilai un'altra bozza un poco più estesa della prima, ma quando l'ebbi ultimata, per una inavvertenza dei miei famigliari, andò distrutta. E nel 1901 ritentai la prova per la terza volta, incominciando questo lavoro ancora per bozza, per cui al principio lo si vedrà scritto su quaderni di scuola da fanciulli, con inchiostro ordinarissimo, con cattiva calligrafia, pieno di correzioni e di rattoppamenti; ma inoltrandomi nella descrizione dei fatti, questa volta più dettagliatamente, pensai che poi non avrò più il tempo o la voglia di ricopiarlo, e allora sebbene a migliaia di riprese nei momenti rapiti al riposo, lo tirai innanzi più ordinatamente e con l'ostinatezza di volerlo finire; ed infatti vi sono riuscito, ultimandolo il 14 Giugno 1905; cosicché lo presento come lavoro fatto intieramente in bello. perché ho voluto fare questo lavoro? Il perché è quello che raccontando sinceramente i fatti visti coi miei propri occhi, chi leggerà queste pagine saprà discernere la verità dai travisamenti scritti in molti libri da un partito tendente ad abbassare le glorie dell'Eroe, che fanno ombra ai generali dell'esercito regolare, e a chi era alla direzione della diplomazia piemontese e al suo governo. È vero che Giuseppe Garibaldi è un grande che non può temere le animosità di un partito minimo, ormai annientato, e che anzi sapendole tali lo fanno più grande ancora, ma queste animosità bisogna saperle rilevare, se no, i travisamenti non combattuti dai presenti all'azione, potrebbero far nascere qualche nube nella mente dei contemporanei ed essere tramandati ai posteri per moneta sonante. Epperò da parte mia mi adoperai a tale scopo, per cui credo che i lettori e specialmente i miei discendenti, sempre con mente serena, conosceranno che Garibaldi riuscì a liberare gli otto milioni di fratelli italiani delle Due Sicilie fra le più acerrime ostilità diplomatiche e le più difficili condizioni militari; mettendo in opera il motto di Giuseppe Mazzini "Volere è potere". quali particolarità ha questa campagna di guerra a confronto delle altre? Si comprende benissimo che un governo o un principe che voglia fare una guerra, prima la studia per qualche tempo, la eccita, ne prepara i fondi, gli armamenti, gli eserciti, gli equipaggiamenti, e poi quando ha tutto al completo la fa scoppiare; e allora si può vincere. Ma un popolano, col governo contrario o indifferente negli aiuti, all'improvviso, con scarsissimi mezzi e pochi uomini, va contro uno stato ricco di denaro e di poliziotti, difeso da formidabili armate compresa una flotta che guarnivano il mare, le città e le fortezze e tutti i passi, e tutte queste forze con gloriosissimi e quasi leggendari combattimenti le fuga da prima, e poi sebbene guidate dal loro re in persona, le vince, le fa prigioniere o le costringe a capitolare; e quindi padrone di due regni e nell'attitudine di andare alla conquista di altri con saldo amor di patria, cede alle mene tesegli dall'invidia, dona i regni al re che lui ha fatto eleggere, e col più grande suo sacrificio di non poter prima di cedere il comando dei suoi volontari, liberare altri milioni di fratelli schiavi, con tale ingrata ricompensa se ne ritorna alla sua relegazione volontaria od imposta, ma immortalizzato. E che del suo piccolo e povero esercito ne sarebbe avvenuto come Egli profetizzò, cioè che: "I Mille si dovevano moltiplicare per mille e formare il milione"; vale a dire che dal nulla in poco tempo avrebbe formato un poderoso esercito capace a mandar via lo straniero; sono fatti così salienti che non hanno riscontro e da servire di lezione al governo pel sistema dell'armamento e della difesa nazionale. Epperò questa campagna diretta da un uomo così eccelso nel sistema popolare, va distinta dalle altre. ordine di descrizione usato Sebbene coll'aiuto del libro: "Garibaldi", di Alberto Mario io per non divagare la mente del lettore, ho descritto i fatti in ordine cronologico, cioè, progressivamente come sono avvenuti, cosicché non troverà mai un fatto descritto anzitempo avvenuto, ma per la composizione di essi nel libro, veggasi l'Indice. domanda di compatimento Orgoglioso di aver preso parte a questa gloriosa campagna di guerra che unì un terzo d'Italia alla madre patria e perciò di aver contribuito alla liberazione di così tanti fratelli schiavi, lascio queste memorie alla mia famiglia chiedendole venia di tanta baldanza, ma colla fiducia che questo libro qualcuno dei miei lo conserverà per mio ricordo. Dato a Taglieto in Comune di Varese il 24 Giugno 1905 parodi francesco Le memorie vere e proprie prendono l'avvio dopo una nota, l'indice dei capitoli e l'indice dei "tipi". arruolamento, partenza e viaggio per palermo [...] All'appello di Garibaldi che faceva da Palermo io rispondeva il 15 Giugno facendomi inserire nei suoi volontari al comitato d'arruolamento presieduto dal Dottor Bertani ed insediato in Genova in via dei Garibaldi (ora Davide Chiossone) al 1° piano della casa n° 4 rimpetto alla chiesa di S. Matteo, ove mi si disse di star pronto per la prima partenza della quale non era ancora fissato il giorno. Epperò continuai nei miei affari tenendo d'occhio i lavori del comitato finché ripassatovi il sabato 30 Giugno mi fu detto "Venite lunedì mattina". Infatti il lunedì 2 Luglio mi diedero, come agli altri, il biglietto d'arruolamento col semplice scritto a stampa "Soccorso a Garibaldi" e l'avvertimento di trovarmi verso sera nella cava Bonino alla Chiappella (vicino a porta Lanterna) luogo di riunione della spedizione comandata dal colonnello Cosenz. All'uscire dal comitato ci unimmo in tre, Alessandro Demicheli, certo Terrile ed io, genovesi, mai conosciutisi, ma diventati subito amici e compagni c'inviammo per la Chiappella. Nel tragitto fummo veduti da un amico di mio padre che sapendo di quella partenza la nostra compagnia lo insospettì e indovinando la nostra intenzione si prese la briga di mandare il mio fratellino Gerolamo ad avvertirne detto mio padre, per cui mentre mi trovava sulla strada, dinnanzi alla cava, fra i giungenti venni sorpreso dai miei genitori che mi esortarono a tornare indietro. Mi si accompagnai per trarli dalla folla. Tentai di farli acconsentire alla mia risoluzione, ma mio padre non voleva, ed io insisteva, e tanta forza d'animo la traeva dal contegno di mia madre che, come donna spartana, pareva non disapprovasse la mia volontà. Infine li pregai a lasciarmi e li salutai. Allora mio padre vedendo inutili le sue istanze, piangendo, si staccò. Era rassegnazione o forse pensò che lasciandomi senza addio io rinvenissi ancora e più tardi tornassi a casa? Mia madre mi diede due svansiche (L. 1.76) (pochi soldi infatti aveva prima) mi salutò, ci baciammo e ci separammo. Quella era una delle poche disubbidienze che feci ai miei genitori. Ma l'amareggiamento che ne portava era alleviato dalla soddisfazione di averli ancora potuti salutare [...]. Attraversammo la calata ove lì vicino stava maestoso e pronto a riceverci il piroscafo francese Provence, che mediante imbarcazioni salimmo al suo bordo consegnando all'ingresso la cartella come passeggeri e restammo pel bastimento alla rinfusa. Eravamo 800 (ottocento) volontari. Si sentivano tutti i dialetti d'Italia che distinguevano i Volontari dall'equipaggio che parlava il francese. Mare tranquillo, cielo sereno. Verso le 17 pom. il Provence incominciò a salpare e a trovarsi sulla boa. A mezzanotte incominciò a vogare l'elica e a filare dolcemente dinnanzi al molo nuovo lasciando addietro il porto, la città e le montagne che divenendo sempre più piccole a misura che ci allontanavamo, finalmente le perdemmo totalmente di vista. Erano terminate le particolari cene e le conversazioni. Tutti si erano coricati alla meglio e anch'io cercai un cantuccio in coperta e vi adagiai raggruppato nel mio cappottino, ma tra la freschezza della notte il pensiero del distacco doloroso dato ai miei genitori e al dispiacere che avrò pure arrecato ai miei fratelli e alle sorelle, non mi lasciarono prender sonno; sicché dopo qualche ora di pensamenti spuntò l'alba di un'altra limpida giornata e la brezza mattutina per un momento mi fece andare per caldo vicino alla macchina e poi a contemplare, siccome a me era la prima volta che lo vedeva, il magnifico rotondo dell'intiero orizzonte, cioè il puro specchio d'acqua e cielo che ci circondava [...]. All'alba del giorno 5 sbarcammo sul molo [di Palermo, n. d. r.]. I cancelli per entrare nel suburbio erano chiusi e vi stava al di là in sentinella un garibaldino siciliano abbastanza fiero che per tema che li volessimo aprire abbassava la baionetta a chiunque vi si avvicinava. Prima ancora che si alzasse il sole un allarme di quella sentinella ci fece accorrere in rango mentre quei cancelli si aprirono ed ecco comparire il generale Garibaldi a cavallo colla camicia rossa e il cappello nero a larghe tese e alta cupola, accompagnato da un suo aiutante. Naturalmente fu accolto al grido di "Evviva Garibaldi" e a cappelli in alto. Ricevuto militarmente dal colonnello Cosenz a piedi, Garibaldi sorridente ci passò in rivista riconoscendo alcuni suoi commilitoni; poi messosi al centro della nostra fronte all'incirca disse: che avendo saputo fin dalla sera antecedente del nostro arrivo, quella mattina volle venirci a trovare e che era contento di vedere, pure questa volta, tanti giovinotti accorsi sotto di lui per fare qualche cosa alla causa Nazionale. Quindi sceso da cavallo, e così il suo aiutante, e con Cosenz, tutti e tre presero imbarco in una lancia per mare e si diressero in città. Noi per la via del suburbio si andò ad aquartierarsi alla villa reale della Favorita distante due miglia da Palermo [...]. Abbiamo dato una scorsa all'eroica Palermo passando tra le più solide barricate non ancora del tutto atterrate e le macerie di vari edifizi stati rovinati dalle cannonate del combattimento avvenuto per la sua presa. Ma il più che destava la nostra ammirazione era l'effervescenza di gioia di quella grande popolazione, da appena un mese redenta a libertà, stupita delle gesta dei suoi liberatori e dai miracolosi prodigi di Garibaldi per cui lo veneravano come una divinità. Molti caffè e moltissimi negozi avevano esposto il suo ritratto coi lumi accesi. Quand'Egli passava per le contrade oltrecché tutti scoprirsi il capo tanti s'inginocchiavano commossi alle lacrime star in adorazione finché la vettura non li aveva oltrepassati d'un tratto. Generale era la fiducia che avrebbe liberato, non solo la Sicilia e il Napoletano, ma anche il resto dell'Italia oppressa. Tutto doveva dimostrare un'espressione garibaldina, perciò ogni persona portava all'occhiello un segno rivoluzionario, una cocarda, un nastro tricolore; perfino i preti avevano un nastro rosso nel cappello e le donne o un fazzoletto rosso al collo o un nastro in testa. Quasi tutti poi facevano parte della improvvisata Guardia nazionale per cui anche questi adottarono la camicia rossa, e chi non aveva fucile imbrandiva in servizio un bastone con un chiodo in cima, un coltello o una lama qualunque, bastava che fosse un simbolo che in tempo di guerra per scacciare la tirannide qualunque arma è buona, come Garibaldi aveva loro emanato con un proclama; e guai a chi non avesse portato il segno di acconsentire alla rivoluzione, sarebbe stato stilettato! Da tutte le abitazioni sventolava la bandiera italiana con lo scudo dei Savoia. E generale era pure l'entusiasmo pel nuovo stato di cose e per quelle che si andava preparando. Ogni aiuto era prestato in tutte le ore, epperò tutto si rendeva possibile e facile. Nei quartieri militari si procedeva agli arruolamenti e alla organizzazione dei nuovi corpi e battaglioni. In altri locali erano già arruolati in numerose squadre piccoli ragazzi pur essi vestiti alla garibaldina e col bastone inchiodato; altro simbolo che l'innocenza attende dagli adulti la rivendicazione delle offese patite, siccome eglino erano figli dei danneggiati dai borbonici, specialmente gli abitanti di Carini che per aver simpatizzato e favorito la rivoluzione fu quasi distrutta. Questi teneri fanciulli come prendevano la paga giornaliera la porgevano ai loro genitori in attesa di ciò lì fuori le caserme, ridotti senza pane e senza letto! Sulle piazze, nei viali e nei d'intorni dei quartieri milizie d'ogni arma e manovra. Per le strade, transito d'oggetti d'armamento e di vestiario pei volontari. Insomma dapertutto ferveva lo spirito guerriero. Meravigliati di tanto patriotismo ritornammo alla Favorita a rispondere all'appello della ritirata. Nel giorno 6 furono scelti i giovani per l'artiglieria, il Genio, ecc., secondo la loro arte o professione [...]. Domenica 8 grande rivista in piazza d'arme passata dal dittatore. Di buon mattino tutti i corpi combattenti, compresa un'altra spedizione giunta il giorno innanzi della Divisione Medici, convenimmo nel vasto campo sotto il monte Pellegrino, cioè battaglioni di Picciotti siciliani, Divisione Medici, e Cosenz; Artiglieria, Genio, Carabinieri genovesi comandati dal capitano Antonio Mosto, quasi tutti dei Mille, ecc. Tutti vestiti colla camicia rossa, ad eccezione dei Carabinieri genovesi che avevano il corpetto bleu, e noi della Divisione Cosenz tuttavia vestiti alla borghese e senz'armi. Quando arrivò Garibaldi tutte le fanfare intuonarono l'Inno. Al galoppo, seguito dallo Stato maggiore, si portò al centro, ricevuto, credo certo da un generale. Ci passò in rivista al passo. Ultimata, tenne rapporto coi comandanti superiori, poi si portò all'entrata della città e s'incominciò lo sfilamento tra due siepi laterali di fitta popolazione. A nostro turno passammo davanti a Garibaldi che immobile stava a cavallo ed a capo scoperto fissandoci con occhio severo. Egli era al centro di un semicerchio di personaggi, cioè: funzionari pubblici, consoli di nazioni estere, comandanti di terra e di mare e tale semicerchio fiancheggiato da notabilità in vettura con signore e di gran folla di popolo estatico a vederci passare, e che avranno, credo moltissimi notato dai nostri abiti borghesi, che eravamo di civile condizione od operaia. Colla stessa marcia ogni corpo rientrò in quartiere e noi, s'intende, alla Favorita ove ci attendeva il rancio, e mi pare che per quel giorno non si fece altro servizio per cui alla libera uscita andai ancora in Palermo ad osservare l'animazione della città e ad impostare una lettera per la mia famiglia. Nel giorno 9 si ricevette il vestimento garibaldino con coperte da campo, tascapane, borraccia e l'armamento. Epperò dopo il meriggio visita d'abbigliamento, rancio e libera uscita con ordine di vendersi gli abiti borghesi, ciò che facemmo per poche lire a strozzini [...]. Ormai dunque si aveva l'aspetto di essere organizzati e certamente a Garibaldi premeva d'inviarci verso Messina, perciò in quella notte si partì per Bagheria [...]. Alla sera del 18 si dormì sulla spiaggia e si giunse a sole alto del 19 a Naso ove si fece il rancio e prima di sera si arrivò a Patti. Qui si seppe che poco prima vi era sbarcato e transitato il generale Garibaldi con alcune squadre della nostra divisione; Egli andava a decidere la sorte di Medici che ci aveva preceduti, con Bosco padrone di Milazzo e che da qualche giorno si molestavano. Gli ordini che trovò a Patti il nostro comandante erano pressanti perché dopo un breve riposo si partì a marcia accelerata, e la tappa fu lunga e faticosa. Al mattino del 20 si arrivò a Barcellona (ove si ricevette galletta, carne secca e vino, e pur qui dopo breve riposo), e c'indirizzammo verso Milazzo ove si sentiva acceso il fuoco [...]. Giunti sul campo di battaglia ci fu affidata la difesa della strada per Barcellona proteggendo le comunicazioni con questa grande borgata e specialmente in quelle ore il trasporto dei poveri feriti, in gran parte ragazzi, i quali venivano alla meglio adagiati sui barocci e baroccini malgrado le loro orrende ferite, seguendo l'andamento del combattimento siccome la mira di Bosco era quella di sfondare questa nostra ala sinistra. Per l'assalto decisivo ci venne dato l'ordine di avanzare definitivamente; ciò che si fece con tutta velocità per levarsi presto dalle offese del forte, però trovando riparo coll'arrivare a contatto cogli accaniti suoi difensori, ma giuntivi risolutamente addosso li fiaccammo dal ponente dell'istmo verso l'unica porta di Milazzo, mentre Garibaldi cogli altri corpi incalzandoli vigorosamente di fronte e dall'altro lato, lui primo entrò in città e di seguito irruenti entrammo tutti, fugando i regi nel castello. Cosenz rimase ferito al collo. Presa la città e cessato il fuoco prendemmo posizione d'assedio quasi rimpetto l'entrata del castello medesimo [...]. Sicché firmata la resa, in quel giorno ci schierammo dallo spalto alla rada ai regi con Bosco alla testa rendendo loro gli onori militari, e s'imbarcarono. Quando i loro piroscafi partirono fecero le salve, a cui il castello, che aveva inalberato la bandiera italiana nostra, rispose, mentre le nostre fanfare intuonarono l'Inno. Dunque pur Milazzo era libera, e noi si prese accampamento fuori città a ponente della porta. Il 26 fui comandato con altri tre compagni di andare a scortare il bagaglio del reggimento lasciato a Barcellona. Quivi si ebbe la tristezza di vedere questa brigata trasformata in ospedale. Da per tutto feriti gementi; l'ospedale, le chiese, il convento e i cortili ne erano pieni, adagiati su pagliericci ed anche a paglia a terra. Nella case molte famiglie ne avevano pure accolto. Per le strade ovunque s'incontravano garibaldini imbendati. La popolazione ne era commossa e loro prestava caritatevoli cure. Affacciatomi, mi pare, ad un oratorio dove si sentì gridare, amputavano una gamba ad un ragazzo. Ogni poco portavano qualche cadavere al sepolcro. Poveri infelici, dopo aver sofferto tanti dolori scendevano nella tomba inconsolati! ma almeno questi avranno avuto miglior sepoltura di quelli morti sul campo di battaglia che l'ebbero sulla spiaggia del mare e le loro ossa non si rinverranno mai più. In mancanza di carri l'ufficiale ricorse a due barche e queste vennero caricate quasi soverchiamente. Il mare era assai mosso, nondimeno alla stessa sera si partì e finché le onde ci investivano di prua il pericolo non era molto, ma giunti al largo che dovemmo virare a destra per sorpassare il capo e riceverle perciò di fianco, sembrava che ci volessero rovesciare od inghiottire. Io ad ogni buon fine mi sciolsi dalla coperta, del tascapane e della borraccia per essere più pronto al nuoto, ma i barcaiuoli erano abilissimi, il capo lo superammo ancor di notte e al levar del sole arrivammo in Milazzo senza male, tranne qualche poca avaria [...]. Il 18 Agosto Garibaldi coi piroscafi Franklin e Torino prese la brigata Bixio a Taormina (tra Messina e Catania) e il mattino del 19 sbarcava a Melito (in fondo allo stivale), e il 21 s'impossessava di Reggio. In questo mentre, cioè nella notte del 20 la nostra brigata (Assanti) alla quale si erano unite una compagnia di bersaglieri garibaldini e la compagnia dei carabinieri genovesi comandata dal suo capitano Antonio Mosto; tutti agli ordini del generale Enrico Cosenz, riceveva due pacchi di cartucce in aggiunta agli altri due che avevamo; due gallette e un pezzo di carne salata, secondo al solito poca roba, poiché alla scarsezza delle munizioni da guerra vi si suppliva colla baionetta, e alla provvigione da bocca si faceva sovente affidamento alla divina provvidenza e al patriottismo degli abitanti. Nel massimo silenzio e nella perfetta oscurità c'imbarcammo in centotrenta circa barche da pesca (ogni barca conteneva 6 rematori e 12 garibaldini) che il Dittatore aveva fatto requisire a Milazzo e tenute nascoste nel canale che da questa città sbocca al Faro. Così imbarcati si stette qualche ora in attesa del momento opportuno di poter schivare la vigilanza della crociera nemica che pattugliava per lo stretto, ma verso le 2 antimeridiane (del giorno 21) fu passato, sottovoce il comando "avanti" e i rematori, tutti siciliani, si misero a vogare seguendo quattro barche cannoniere che erano in testa. Si percorse una diagonale a sinistra per star larghi dalla fortezza di Scilla la quale però appena fattosi giorno, vedutici, non mancò di farci fuoco addosso, per cui ci fu dato il comando, allora a voce alta di "sparpagliamoci" cosicché le palle di cannone bensì arrivavano fra noi, ma né direttamente né coi loro salti colsero mai alcuna imbarcazione. Anche i forti di Alta Fiumara e Torre Cavallo siti sopra Villa S. Giovanni ci indirizzarono fuoco ma da questi eravamo ormai fuori tiro; però i loro spari valsero a richiamare sulla nostra orma una fregata nemica, la Borbona, che dopo poco ci comparve in vista nello stretto, mentre noi eravamo ancora al largo, press'a poco a quattro quinti di cammino. Ma Garibaldi aveva preveduto simili circostanze e vi provvide facendo erigere sulla spiaggia del Faro una batteria provvisoria con pezzi di grosso calibro la quale più della torre ivi esistente, obbligò la Borbona a rallentare la sua corsa, e al timore balenatoci di essere fatti prigionieri, sentendo subito i forti rombi dei cannoni di quella batteria, ci subentrò la certezza di poter compiere la nostra traversata, ed infatti un altro comando più imperioso di "rinforzate a tutta possa la voga" e allora molti di noi ci attaccammo ai remi in aiuto ai poveri siciliani quasi esausti, e con ciò si volava sul mare [...]. Lo sbarco avvenne tra Scilla e Bagnara [...]. Con tutta celerità si ascese per una ripida e cattiva strada mulattiera che ci affannò per più ore. Giunti sul primo altipiano ci trovammo in direzione di Solano [...]. Arrivati pei primi al di là della barriera, il mio capitano, e pochi uomini della mia compagnia, fra i quali chi scrive, ci ordinò di sostare in attesa della colonna, ma alcuni, trasgredendo a quest'ordine, entrarono in paese in cerca di cibo. Tale trasgressione ci fu però provvidenziale perché quelli furono scoperti dal nemico che appunto allora arrivava a Solano dalla parte opposta contro di noi e credendoci già padroni del villaggio cominciò a schioppettar quelli fermandosi in esplorazione fuori del paese medesimo. Quelle fucilate furono il segnale d'allarme per tutta la colonna. Noi pei primi entrammo subito nel paese per impedire al nemico che vi entrasse prima lui e ci appostammo nelle viuzze facendo fuoco alla cieca, cioè verso i colpi nemici, perché a causa delle fitte boscaglie il nemico non si vedeva [...]. Questa scaramuccia durò circa un'ora, cioè dall'una alle due pomeridiane e fra altre cose ci causò la perdita del valoroso capitano De Flotte, francese, morto da una palla in fronte mentre da una fornace, sita appena fuori dell'abitato, dirigeva il fuoco di pochi militi; e di una quindicina di feriti tra i quali un ufficiale dei bersaglieri garibaldini da una palla nell'inguine sinistra, e di una donna di Solano la quale aderendo volonterosamente alla nostra richiesta d'acqua mentre si combatteva nelle viuzze del paese, al ritornare dalla fontana, attraversando la strada in faccia al nemico, per portarci da bere, fu colpita da una palla di moschetto in una gamba, sotto il ginocchio, che la fece stramazzare a terra. Si fecero 18 prigionieri. Qui il Parodi inserisce la seguente bella nota: Nel gennaio del 1864 mi trovava in Arezzo sergente d'amministrazione del 6° Reggimento Granatieri dell'esercito regolare quando nel registrare le generalità dei coscritti ne trovai uno di Solano. Andai subito in cerca di lui e lo trovai. Era un ardito calabrese, gli domandai se era in paese all'epoca di quella scaramuccia, ed avutone risposta affermativa gli domandai conto di quelli feriti. Sono morti tutti mi rispose. Come, gli dissi? E per mancanza di cura, e soggiunse: Tutti furono vittima della cancrena. Sicché dissi ancora: Anche quell'ufficiale e quella donna? Sissignore. Nel Martirologio Italiano, sotto la data 21 agosto 1860, trovai il venerando nome di De Flotte e degli altri militi morti a seguito di quel fatto d'arme, ma non quello di quella povera donna. Che forse non fu anch'essa una martire dell'Indipendenza ed Unità d'Italia, o fu dimentica?... Il Comune ve la dovrebbe far inscrivere [...]. L'8 settembre a Morano, in marcia, verso le otto del mattino incontrammo la corriera colla bandiera tricolore che ci diede la grata notizia che Garibaldi era entrato in Napoli il giorno innanzi. A tale annunzio naturalmente si gridò "Evviva Garibaldi" e tra patriottiche canzoni in quel giorno si giunse a Rotonda ove per la dirotta pioggia si partì al domani sul pomeriggio per Lauria. Alla sera del 10 si arrivò a Lagonegro ove si ebbe un'altra buona notizia cioè di non battere più la strada nazionale, ma di voltare per Sapri dove saremo imbarcati e trasportati a Napoli. Sicché abbiamo qui pernottato nei corridoi del convento dei frati e al domani si giunse a Sapri ove non si vedeva anima vivente. In questo paese, in fondo al golfo di Policastro, nel 1857 ai primi di luglio, vi sbarcò la spedizione di Pisacane che si prefiggeva di sollevare, fin d'allora, l'insurrezione contro la dinastia Borbonica, ma che la sua generosa impresa fu sedata dai gendarmi aiutati dai contadini di quei luoghi, per cui vi lasciavano eroicamente la vita Pisacane e molti dei suoi valorosi compagni, quasi tutti di Lerici. Ed ora al sole di libertà e alla vista di nuovi militi con lo stesso fine, questa popolazione o temente di qualche insulto, o vergognata, o tuttavia contraria, o indifferente, stette rinchiusa, e ci vollero delle ingiunzioni per avere l'occorrente per fare il rancio nei giorni 11 e 12 di nostra permanenza in questo luogo. Il giorno 12 vennero due piroscafi già della marina da guerra napoletana, e testé passati al servizio garibaldino, che c'imbarcarono, e si salpò nel pomeriggio con mare assai mosso, giungendo a notte nella darsena di Napoli. Al mattino del 13 si prese sosta nel castello dell'Arsenale. a napoli Sebbene in quel giorno sia stato comandato quartigliere trovai un compagno che gentilmente mi rilevò per qualche ora per andar a vedere la città, ma appena uscito dal castello, vedendo che per appagare, anche in parte, il mio desiderio, non sarebbe bastata una intiera giornata, mi accontentai di fare un più ristretto giro e fra una moltitudine di persone e di vetture transitanti per ogni senso, guardie nazionali, soldati borbonici disarmati e pochi garibaldini ascesi via Toledo, girai sotto il palazzo d'Angri ove stava Garibaldi e ritornando per via Medina andai a Basso Porto ove in una di quelle osterie presi qualche cibo e quindi ritornai tosto a riprendere il mio servizio, sperando di meglio riveder Napoli al domani forse con qualche ora di più libertà. Ma in guerra non si possono fare simili conti. Fatto appena sera suonò la raccolta e la brigata in armi si andò difilati nella stazione ferroviaria in attesa di partenza. Il treno non potendoci trasportar tutti in una volta, fatto notte portò via solo il 1° reggimento e il 2° facemmo i fasci d'arme fuori dei binari attivi e si stette in aspettativa del ritorno di quel treno, e con scarsi lumi quasi allo scuro, inconsci del luogo, ci coricammo tra i binari attivi e quelli di scarto. Quand'ecco verso l'alba arrivando il treno vuoto il maggiore del 1° battaglione, un napoletano, vedendo che qualche volontario coricato troppo vicino alle rotaie attive corresse pericolo di essere schiacciato elevò il grido di: "fuggite, fuggite...". A tal grido d'ansia di una voce conosciuta, d'un nostro superiore, alzata fra il silenzio dei sonnolenti, spaventò tutto il reggimento ignorando qual pericolo ci sovrastasse, e bastò perché presi da panico in un baleno ci alzammo e all'impazzata si andò per ogni angolo della stazione rovesciando i fasci dei fucili. Insomma un fuggi fuggi senza saperne il vero motivo, finché quel superiore accortosi del suo cattivo ordine, cercò di riparare al panico elevando la voce alla calma, coè: "A posto - a posto, non vi è nulla di male" - e ripetuta questa assicurazione, si ritornò a formare i ranghi e allora si seppe la causa dell'inconveniente. Fatalità, riprendendo i fucili da terra, il primo che allo scuro toccai, lo conobbi pel mio. Intanto l'alba spuntò e per quell'accidente si riconobbero circa dieci feriti che furono inviati all'ospedale. a maddaloni e a caserta Saliti nei vagoni il treno ripartì. Arrivati a Maddaloni si scese - e gli ufficiali ci dissero: "qui siamo nuovamente davanti al nemico, quindi non vi allontanate mai dal reggimento e dalle armi - State a portata di tromba almeno". Sul pomeriggio si partì e si arrivò a Caserta sull'imbrunire dello stesso dì 14 e si andò nel quartiere di S. Carlino. L'esercito garibaldino andava prendendo posizione sulla riva sinistra del Volturno, intorno a Caserta ove qui ben presto vi si stabilì il quartier generale garibaldino, perciò in questa città si faceva stanza alle riserve, delle quali ne faceva parte la nostra brigata, sotto gli ordini del generale Sirtori. Al domani 15 si ammalò gravemente il compagno Demicheli che lo accompagnai all'ospedale militare. Nello stesso giorno io sono stato fatto caporale e lasciato alla stessa compagnia. Qui si faceva il servizio d'avamposto sulla linea di battaglia che si andava formando, e a nostro torno si andò a S. Leucio sotto la molestia delle granate dei regi accampati sulla riva destra del fiume (cioè al domani l'altro della ritirata il 24 e ritornati il 25 a S. Carlino a Caserta). Intanto le burrasche di questa seconda quindicina di settembre incominciarono a farci sentire il fresco d'autunno, specialmente alla notte, sicché in questi giorni si ricevettero cappotti e pantaloni di panni grigi scuri eguali a quelli dei soldati piemontesi. In questi giorni avvenne lo sfortunato fatto d'arme di Caiazzo che obbligò i nostri comandanti a prendere misure di difesa. Quindi nella notte dei giorni 25, 26 e 27 non si dormì più nei cameroni ma nella corte del quartiere di S. Carlino; ed in previdenza di una vicina grande battaglia nelle notti dei giorni 28, 29 e 30 Settembre si andò a dormire sulla piazza, davanti al palazzo reale ove abitava Garibaldi e sede del quartier generale. Ed eccoci giunti al momento critico della battaglia del Volturno, di cui il Parodi rivive così le fasi salienti: Certamente il generale Sirtori a Caserta circa le ore 4 antimeridiane riceveva per telegrafo da S.ta Maria la notizia dell'attacco e l'ordine d'inviar subito colà una brigata, sicché venimmo destati al comando di: "Su, su, presto il rango" e appena in piedi la brigata si portò a distendersi sullo stradale che mette a S.ta Maria, al lato destro del palazzo reale. Senza segnale di tromba ci venne fatto l'appello, contate e ricontate le file, cioè verifica e controllo del numero dei presenti; formati i pelottoni completandogli degli ufficiali ecc.; cambiati i pacchi sdruciti di cartucce con dei nuovi; tutto ciò con sollecitudine e sotto la sorveglianza del generale Sirtori, che nella semioscurità si distingueva dal suo mantello bianco su di un cavallo scuro, che ogni poco diceva: "presto, presto", indi ci fu dato il comando: "Per quattro fianco destr" e via per S.ta Maria [...]. La marcia era silenziosa, monotona; incominciò a passo ordinario e via via divenne accellerato, come si solleva fare nei casi premurosi. Nessuno della bassa forza, come al solito, si sapeva ove si andasse, perché gli ufficiali non lo dissero, ma la sollecitudine della marcia richiamandoci la serietà dei preparativi di partenza ci faceva fiutare qualche cosa di straordinario ma non se ne immaginava l'importanza. L'alba a poco a poco andava rischiarando una giornata perfettamente serena e quando appena si distinguevano quei luoghi s'incominciò a intendere in lontananza, d'innanzi, uno scarso ma continuo schioppettio che sembrava uno scontro di qualche pattuglia, e mano a mano che le colline ci facevano scoprire la pianura su pel Volturno, cioè a destra, tale schioppettio si sentiva esteso anche per tutta quella parte, e più si andava innanzi più il fuoco cresceva e si estendeva tanto a destra che a sinistra e si avvicinava [...]. Il nostro colonnello brigadiere Assanti ci precedette per andare a ricevere gli ordini dal generale Milbitz. Alle 6 si arrivò in S.ta Maria ed il nostro arrivo fu salutato da una granata venuta a scoppiare sopra il nostro reggimento, che però non offese nessuno. L'aspetto di questa cittadina era del tutto battagliero [...]. Intanto il nostro colonnello, Borghesi, romano, portandosi dinnanzi la fronte del reggimento, volle darci le seguenti esortazioni: "Figlioli andiamo al fuoco; ognuno di voi sappia fare il suo dovere. State attenti ai comandi onde il combattimento non degeneri confusione. A nessuno è permesso, senza ordine di un ufficiale, di scartarsi dai ranghi, né per portar feriti né per qualsiasi altro motivo; già lo sapete, sotto pena di severissimi castighi. Il generale Garibaldi è qui con noi e ci saprà condurre alla vittoria. Dunque coraggio né...". Indi soggiunse: "Preparatevi i fucili e le cartucce sfasciate". E il capitano a sua volta: "Avete inteso? Attenti agli ordini, non fate confusioni e coraggio". E quindi gli ufficiali raccomandarono le solite precauzioni cioè: "cambiate la capsula, provate la ghiera della baionetta. Le cartucce sieno sciolte e in cima del saccapane. Badate di non sprecare colpi ma di sparare quando siete certi di colpire". Un ufficiale a cavallo viene a dire al colonnello che l'ospedale pei feriti è dietro la piazza del mercato, e che il servizio di trasporto è fatto da apposite squadre che sono già sul campo [...]. Ecco che torna Assanti e ordina: "Le baionette in canna". Indi: "Per fila destr, march" e s'inoltrammo per lo stradone che conduce a S. Angelo, cioè per la linea di battaglia. Spuntava il sole, erano le 6 1/2 [...]. Appena usciti dall'abitato gli scrocchi negli alberi, i zionf o fischi per l'aria e i nuvoletti per terra, ci fecero intendere la grandine dei proiettili alla quale si doveva sottostare [...]. Inizia l'attacco alla baionetta con il relativo urlo: "Savoiaaaa...", e allora con unanime grido, giù alla buona entrata in battaglia, ci framischiammo coi Borbonici a mischia ostinata da ambo le parti [...]. La battaglia infuriava da tempo quando erano quasi le 3 pomeridiane che noi eravamo giunti colle spalle contro l'abitato di S.ta Maria. Il momento era serio. Si stava per cercare posizione di difesa più sicura quand'ecco che si ode un coro di voci entro l'abitato. Chi è?... Il coro ripete, sembra di gioia? Ripete ancora più da vicino; è di gioia certo. E ripetendo ancora più da vicino s'intende: "Evviva Garibaldiii... Evvivaaa... C'è lui; si, Garibaldi, dunque coraggio". Era il grido delle riserve che arrivavano da Caserta col quale accoglievano il generale, che da S. Angelo le sopragiungeva in S.ta Maria. Difatti poco dopo, momento pittoresco: sullo stradone, tra il fumo degli obici e sotto la grandine dei proiettili si vide comparire per pochi istanti il Generale Garibaldi seguito da vari comandanti che loro additava il campo di battaglia. L'astro dava istruzione ai satelliti pel gran cimento decisivo che stava per dare. Veduta propriamente la figura di Garibaldi sono ad un tratto scomparse la fame, la sete e la stanchezza, divenimmo rinvigoriti, e al timore di essere sconfitti ci subbentrò nell'animo la fiducia, anzi la certezza di vincere e a ciò gli ufficiali ci incuoravano. Sciolto il breve colloquio dei comandanti con Garibaldi, viene a noi Assanti dicendoci che la brigata deve partecipare all'assalto definitivo che condurrà Garibaldi stesso; ordina al nostro maggiore (Setti, lombardo) di portare il battaglione sullo stradone a disposizione della colonna che marcierà contro i bavaresi per S. Angelo; avvertendo che le precise ingiunzioni del generale Garibaldi sono: di marciare risolutamente contro il nemico senza fare un tiro, e raggiuntolo di balzargli alla gola con la punta di baionetta che ne riporteremo indubbiamente la vittoria. E alla corsa si andò a chiudere quella colonna d'attacco. Con Garibaldi alla testa questa colonna tosto partì e marciò come un'onda furiosa del mare e malgrado che i forti nemici delle mostre gialle (i bavaresi) ci vuotassero ancora addosso i fucili cagionandoci molto sangue, nulla valse a trattenerla, sicché la testa della colonna li investì e li ruppe; allora il nostro battaglione uscì dal flusso sullo stradone e ci gettammo contro quelli che restavano tagliati sulla nostra destra e li avventammo ancor noi come dalla ingiunzione di Garibaldi, però a baionettate come andavano andavano; e malgrado la loro ostinatezza che ci opponevano e colle armi e colle invettive di "Briganta de garibaldina" li costringemmo a gettarsi sui loro compagni vacillanti sullo stradone, e qui atterriti da tanto impeto, quel corpo incalzato senza tregua, rotto e scompigliato voltò per la scafa di Triflisco da dove ne era venuto due ore prima. Per questo fatto le schiere di Medici presero anche loro l'offensiva e come d'intesa con Garibaldi ci raggiunsero e unitamente marciammo perpendicolarmente allo stradone, cioè verso il Volturno inseguendo i fuggiaschi; ma un intoppo ci soffermò, cioè alla batteria sulla strada che da S. Angelo va a Triflisco; quella stessa che i regi ci presero di buon mattino; un gruppo di nemici vi si arrestò nell'intenzione di farne punto di trattegno alla loro fuga. La mia compagnia framista ad altri volontari della divisione Medici andammo all'assalto e la prendemmo. Un caporale che animava i suoi soldati a rimanere fu da me ucciso con un colpo di fucile alla tempia destra. In premio il mio capitano mi ha fatto prendergli la sciabola e la tenni circa 32 anni. Le due colombrine d'acciaio le trovammo inchiodate, perciò inservibili; invece incolume il pezzo da campagna di bronzo. A fianco alla batteria vi era una casetta ove stava la munizione dei pezzi e ci servimmo anche di quella che stava nella batteria stessa. Un volontario, disertore della fanteria marina sarda e un volontario, disertore dell'artiglieria borbonica (se questo povero giovane fosse rimasto prigioniero lo avrebbero fucilato. Così il codice militare), che s'intendevano del maneggio del cannone, divennero servienti di quel pezzo da campagna, aiutati da altri volontari ed io capo pezzo, facemmo diversi colpi a mitraglia; mentre gli altri sparavano coi fucili al riparo della batteria, sugli ostinati a lasciare il terreno, scomparsi poi affatto cogli altri siccome investiti dai volontari di Medici che gl'inseguirono fino alla riva del fiume. Eran le 4 pomeridiane. Cessato il fuoco di fucileria e poi anche quello dei pezzi da campagna, incominciò quello dei cannoni della fortezza di Capua a sostegno della grande ritirata, i colpi dei quali andarono poi gradatamente rallentando e a cessare definitivamente a sole calato. Poco prima del tramonto un nuovo evviva ci fece ancora rivedere il generale Garibaldi sul suo cavallo castagno seguito da due compagnie di bersaglieri di Milano. Giunto a noi lo salutammo con egual grido e gli facemmo ressa. Egli ci disse: "Bravi, bravi tutti" - ed ai nostri superiori: "Io marcio avanti con questi pochi bersaglieri di Milano per assicurarmi della vittoria. Loro restino qui agli ordini del generale Medici". E partì colla scorta. (Non ho mai più dimenticato, anzi mi sembra ancora adesso di sentire la sua voce leonina ma commossa in quel momento di vittoria costata a prezzo di preziosissimo sangue!). Indi ci fu dato una distribuzione di pane e formaggio che mangiammo con grande appetito. Intanto un ufficiale a cavallo venne a darci lettura del bollettino del Dittatore. Con tutta attività fu dato mano alla raccolta dei feriti che ancora rimanevano sul campo, adoperando coperte da campo, lettighe, carrozzelle e calessi; operazione che durò quasi tutta la notte. A notte ci arrivarono i viveri e si fece il rancio che si mangiò alle ore 10 pom., fra i gemiti dei feriti. Il riposo fu alternato dalle sorprese del nostro capitano al grido di "Barricata all'armi". E dopo constatata la nostra attenzione e prontezza in casa d'evenienza, ordina ancora il "Riposo". E così fino avanti luce. In questa barricata vi erano sette cadaveri cioè sei dei nostri artiglieri, e l'altro d'un cappellano (calabrese) stati uccisi alla mattina allorché i regi li assalirono. La nostra compagnia ebbe tredici uomini fuori combattimento in questa giornata, cioè tre morti e dieci feriti. Dunque io ebbi la fortuna di combattere in questa grande giornata precisamente nel luogo ove Garibaldi conseguì la vittoria. Fattosi giorno (2 ottobre) venne data sepoltura a quei cadaveri in due fosse scavate lì vicino mettendovi anche quello di un maggiore garibaldino che giaceva presso la batteria. La 5° compagnia conservò l'onore di occuparla (detta batteria) e la riparammo dai guasti avuti. Le altre tre compagnie ne occuparono i lati esterni e li barricarono con tronchi d'albero rovesciati a terra e fatto un fosso d'innanzi rompendo la strada. Tralascio la narrazione dell'assedio di Capua e dei particolari relativi al plebiscito del 21 ottobre. Ormai Garibaldi, non volendo partecipare al bombardamento della città, aveva consegnato i suoi uomini al generale Della Rocca, dell'esercito sardo, e si era ritirato a Napoli. Riprendo a trascrivere le memorie del Parodi dalle note che si riferiscono ai fatti seguiti alla resa di Capua. Il cannone non tuona più, ci sembra perduta la conversazione, il diletto. I pericoli, il terrore e la morte sono svaniti. Per questi d'intorni non vi sono più limiti. I garibaldini, sebbene tuttavia a nudo terreno, sono al coperto e non fanno che pulizia. I soldati dell'esercito sardo sono quasi scomparsi perché o ritiratasi in Capua o andati altrove, qui fuori rimangono pochi artiglieri a smontare i pezzi appostati e a disfare i ripari. Garibaldi ha ceduto il comando e ci sembra perduta ogni protezione. Dal pascolo della vita perigliosa, passati alla monotona della caserma ci sarebbe stata molto dolorosa se non si nutriva la vana speranza che il governo permetteva a Garibaldi di continuare la guerra su Roma [...]. Il 6 Novembre doveva passare da S.ta Maria il re Vittorio Emanuele II per recarsi a Caserta alla grande rivista dei garibaldini, perciò andammo a difilarsi sullo stradone di S. Angelo per fargli parata. Lo aspettammo per qualche ora ma invano, sicché ritornammo al quartiere. Subito dopo il Parodi riporta un commento sull'accaduto dal citato libro di Alberto Mario, che merita di essere ricordato: "Il sei 14 mila uomini, 39 artiglierie e 300 cavalli, in riga davanti al palazzo di Caserta, Garibaldi alla testa, attesero molte ore indarno la promessa rassegna del re. Questa mancata soddisfazione, che fu anche una mancata cortesia, chiuse la campagna del sessanta". Più avanti, sempre di pugno del Parodi, si legge: Dopo qualche giorno si ebbe la visita del commissario dell'Intendenza militare per accertare la nostra presenza personale nell'Esercito Meridionale. Ormai i garibaldini erano di troppo, tanto che dovettero subire la poco piacevole "restituzione dei fucili". Leggiamo questo commosso "addio al fucile". Se la notizia della partenza di Garibaldi e della troncata campagna ci arrecarono grande dispiacere; l'ordine della restituzione dei fucili non ci fu meno doloroso. Nei primi della seconda quindicina di novembre, ordinati in rango col fucile, dagli ufficiali e subalterni, il reggimento sotto il comando di un capitano fece questo lugubre servizio; cioè: venne condotto ad una rimessa nella via principale di S.ta Maria, trasformata in magazzeno nel quale stavano un ufficiale e due soldati dell'esercito sardo, quali ricevitori. La colonna giunta al magazzeno con una contromarcia per due, entrando da una porta di fianco ognuno di noi vi doveva consegnare il proprio tesoro, e quindi la colonna uscendo dall'altra porta, disarmata, ritornare al quartiere. Oh caro ed amato fucile! Quando ti presi giurai di morire con te fra le mani. - Dalla Sicilia a S.ta Maria mi fosti indivisibile compagno. - Passasti le notti al mio fianco come una sposa. - Ti portava in braccio o in spalla come un fanciullo. Sentiva la tua voce come quella di un fratello. Così bello, così buono, così ubbidiente, così leggiero. Anche nella tua umiltà avevi un fascino simpatico, e quando ti pulizzava risplendevi come un gioiello. Io ti conosceva a solo tatto; e nel panico di Napoli ti ho trovato nelle tenebre fra tutti i fucili del reggimento. A Milazzo, a Solano, a Villa S. Giovanni, a Soveria, e al Volturno mi fosti fedelissimo amico. Tu fosti la mia sicurezza, il mio appoggio, il mio riparo, la mia forza, la mia speranza, il mio orgoglio e la mia difesa. Ed ora il crudele e avverso destino vuole che io ti abbandoni in mano a persone che non apprezzeranno mai più il servizio che hai reso alla patria; che anzi per la tua modesta nascita ti disprezzeranno! Forse andrai venduto per ferro vecchio o distrutto per far scomparire la memoria del glorioso esercito di cui facesti parte, e se gettato fra i ruvidi catenacci di qualche Arsenale, speriamo che non ti riprenderanno che per far guerra a nemici stranieri; piuttosto resta pure dimenticato da chi volesse contaminarti contro i fratelli italiani, e per conforto abbiti in pegno la sincerissima dichiarazione che ti rammenterò per tutta la vita. E se la patria mi chiamerà ad altri servizi, e dovrò pure amare un altro fucile, ma quell'amore non sarà che di seconde nozze ... Era il mio turno - dovetti entrare nella scuderia e colle lagrime agli occhi gli diedi il bacio d'addio e lo consegnai ai cirenei. Il Parodi, ormai in procinto di essere congedato, lasciò S.ta Maria il 30 novembre. In treno raggiunse Napoli e poi il giorno dopo s'imbarcò, assieme a tanti altri ex garibaldini su di un trasporto della marina sarda. In viaggio, giunti all'altezza di Caprera, fu mandato un corale saluto a Garibaldi. Poi, dopo una traversata diretta di 48 ore, arrivò alla sua Genova il mattino del lunedì 3 dicembre. Con la annotazione che segue il Parodi conclude le sue memorie che, per quanto redatte alla buona e nella ignoranza pressoché totale delle regole della sintassi, hanno tuttavia un che di fresco e di spontaneo che invoglia a leggere e meriterebbero, perciò, di essere pubblicate integralmente. Se non altro, pur non contenendo notizie di particolare rilevanza ai fini della conoscenza di un evento di fatto ormai storicamente acquisito, esse consentono di rivivere dal di dentro la temperie eroica in cui maturò e si svolse l'avventurosa impresa garibaldina nell'Italia meridionale: Sbarcati al molo vecchio, alla rinfusa ci condussero sulle mura di Santa Chiara, alla sede di un reggimento di fanteria dal cui ufficio di maggiorità, coll'assistenza dell'aiutante maggiore garibaldino che ci accompagnò, si ebbe il congedo e la paga (io, caporale, presi circa L. 250). Ed io della città di Genova, fui lasciato in libertà e me ne andai a casa ad abbracciare padre, madre, fratelli e sorelle[1]. [1] Il Parodi alla fine del manoscritto ringrazia "con infinita riconoscenza" molte persone. Uno di questi ringraziamenti è rivolto a Giuseppe Mazzini e a tutti i suoi collaboratori "che hanno iniziato e fatto maturare questi tempi pel Risorgimento italiano". |
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