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BRIGANTAGGIO A CACCURI DAL 1815 al 1861 |
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di: Giuseppe Marino - da: http://digilander.iol.it/marino50/Bandiera/episodi.htm |
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D opo un breve periodo di relativa calma che coincise con il ritorno sul trono di Napoli dei Borboni, il brigantaggio, divenuto oramai un male endemico, riesplose più forte che mai nelle nostre contrade. Per la verità gli episodi criminali non erano mai del tutto cessati e bande di taglia gole continuavano a scorrazzare per la zona devastando e saccheggiando anche subito dopo il 1815, ma fu dopo il 1820 che il "brigantaggio politico", come insofferenza al regime borbonico, prese di nuovo ad intrecciarsi con le ordinarie vicende di criminalità comune.La notte del 18 febbraio del 1827 Giuseppe Meluso, detto il Nivaro, assieme ad altri suoi compagni, ingaggiò un conflitto a fuoco con la Guardia urbana di Caccuri. A circa un anno di distanza, il 6 luglio del 1826, assieme al compaesano Ignazio Foglia e a Tommaso Grande di Casino (l’attuale Castelsilano) attaccò la Guardia urbana di quest’ultimo paesino. Il processo per questi fatti si celebrò il 5 dicembre del 1834 e si chiuse con la condanna del Meluso che, però, riuscì a rifugiarsi a Corfù dove si nascose facendosi chiamare Battistino Belcastro. Da lì tornerà in Calabria al seguito dei Bandiera e riuscirà a sfuggire anche all’agguato della Stragola.Nel 1842 la Guardia urbana di Cerenzia, coadiuvata dai guardiani del barone Barracco, sgominò la banda del brigante Panazzo di Casabona che, da anni, imperversava nella zona ed aveva come base operativa una piccola valle in territorio di Caccuri che, ancora oggi, porta il suo nome.Il 1844 fu l’anno della spedizione dei Bandiera alla quale il Meluso era stato aggregato per la perfetta conoscenza dei luoghi. Nel 1847 si celebrò il processo contro il caccurese Francesco Saverio Segreto che, insieme ad un gruppo di altri briganti, aveva tentato di assassinare il gendarme reale Bartolomeo Bucchianico e la guardia urbana caccurese Vincenzo Cosenza nel corso di un agguato teso loro in località Tenimento.L’anno dopo vennero catturati tre noti briganti caccuresi: Vincenzo Miliè, Filippo Pellegrini e Andrea Lacaria.Qualche anno dopo si realizzò l’Unità d’Italia ed il brigantaggio politico cambiò ancora una volta bersaglio.
Il brigantaggio post unitario I l primo episodio di reazione al nuovo ordine costituito e al nuovo re d’Italia si verificò nei primi giorni di luglio del 1861 quando orde di briganti percorsero "impunemente, a mano armata, gridando Viva Francesco II, con la bandiera bianca alzata", come scrive in una lettera l’Intendente di Crotone al Governatore della Provincia di Calabria Ultra II° il territorio caccurese. Nella notte tra il 6 ed il 7 dello stesso mese, i rivoltosi inalberarono una bandiera bianca borbonica sul campanile della Chiesa Madre di Santa Maria delle Grazie. In paese accorse immediatamente la Guardia Nazionale di San Giovanni in Fiore e, subito dopo, una colonna mobile dell’Armata italiana. Intanto insorsero anche Savelli, e Cotronei e la rivolta si estese a tutto il Marchesato.La rivolta caccurese, comunque, quantunque domata, continuava a preoccupare il comandante del distaccamento Magni inviato in paese, tanto che lo stesso, il giorno 10, richiese l’intervento della squadriglia della Guardia Nazionale mobilizzata di San Giovanni in Fiore. Il giorno dopo il tenente Magni si recò ad Altilia ed i briganti, nella notte, attaccarono Caccuri, ma vennero respinti. La colonna dell’esercito italiano rimase a Caccuri per molto tempo e da qui mosse spesso contro le orde di briganti che attaccavano ripetutamente la vicina Cotronei dove il 14 agosto la popolazione, unita ai rivoltosi, respinse più volte i soldati che tentavano di penetrarvi per ristabilire l’ordine. Intanto il 15 agosto il generale Cialdini emanò la norme che concedevano benefici ai briganti che si presentavano spontaneamente, ma già il 3 dello stesso mese tre briganti reazionari caccuresi, Rocco e Vincenzo Gabriele Perri e Vincenzo Mancuso, si erano presentati al sindaco per usufruire dell’amnistia del generale Della Chiesa.Il pericolo corso dal paese e la necessità di garantire in futuro l’ordine pubblico, portò alla costituzione, anche a Caccuri, del ruolo permanente della Guardia Nazionale mobilizzata in base alla legge del 4 agosto 1861. Vennero così arruolate 8 guardie caccuresi di età compresa tra i 22 e i 31 anni. Essi erano: Domenico Falbo, Achille Gigliotti, Giovanni Ruggero, Santo Aiello, Giuseppe Falbo, Gaetano Marino, Ferdinando Belcastro e Luigi Allevato.L’esercito rimase a Caccuri per molti mesi, poi, pian piano, le rivolte furono sedate e l’opposizione al nuovo governo passò dalla lotta armata ai mugugni ed alle critiche. L’ultimo episodio di cui si ha notizia è il processo intentato ad Angelo Segreto detto Panicauro (Pan caldo) di 53 anni, mulattiere, accusato di "pubblico discorso col reo fine di eccitare il disprezzo ed il malcontento contro il governo" e condannato dalla Pretura di Savelli il 6 settembre del 1865.
L’agguato di San Biagio E ra una fredda mattinata di marzo del 1858. Infreddoliti e un pò assonnati, i gendarmi borbonici se ne stavano acquattati fra i cespugli di San Biagio ai lati del sentiero che, da Campanelli, saliva a Furnia per poi proseguire verso Patia, Jimmella e San Giovanni in Fiore. Di fronte a loro, poco più in basso, distinguevano, nella luce incerta dell’alba, la sagoma della "Chiesuola", la piccola icona che ospitava il povero quadro del santo al quale faceva riferimento il toponimo.Erano lì da alcune ore da quando in paese si era sparsa rapidamente la notizia dell’ultima, efferata strage di alcuni pastori di Tenimento che erano stati attaccati e depredati, la sera prima, da una banda di masnadieri. Le modalità dell’impresa e la crudeltà mostrata dai briganti non lasciavano dubbi: si trattava, quasi sicuramente, della banda di Zirricu, il crudele fuorilegge che infestava la zona.Da molto tempo si sapeva che la feroce accozzaglia di briganti trovava rifugio nel bosco di Eydo, ma, nonostante numerose battute, non si era mai riusciti a intercettare e sgominare la banda, anche perché i fuorilegge conoscevano a menadito la zona e potevano contare su una fitta rete di informatori e complici che, all’occorrenza, li metteva a conoscenza delle mosse dei gendarmi. Questa volta, però, contando sul fatto che la notizia dell’ultima bravata era giunta in paese in un baleno e che i banditi non potevano esserne a conoscenza, i gendarmi pensarono di cogliere di sorpresa i criminali. Sicuramente, per raggiungere il bosco di Eydo e mettersi al sicuro Zirricu e soci avrebbero percorso quel sentiero e, dunque, sarebbe stato facile tendere loro un agguato proprio a San Biagio. Ed ecco all’alba spuntare giù in fondo, a mezza costa, la comitiva dei briganti armati fino ai denti e carica di bottino. Avanzavano lentamente per la stanchezza e per il peso delle ruberie che si trascinavano dietro sicuri, anche questa volta, di farla franca. I gendarmi trattennero il fiato, puntarono gli schioppi e si preparano ad accoglierli a fucilate. Attesero qualche minuto: ancora pochi metri e i criminali sarebbero stati a tiro. Poche schioppettate sarebbero state sufficienti a porre fine alla carriera di uno dei più spietati criminali che aveva terrorizzato le nostre contrade e della sua feroce combriccola. Era orami questione di attimi. All’improvviso, quando tutti trattenevano il fiato e le dita sui grilletti erano pervase da uno strano formicolio, uno starnuto ruppe quel silenzio irreale e dal fucile del malcapitato gendarme partì accidentalmente un colpo. Colti alla sprovvista tutti gli altri scaricarono le loro armi in direzione del gruppo di briganti che si gettarono lestamente a terra. Fu questione di un secondo, poi i bricconi si levarono prestamente e si diedero ad una fuga precipitosa lungo il pendio verso Campanelli. I gendarmi si gettarono all’inseguimento, ma era oramai chiaro che, almeno il grosso della banda l’avrebbe fatta franca. Mentre tutti correvano a precipizio lungo la scarpata, uno dei gaglioffi inciampò, cadde a terra, urlò di dolore. Cercò di rialzarsi, ma ricadde: si era fratturato una gamba. In quelle condizioni sarebbe certamente caduto in mano dei gendarmi che lo avrebbero torturato, fatto cantare, rivelare il nascondiglio della banda. Si vide allora il terribile Zirricu tornare indietro precipitosamente armato di una grossa scure. Si avvicinò al malcapitato compagno che implorava aiuto e, con un colpo netto, gli recise il capo. Poi afferrò il macabro trofeo, lo infilò lestamente in un sacco e se la diede a gambe sotto gli occhi attoniti e atterriti dei gendarmi. Qualche tempo dopo il suo stesso capo, troncato dalla mannaia di un compare fellone passato dalla parte della legge, venne esposto per due giorni su un cippo in piazza Umberto a monito per la popolazione. [Il racconto è la ricostruzione romanzata di un fatto di cronaca riferito dalla tradizione orale] |
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