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I COMPAGNA E IL RISORGIMENTO |
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di: Crescenzo Di Martino |
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da: http://www.coriglianocalabro.it/ilserratore/art13-70.htm |
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L'archivio Compagna è ricco di documenti che illustrano il ruolo avuto dalla potente famiglia nel corso dei decenni che portarono all'Unità d'Italia La famiglia Compagna, originaria della Sicilia Orientale, emerge dalle brume della storia al tempo del Vespro. Infeudata, dal 1362 della rendita di due onze annuali sui proventi delle gabelle e della Secrezia di Messina, e dal 1467 della gabella del Fondaco del Re, apparteneva alla ristretta cerchia delle famiglie patrizie messinesi gelose custodi della Giurazia, il supremo magistrato cittadino. Ai principi del Seicento Francesco Maria Compagna dette origine in Longobucco a un nuovo ramo della famiglia, che, per successione all'estinta famiglia Bajo, esercitò a lungo l'ufficio feudale della Mastrodattia. Un discendente di Francesco, Paolo Antonio ebbe incarico dalla Segreteria di Stato, nel 1756, di riattivare le antiche miniere argentifere longobucchesi. Ottenne pure, nel 1777, dal Senato di Messina di essere reintegrato negli onori di quella Nobiltà. Da suo figlio Pietro, avvocato, nacque in Corigliano, ultimo di cinque figli, e vi trascorse la sua prima infanzia Giuseppe, il futuro realizzatore delle fortune del Casato. Sul finire del Settecento una grave crisi finanziaria si abbatté sulla famiglia. Il culmine delle sventure fu toccato con l'assassinio, il quattro agosto del 1806, del primogenito di Pietro, il dottor Luigi, trucidato in Longobucco dai briganti di Coremme. Restava, dunque, unico erede Giuseppe. In quegli stessi giorni, con l'abolizione, il 2 agosto del 1806, della feudalità nel Regno di Napoli, si realizza concretamente un antico progetto di riforma, già inutilmente tentato nella seconda metà del Settecento dai governi ispirati dagli intellettuali illuministi. Ciò avvenne grazie ad un intervento esterno, per la forza e la determinazione di una potenza straniera: è questo un amaro dato di fatto che dice della posizione politicamente periferica e subalterna del Regno di Napoli rispetto alle grandi potenze dell'Europa. Nel successivo Decennio, con Giuseppe Bonaparte prima, ma ancor più con le incisive innovazioni introdotte da Gioacchino Murat e dai suoi ministri (1808-1815), nell'amministrazione, nella legislazione, nella politica finanziaria ed economica, innovazioni inserite in un disegno di relativa indipendenza nei confronti della nazione-guida, la Francia, il Regno napoletano vede crescere una classe di proprietari che fondano le loro fortune su due basi: agricoltura e Codice Civile. Murat fu, come noto, più sensibile alle necessità dei liberali Napoletani che non alle pretese del cognato Napoleone. Conclusa la stagione murattiana, le trasformazioni subite dall'apparato statale e dalla società non potranno più essere ignorate dai Borbone, che torneranno a sedere sul trono di Napoli dal 1815 al 1860. Si continuò nella stessa scia di riordinamento dello Stato; ma questa tendenza dovette scontrarsi sia con le gravi condizioni sociali ed economiche del Regno, sia con i moti rivoluzionari, che nel 1820-21, nel 1828, nel 1844, nel 1847-48, nel 1856 con il tentato regicidio, nel 1857 con la spedizione di Sapri, segnarono il contributo meridionale e calabro al Risorgimento Italiano. La crescente estraneità dell'amministrazione borbonica alle nuove aspirazioni politiche e mercantili della classe dirigente meridionale, s'appalesò in via definitiva nel 1860, quando giunse a compimento il processo di decomposizione della monarchia siciliana, cominciato tragicamente il quindici maggio del 1848. In tale contesto storico la famiglia Compagna seppe coltivare le proprie fortune e vide crescere la propria influenza politica e sociale. Legato al nuovo ordine Napoletano, Giuseppe fu chiamato a reggere la direzione delle contribuzioni dirette per la provincia di Calabria Citeriore. Dall'iniziale posizione di svantaggio economico giunse a livelli di successo finanziario notevole, acquistando, nel triennio 1812-1815, dal Demanio dello Stato, nel momento della liquidazione del Debito Pubblico e della vendita dei beni espropriati ai Conventi soppressi, diversi fondi nelle Calabrie e in Terra di Lavoro. La fama di Compagna fu, però, consacrata dall'acquisizione pressoché totale del patrimonio dei duchi Saluzzo di Corigliano. Determinante fu l'appoggio del Primo Ministro Luigi de' Medici, del quale il Compagna, come risulta dalla corrispondenza e dai documenti dell'amministrazione, curava gli interessi in Calabria, gestendo la ricca commenda di S. Giovanni in Fiore. Affittuario dei Duchi dal 1822, il Compagna aveva spregiudicatamente rastrellato titoli di credito verso l'eredità Saluzzo, per seicentomila ducati. Dopo macchinose trattative, condotte da abili mediatori finanziari, il quattro marzo 1826 la sorella di Giuseppe, Anna Maria, acquistava dalla Principessa Clotilde Murat, nipote del Re Gioacchino, il credito vantato verso l'eredità Saluzzo come vedova del Quinto Duca, Giacomo. Il credito venne poi donato al primo figlio di Giuseppe, Luigi. I Saluzzo furono costretti dunque a cedere i beni di Corigliano e Palma Campania nel novembre 1828. I Compagna avevano raggiunto l'apice della loro grandezza. Trasferita la residenza ufficiale nel Castello di Corigliano, Giuseppe visse la sua ultima stagione in intensi traffici commerciali e in trasformazioni agrarie, morendo nel 1834. Il giovane Luigi fu sottoposto alla tutela materna fino al momento delle sue nozze, nel settembre 1842, con Maria del Carretto. La giovane sposa era figlia del marchese Francesco Saverio, Ministro della Polizia Generale di Ferdinando II, noto per l'occhiuto e brutale regime poliziesco da lui instaurato nel Regno. Il 12 gennaio 1848 Palermo si sollevava e cinque giorni dopo giungeva notizia di una nuova insurrezione cilentana, pronta ad estendersi a tutte le province. Intanto a Napoli gli animi fervevano mentre andava diffondendosi l'opinione che, sull'esempio della Sicilia, anche la parte continentale del Regno si dovesse dotare di una Carta Costituzionale. Per pacificare la piazza il Governo bandì l'amnistia per i reati politici il 23 gennaio, e il 26 il Re firmò il decreto di esonero ed espulsione dal Regno del troppo scomodo ex-ministro del Carretto. I Compagna, come risulta dalle lettere e dai registri copialettere conservati nel nostro archivio, restarono all'oscuro della situazione: nella lontana Corigliano non giunse neppure un'eco di quanto stava accadendo nella Capitale. Il barone poteva conoscere notizie solo tramite le lettere dei suoi familiari e dei suoi incaricati d'affari. Lettere che tardavano ad arrivare, trattenute, per ovvi motivi, dalla Polizia. Soltanto il primo febbraio da Cosenza, l'avvocato Giuseppe Bartholini poteva spiegare, non senza una punta d'ironia, all'incredulo Luigi come stavano i fatti: non poteva mai credere che Corigliano fosse nel Tibet, e così ignorare quanto da S. M. (D. G.) si è disposto relativamente alla Costituzione già pubblicata. Qui tutto è entusiasmo ed i diversi ceti sono uniti e formano una sola famiglia, congratulandosi l'un l'altro, e senza portare offesa ad alcuno [...]. (1) Sulle vicende del 1848 la documentazione contenuta nell'archivio Compagna è ampia e composita: a cominciare dall'intero volume di corrispondenza per quell'anno, che dice di persone ed eventi passati negli annali dell'epopea risorgimentale calabra. Primo tra tutti Domenico Mauro, i fratelli del quale guidarono di persona i coloni di San Demetrio all'occupazione del ricco pascolo di Castello, di proprietà del Barone, per attuare una comune agricola. I contadini-comunisti, avevano scacciato, con pesanti minacce, il guardiano e mandandolo via Vincenzo Mauro inviò al fittuario del barone una lettera che non lasciava adito a dubbi: Il porgitore Rosario Corrado dalla popolazione intera di S. Demetrio non si vuole più a guardiano in Castello perché mantenendosi ivi più a lungo persona che rappresenta lo straniero credesi vivamente offesa, per cui benignatevi ordinargli che non si accosti più come guardiano in detto territorio, se non volete che egli sia sacrificato dalla furia del popolo. Dippiù vi prego caldamente che vi affrettiate a far uscire gli animali sì grossi che minuti, perché si può fare qualche irruenza contro di essi, ed i foresi ed io, e tutti i buoni desideriamo non abbiate a lagnarvi della nostra comune. È nella corrispondenza particolare poi che si trovano lettere e altra documentazione di rilievo, riguardanti la formazione della Guardia Nazionale di Corigliano, nel delicato frangente della concessione costituzionale, quando, per usare una felice espressione dello stesso barone, "si stava in pace con le armi alle mani", lo sforzo elettorale per vedere eletto Carlo Morgia, uomo del Barone e rappresentante del partito dei moderati, i rapporti che Luigi ebbe a tessere con il corpo di spedizione Calabro-Siculo, che cercò di opporsi alle truppe regie tra la tarda primavera e l'estate del 1848: significativi, su tal punto, i documenti conservati del comandante in capo, il siciliano generale Ribotti e del capo di stato maggiore della spedizione Mariano delli Franci. Tra le carte diverse si segnala una ricca collezione di manifesti, tra i quali anche il carteggio riguardante l'indirizzo ai Fratelli Calabresi, fatto stampare dal barone Luigi per elogiare i giovani valorosi e generosi che dalla Calabria sarebbero dovuti "correre in Lombardia" per partecipare alla guerra d'Indipendenza, ma che in realtà mai furono inviati. Nella stessa busta sono anche conservati manifesti e altro carteggio riguardanti la situazione interna e il Comitato di Pubblica Salvezza, formatosi in Cosenza all'indomani dei moti napoletani, quando da Salerno giunse, via telegrafo semaforico, la richiesta di intervenire armati per la salvezza della Costituzione. Successivamente la figura più rappresentativa della partecipazione dei Compagna al Risorgimento nazionale appare il fratello minore Pietro, frequentatore assiduo dei circoli liberaldemocratici. Imprigionato nel 1858 per attività sovversiva dalla polizia borbonica, nel momento del parossismo poliziesco, quando il solo fatto di essere calabrese, voleva dire per i commissari borbonici essere sovversivo, fu inviato al domicilio coatto ad Amalfi. Nel 1860 fu al seguito di Garibaldi, quando il Generale, superato lo stretto di Messina, risaliva liberamente la Calabria, mentre l'esercito borbonico si disfaceva e Francesco II si rifugiava a Gaeta, ed entrava in Napoli il 7 settembre. Circa gli eventi di quei giorni si leggono ricchi cenni nella corrispondenza particolare tra Pietro e Luigi, conservata nella serie "Famiglia Compagna". Grazie a un artificio anagrafico, del quale può leggersi con dovizia di particolari tra le carte della corrispondenza del 1861, Pietro fu eletto deputato nel febbraio di quell'anno per l'VIII legislatura, la prima dell'Italia Unita. Il 17 marzo il nuovo Parlamento italiano convocato a Torino poteva ratificare l'avvenuta unità, attribuendo a Vittorio Emanuele II il titolo di "re d'Italia". Tra quegli scranni Pietro Compagna sedeva nel centro geometrico dell'emiciclo parlamentare (come può rilevarsi dalla disposizione dei deputati, conservata presso il Museo del Risorgimento di Torino) anche se, inevitabilmente, veniva considerato uomo della Destra. Il 26 marzo il Parlamento approvava un voto solenne che auspicava Roma capitale d'Italia. Per quell'occasione fu celebrata in Corigliano la Festa nazionale per l'Unità e l'Indipendenza. Il barone Luigi, come risulta dal programma, conservato tra le carte diverse dell'archivio, era, - personaggio meritevole della penna di un De Roberto o di un Tomasi di Lampedusa, - presidente della deputazione che doveva celebrare l'esordio della nuova esperienza unitaria.(1) Id., G. Bartholini a L. Compagna, Cosenza, 1.02.1848. |
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