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Liceo Classico Statale "Mario Cutelli" Catania |
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Laboratorio di Storia |
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prof.ssa Bonasera |
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La svolta postunitaria a Catania |
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L'Italia post unitaria |
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All’indomani della costituzione del regno, l’Italia dovette fronteggiare numerose difficoltà di ordine amministrativo, politico, economico. Così la Destra storica, il nuovo gruppo dirigente per la maggioranza di origine aristocratica, che governò ininterrottamente nel primo quindicennio di vita unitaria, si trovò dinanzi il difficile compito di affrontare tutti i problemi connessi all’unificazione politica della penisola. Si trattava non solo di rafforzare la nuova compagine statale, ma di garantirne la stessa esistenza, realizzando concretamente, anche sul piano economico, ciò che i decreti avevano sancito. Ma la situazione non si presentava certo favorevole. La maggior parte della popolazione italiana era essenzialmente rurale e viveva delle risorse della terra; tuttavia, contrariamente a quanto affermano i tradizionali stereotipi sulla naturale ricchezza del suolo italiano, l’agricoltura era essenzialmente povera. Su questo tema fu avviata nel 1877 un’inchiesta a cura dell’on.le Jacini, esponente della Destra lombarda e fu condotta da una giunta parlamentare. Resi ufficiali nel 1884 i risultati, essa costituisce ancora oggi una miniera ricchissima di informazioni. Incentrata sul quesito, che poneva l’incessante dubbio di come in un paese ad unità politica si potesse parlare di disagio o ricchezza agricola, l’indagine mostrò un quadro assai aspro delle condizioni di arretratezza nella produzione agraria. Alla luce di queste sconfortanti considerazioni, Jacini proponeva una serie di rimedi facendo capo alle attitudini di cui anzi l’Italia era ricchissima, ovvero le possibilità di: · aumentare la superficie produttiva mediante opere di bonifica dei terreni acquitrinosi; · applicare alle coltivazioni delle terre strumenti più adatti, concimi su più larga scala e sistemi di rotazione più razionali, al fine di ottenere una maggiore quantità di foraggio; · aumentare la coltivazione di piante arboree e di ortaggi sfruttando l’energia favorevole del sole. In sintesi, ciò che sosteneva era la necessità di favorire un’opera di modernizzazione che potesse estendere progressivamente a tutto il paese il modello d’industria rurale, ovvero un’agricoltura capitalistica indirizzata al mercato estero e realizzata impiegando manodopera salariata. Uno sviluppo del sistema agricolo in questa direzione richiedeva una politica economica che implicasse l’intervento del governo e circoscritto alle sue competenze ma efficace. Nei primi decenni della nuova realtà statale quello costituì l’indirizzo principale che la classe dirigente intraprese: così la nuova Destra storica (che in realtà costituiva un gruppo di centro moderato) si mosse con grande decisione sulla strada già indicata e percorsa da Cavour in Piemonte, orientandosi verso un modello di Stato accentrato che si ispirava a principi liberisti. Per lungo tempo si è insistito nel marcare il carattere oligarchico e autoritario che caratterizzava il governo di Destra, in ragione della loro scelta di rinunciare a qualsiasi forma di decentramento e di imporre, quasi con la forza, ad una società arretrata modelli di partecipazione politica ancora poco familiari. Questa interpretazione è stata messa in discussione da studi recenti, come quello dello storico Raffaele Romanelli, il quale sostiene la necessità di avviare un programma che aveva lo scopo di rafforzare l’azione sociale pubblica e privata. Il critico individua, tra i motivi che spinsero la classe dirigente ad accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, la constatazione del grave stato di atonia, che caratterizzava il Mezzogiorno, prima ancora che vi si imponesse la grave questione del ritardo del Sud. A questo proposito è importante inserire nella critica dello studioso contemporaneo Romanelli, le considerazioni sulla situazione di malessere e di disordine delle province meridionali tratte dal V volume della " Storia dell’Italia moderna" di Giorgio Candeloro. Il testo affronta il tema del "grande brigantaggio", sintetizzando le cause e i problemi che il fenomeno sollevò nella politica della Destra storica. Negli anni immediatamente successivi all’unità, il brigantaggio rappresentò una delle difficoltà più gravi, di fronte alle quali si trovò la classe dirigente. Il caso di una guerriglia, della quale lo Stato non riusciva a venirne a capo, "non soltanto accentuava nell’opinione pubblica europea i dubbi sulla solidità del nuovo regno, ma era al contempo una previsione della futura " questione meridionale". (1) Per comprendere e valutare le cause del brigantaggio, che imperversò nel Mezzogiorno continentale dal 1861 al 1865, lo storico parte dalla considerazione che esso si manifestò in un paese arretrato e depresso, dove al malessere antico delle masse contadine, che sfociava in rivolte anarcoidi spesso sfruttate dagli oppressori stessi per i loro fini particolari, si sommava una diffusa ostilità verso l’errata politica dei moderati. Essi, nel Sud dal novembre 1860, un po’ per poca conoscenza del paese e per scarsezza dei mezzi finanziari e molto per paura e per spirito prettamente conservatore aggravarono la situazione. Gran parte dei contadini senza terra e dei proprietari di piccolissimi appezzamenti erano costretti a lavorare come braccianti per i latifondisti, senza alcuna continuità né sicurezza, mentre l’esosità dei patti agrari rendeva quanto mai misera la condizione della maggior parte dei coloni. All’antica aspirazione alla terra si legava anche il malcontento verso la realtà del nuovo Stato, la quale si manifestava con i suoi tratti più spiacevoli agli occhi delle popolazioni meridionali, imponendo un pesante giro di vite fiscale e il servizio di leva obbligatorio; ma ancora più grave fu la questione demaniale, ovvero la lentezza estrema con cui procedettero alla suddivisione e la messa in vendita di terre di proprietà statali Ad incoraggiare il generale moto di rivolta vi fu l’atteggiamento di gran parte del clero, ostile al regime unitario, soprattutto dopo i decreti Mancini promulgati nel febbraio 1861, che ponevano fine ai privilegi di cui godeva la Chiesa. Essi furono anche sovvenzionati dalla corte borbonica che, in esilio a Roma, contribuiva a diffondere nelle campagne l’opinione che con l’appoggio del Papa, dell’Austria e della Francia stessa la restaurazione fosse inevitabile. Così fin dall’estate del 1861 tutte le regioni del Sud furono percorse da bande di irregolari, dove i briganti veri e propri si mescolavano ai contadini insorti, agli ex militari borbonici, ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri. Le bande assalivano di preferenza i piccoli centri che occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e incendiando gli archivi comunali, quindi si ritiravano sulle montagne per assalire altrove. A questi attacchi i governi post-unitari reagirono con spietata energia, rafforzando in primo luogo i contingenti militari già presenti nel Sud. Nel 1863 il Parlamento approvò una legge che istituiva in queste regioni un regime di guerre, tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi. Sia per l’efficacia delle misure militare repressive, sia per la stanchezza delle popolazioni il " grande brigantaggio" nel giro di pochi anni fu sconfitto. Ma, riprendendo il commento di Romanelli, a muovere verso una politica di impronta quasi paternalistica della monarchia amministrativa non fu solo il problema del Sud. Si avvertiva l’esigenza generale di avviare con la forza processi di sviluppo sociale e civile. Vi era il bisogno di immobilizzare, non di reprimere l’iniziativa proveniente dal basso. Esistevano, infatti, da un lato le realtà << apatiche>>, dall’altro realtà che, limitando l’area di azione al triangolo economico della Toscana e dell’Italia centrale, si muovevano con scarsa sintonia nei confronti della nuova dimensione statale nazionale mostrando la generale estraneità alle ragioni dello Stato. Allora gli strumenti d’impulso alla modernizzazione, che la tradizione assolutistica e francese consegnava, diedero avvio al programma di reale unificazione del paese. Decisiva a questo proposito fu la legge Rattazzi, varata nel ’59 che poneva i comuni e le province sotto il controllo rispettivamente dei sindaci di nomina regia e dei prefetti rappresentanti del poter esecutivo. Per quanto riguarda il settore economico era necessario che l’iniziativa economica privata potesse essere sostenuta e promossa dallo Stato; da qui nasceva l’esigenza di creare un centro che estirpasse il passato protezionista: occorreva cioè un’entità statale che, imponendosi ai baroni del feudalesimo burocratico, seguisse la direttrice del << laissez faire, laissez passer>>. Ancora da ricordare furono: · l’istituzione di regole comuni e uniformi e di mezzi di controllo per qualsiasi istituto pubblico, quali ospedali, scuole, banche di credito ecc.; · l’emanazione di leggi che prevedevano spese obbligatorie per tutti i comuni, necessarie alla costruzione di strade, ferrovie ecc. L’intervento dello Stato fu realizzato anche nell’iter burocratico delle elezioni. Anche se si parlò d'ingerenza eccessiva, il critico precisa che il fine era di sollecitare la dinamica del processo elettivo, non di alterarne la regolarità. Parallelamente all’unificazione amministrativa e legislativa, i governi della destra storica dovettero affrontare il problema dell’unificazione economica del paese. Per rimuovere le barriere doganali fra i vecchi stati preunitari, fu estesa a tutta l’Italia la legislazione vigente nel regno Sardo, basato su dazi doganali di entrata molto bassi. Molto rapido fu lo sviluppo delle reti di comunicazione statali e ferroviarie, strumento per avvicinare le varie parti d’Italia ed anche premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale. Conseguenza immediata fu l’intensificazione degli scambi che portò benefici alle produzioni agricole, più specificatamente rivolte all’esportazione, in particolare le colture specializzate praticate nel Mezzogiorno. Più in generale tutto il settore agricolo conobbe progressi abbastanza significativi in termini di incremento produttivo. Nessun vantaggio immediato ebbe invece il settore industriale, che fu anzi nel suo complesso penalizzato dall’ accresciuta concorrenza internazionale. Alla produzione agricola e industriale sono dedicati due brani che rivelano prima un atteggiamento di pessimistica nostalgia del paesaggio italiano in chiave bucolica e anti-industriale, poi una timida speranza nella via dell’industrializzazione intrapresa nel primo ventennio post-unitario. I brani tratti dai diari di viaggio di Emile de Loveleye sono interessanti per confrontare le opinioni che il prof. di economia e politica maturò a distanza di qualche anno l’una dall’altra. Nei decenni immediatamente successivi all’unità era abbastanza diffusa all’estero la convinzione che l’Italia avrebbe fatto bene ad evitare una vera e propria industrializzazione, perseguendo piuttosto un tranquillo ed equilibrato sviluppo economico basato sull’agricoltura. Così Loveleye metteva in guardia dalle misure proposte dai maestri delle scienza economica, Smith e Mill, i quali esortavano a colpire con una tassa protettiva dei manufatti stranieri (che sarebbero potuti essere prodotti nelle industrie interne), sostenendo il rischio inevitabile di fomentare una guerra di tariffe con le altre nazioni, cosa che l’Italia non poteva permettersi. Al contrario, la sua condizione le imponeva di conservare le simpatie e di moltiplicare i legami con le altre nazioni. Per cui, secondo il critico era necessario che il paese seguisse la strada che le condizioni naturali gli avevano tracciato e abbandonasse il pericoloso sistema della concorrenza. Solo qualche anno dopo la situazione appariva all’osservatore straniero radicalmente cambiata, in quanto egli riconobbe un chiaro indirizzo della strada che l’Italia si avviava ad imboccare, quella della rivoluzione industriale: il nostro paese entrava in questo meccanismo pericoloso e difficile. Allora l’illusione di chi, come Loveleye, credeva ancora che lo sviluppo economico italiano potesse fondarsi solo sull’agricoltura e sull’esportazione dei prodotti della terra, svanì quando la profonda crisi agricola del 1881 (che costituì un fattore di ritardo per il decollo industriale italiano in quanto indeboliva la base produttiva del paese, rallentando la trasformazione capitalistica dell’agricoltura), divenne un importante strumento propulsore per l’industrializzazione, poiché rese chiara l’esigenza di indirizzarsi verso nuovi impieghi diversi dalla produzione agricola. Secondo un’altra interpretazione, invece, i decenni 60-80 sono stati considerati il primo strato di vernice sul quale sarebbero attecchiti i colori di cui sarà dipinto il futuro quadro dell’industrializzazione. Luigi Capuana, storico dell’economia e della politica contemporanea così definisce i primi e stentati passi su questa via compiuti dall’Italia nel primo ventennio post-unitario. Egli ancora una volta individua le direttive principali per lo sviluppo industriale nella costruzione delle ferrovie dello Stato, di cui fornisce anche dati rilevanti: una media di 376 km di nuove linee all’anno dal 1861 al 1876. Tuttavia egli evidenzia come tale costruzione venisse amministrata da società concessionarie straniere; le uniche domande che si rivolsero all’offerta interna furono per aspetti tecnicamente privi di complessità, come la fabbricazione delle traversine di legno che accelerò il disboscamento delle montagne con gravi danni ecologici (soprattutto per le regioni meridionali). Altro cardine della politica economica viene individuato nell’orientamento del governo verso il libero scambio, al fine di intensificare i contatti con l’Europa più avanzata. Ciò comportava un aumento della produzione agraria da destinare all’esportazione e una maggiore importazione di prodotti industriali. Questo sistema trovò ampi consensi presso gli ambienti agrari di orientamento liberista; tuttavia, come lo storico mette in rilievo, questa politica non fu a lungo perseguita, poiché quando gli interessi agrari furono minacciati dalla concorrenza estera e le industrie furono in grado di fare pressione alle autorità politiche le correnti protezionistiche persero terreno. Allora i lenti progressi dell’industria pian piano furono favoriti da: · l’adozione del <corso forzoso> della carta moneta che provocò la svalutazione della lira, favorendo i prodotti italiani; · il boom economico, che significò la riduzione della pressione competitiva delle produzioni straniere. Questa vantaggiosa e seppur di breve durata situazione fu vissuta da molti ambienti economici dell’Italia del Nord come occasione per un orientamento qualitativo: nacque un piccolo gruppo di società azionarie industriali, soprattutto nel campo tessile; anche la nobiltà terriera fu attirata ad impiegare capitali in investimenti industriali. I progressi più rilevanti si registrarono nel processo di filatura della seta, concentrato soprattutto in Lombardia, mentre quello della filatura cotoniera era localizzato in Piemonte, dove maggiore nucleo fu Biella. Più importanti dei mutamenti quantitativi nelle capacità produttive furono i cambiamenti nell’atteggiamento degli imprenditori, i quali mostrarono una maggiore attenzione alla qualità della produzione e una maggiore aggressività sul piano politico. Comunque, tutti i settori furono interessati nel generale progresso industriale. Nel campo della siderurgia si assisteva ad una crescita legata alla produzione del ferro addirittura triplicata tra il 1860 e il 1880. Ma il fronte sul quale si muoveva il processo di modernizzazione non fu circoscritto a questi due fattori: anche nel campo dell’industria alimentare si assisteva ai primi tentativi di industrializzazione: nel 1873 sorgeva la prima unità di un futuro complesso zuccheriero. Nel 1875 Francesco Cirio fondava la sua industria delle conserve alimentari, poi diventata assai nota. In tutt’altro campo nasceva nel 1872 per iniziativa di G.B. Pirelli l’industria della gomma. Nel 1875 si avviava la produzione di concimi chimici. Insomma, in quasi tutti i settori era facilmente riscontrabile un lento avanzamento, ma non si assisteva, secondo lo storico Cafagna, a nessun movimento rivoluzionario in campo industriale; anzi egli è più proteso a considerare gli anni che vanno dal 1860 al 1880 un prolungamento, senza una sostanziale rottura dovuta al mutamento politico, del progresso iniziato intorno al 1830. Quello che l’autore identifica come la causa principale fu la politica economica ancorata al presupposto liberalistico, la quale limitò fortemente i benefici del processo di modernizzazione. Anche lo storico Rosario Romeo, uno dei protagonisti degli studi sullo sviluppo economico dell’Italia unita, si pone in polemica con la politica liberista, sostenendo invece che il sistema successivo, fondato su principi protezionistici, rappresentò la condizione storica attraverso la quale si realizzò l’industrializzazione in Italia. L’altra faccia della medaglia, che lo storico comunque evidenzia, fu il conseguente accentramento del tendenziale squilibrio esistente tra l’economia del Nord e quella del Sud. La guerra doganale con la Francia determinò anche una profonda depressione economica che diede avvio ad un periodo oscuro per il nostro paese e ad una crisi che si estese a tutti i settori, compreso il sistema bancario. Il crollo delle principali banche di credito nobiliari diede avvio ad un nuovo ordinamento della circolazione monetaria. Da ciò nacque la Banca d’Italia che limitò il diritto di emettere biglietti a due sole banche: il Banco di Sicilia e il Banco di Napoli. Questa nuova sistemazione della circolazione monetaria fu una delle condizioni di ripresa realizzatasi dopo il 1895 alla quale si può attribuire molto sommariamente il termine di "Rivoluzione industriale italiana". NOTE: (1): G. Candeloro " Storia dell’Italia moderna" vol. V. |
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