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SAN SALVO |
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Il Carabiniere CHIAFFREDO BERGIA |
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di: Antonio Cilli |
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da: http://www.sansalvo.net/storia7.html |
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I l plebiscito del 21 Ottobre del 1860 sancisce la adesione delle province borboniche, fra cui quella di Chieti, allo Stato italiano unitario. Ma le aspettative suscitate nel mondo contadino dall'impresa garibaldina (abolizione della tassa sul macinato, divisione dei demani ) vennero presto disattese dai piemontesi, generando un diffuso malcontento. A questo si deve aggiungere che il nuovo ordine impose la leva obbligatoria, nuove tasse, leggi anticlericali... una miscela esplosiva che diede il là al fenomeno del brigantaggio. Nel 1862 nella piazza di Chieti venne affisso uno scritto pieno di insulti al Re Vittorio Emanuele II: "Vittorio Manovelo rex delli ladri rivoluzionari nazzionali, persequetore della santa chiesa cattolica romana assassino di sua santità pio nono, ladro assassino di francesco secondo, ladro del popolo dissipatore di religiosi di ogni sesso... avrete vittoria quando il diavolo bacia la croce abbasso abbasso schomunicato." (Paolo Mattioli). In tutta la provincia teatina le bande dei briganti si formarono per lo più con elementi del posto ad opera dei capi del partito borbonico dei vari paesi. Fra costoro, purtroppo, vi erano anche Sindaci, che all'occorrenza s'atteggiavano a vittima dei briganti allorchè sopraggiungeva la forza pubblica. Invero nel considerare il fenomeno del brigantaggio degli anni '60 bisogna far differenza fra le sommosse organizzate a scopo politico (ad esempio la reazione di Monteodorisio 30 settembre e 1 ottobre 1860) e quei fatti che invece avevano per unico fine il furto e la rapina: spesso gli autori di tali furti e rapine, per una speranza d'impunità, auspicavano la restaurazione borbonica. Le sommosse politiche caratterizzarono i primi anni '60, successivamente e per molti anni ancora il brigantaggio fu un fenomeno le cui idealità politiche andarono via via sbiadendosi affermandosi invece le caratteristiche di illegalità e sostanzialmente di associazione delinquenziale. In altri termini col passar del tempo la speranza di un probabile ritorno di Francesco II andò a poco a poco dileguandosi ma non cessarono però le rapine e le scorribande dei briganti che anzi crebbero straordinariamente. Contro il brigantaggio il Governo italiano decretò lo stato d'assedio ed emanò leggi eccezionali (legge Pica). La repressione fu affidata all'esercito, impiegato con tutti i suoi corpi, per oltre un decennio nell'Italia meridionale. Nel cicondario di Vasto e San Salvo tra i capi banda più noti vi furono i fratelli Giuseppe e Michelangelo Pomponio, originari di Liscia, Pasquale d'Alena, Berardino di Nardo: sulla loro testa pendeva una cospicua taglia, ma invano i carabinieri avevano cercato di arrestarli giacchè gli sforzi erano paralizzati da una rete di confidenti e "manutengoli" che offrivano aiuto ai malfattori. La torre di Montebello fu per diversi mesi la fortezza dei fratelli Pomponio: per molto tempo gendarmi e bersaglieri cercarono di espugnarla. Finalmente, racconta il Piovesan ne "La città di San Salvo" a pag 288 (Ed. Itinerari Lanciano), "dopo una sistematica battuta per le campagne e boscaglie di San Salvo, di Lentella, di Fresagrandinaria, di Petacciato e di Montenero di Bisaccia, avevano stretto la sacca attorno alla torre. La resistenza fu disperata: si sparò dalla torre fino all'ultima pallottola. Nella notte approfittando della conoscenza dei luoghi i due capibanda con pochi altri riuscirono a fuggire. La maggior parte era caduta sotto il piombo o era stata fatta prigioniera. I fratelli Pomponio poterono riorganizzarsi e riprendere le loro gesta scellerate. La vittima scelta a pagare per tutti fu Luigi Ciavatta, capitano della Locale Milizia Nazionale, l'artefice della disfatta di Montebello". Il prof. Giovanni Artese nel suo libro "Storia di San Salvo" (Ed. Edigafital Teramo) a pag. 143 osserva che la "...vendetta (di Giseppe Pomponio ndr ) si abbattè su Luigi Ciavatta, di 28 anni, capo della Guardia Nazionale di San Salvo e figlio del "magnifico Don Antonio Ciavatta", il quale si era scontrato con la banda di Pomponio nei pressi di Montebello. Luigi Ciavatta fu ucciso il 16 settembre 1868 in un luogo poco fuori dal paese, che da allora venne chiamato "contrada della disgrazia". Il Sindaco Giuseppe Ciavatta fratello dell'ucciso fece intensificare la lotta contro i briganti, cui venne a partecipare un distaccamento militare ( circa 25 uomini di fanteria e bersaglieri) alloggiato in paese a carico della collettività. Nella delibera del Consiglio comunale sansalvese del 15 maggio 1869, inviata al Prefetto "perchè se ne faccia interprete presso il Real Governo", così si legge: "Da otto mesi che i due briganti Pomponio uniti ad un terzo sconosciuto e favoriti da ignoti manutengoli scorrono questo tenimento e tutta la vallata del Treste, si hanno a lamentare gravi misfatti, atroci casi e perduta ogni sicurezza ne è seguito abbandono di affari e seri dissesti. Invano finora l'autorità politica e Militare, con zelo superiore ad ogni elogio ha cercato di distruggere la mala pianta, poichè le loro fatiche malgrado il concorso degli onesti cittadini non hanno raggiunto lo scopo. La cusa principale dell'insuccesso consiste nel perchè i cennati briganti hanno fedeli corrispondenti dentro i Comuni, e perchè i contadini in generale per tema di sanguinose rappresaglie, e taluni per gola dell'ora brigantesco di mala o buona voglia ne occultano le mosse. A mali eccezionali bisognano eccezionali rimedi; quindi credo conveniente pregare l'autorità governativa a permettere e ordinare tutte quelle misure di eccezione, che si crederanno della circostanza, tanto relativamente alla vigilanza e chiusura delle masserie sospette, che alla fermata preventiva dei mautengoli" (A.C.S.S., Deliberazioni del Consiglio comunale di San Salvo 1867-1871). Nella repressione del banditismo nel vastese si era reso famoso il carabiniere piemontese Chiaffredo Bergia. Chiaffredo Bergia, figlio del popolo, chiamato giustamente "l'eroe degli Abruzzi", nacque in Paesana vicino Saluzzo: il Costantini nel suo libro "Moti liberali e Brigantaggio negli Abruzzi 1848-1870" (Ed. Adelmo Polla Avezzano) riferisce che "I suoi genitori, Battista e Caterina Bonetto, tutt'altro che agiati, l'educarono come meglio potettero; ma egli non volendo guardare il gregge, nè piacendogli il mestiere dell'agricoltore, incominciò a menare una vita randagia, spesso seguendo i soldati. Poi emigrò in Francia, in cerca di lavoro, e, dopo una serie di avventure tornò in patria per arruolarsi nell'Arma de' carabinieri reali, il 12 dicembre 1860 [...] fu destinato alla legione di Chieti..." Il Bergia dopo aver dato prova del suo non comune coraggio in numerose e ardite azioni contro la temibile banda del Taburini, nell'arresto del temibile Antonio Giorgiantonio, e dopo numerose altre brillanti operazioni, venne promosso brigadiere e fu messo a capo di una colonna mobile, con la quale si diede a una caccia spietata de' i briganti. Forse proprio dal brigante Tamburini, il Bergia apprese l'arte del travestimento: il nostro carabiniere si mascherava fulmineamente da frate, da contadino, da donnicciola, da mendicante e persino da brigante. Poi al momento opportuno s'avventava sul malfattore per ingaggiare con lui una lotta corpo a corpo e riusciva sempre a mettergli le manette. Il Piovesan (La Città di San Salvo, cit. pag 290 ) racconta che "Un giorno, (il Bergia ndr) travestito da mendicante, penetrò nel covo del brigante Giuseppe Delle Donne di Cupello, evaso dalle carceri di Chieti, nascosto nelle grotte di Lentella. Simulando una grande fame, piagnucolando, chiese all'amante del fuorilegge [...] una zuppiera della polenta appena scodellata. Con atto fulmineo e con tutta la violenza la scaraventò in faccia al bandito. Dopo una lotta furibonda, riuscì a disarmarlo e a mettergli i ferri. Il suo gesto è ricordato anche in un verbale del Consiglio Comunale (di San Salvo ndr ) del 18 marzo 1872 con una delibera di encomio". Finalmente venne l'ora della resa dei conti anche per il Pomponio: il brigadiere Bergia, allora di recente destinato al comando della stazione di San Buono, dopo aver avuto l'autorizzazione dal Colonnello Comandante la Legione di Bari, fece spargere la voce di essere stato trasferito altrove; invece si scelse 5 carabinieri fra i più coraggiosi (Martino Carral, Camillo Ambrosini, Enrico Corti, Angelo Lirio, Pavan ) e si recò in quel di Chieti. Il Bergia aveva altresì preso accordi con Scipione Ciancaglini e Donatello D'Orazio di Furci, Pasquale Della Fazia di Dogliola, Antonio Russo e Pompeo Carmenini di San Buono, i quali avevano promesso di tenerlo informato, per mezzo dei loro servi, delle mosse dei briganti. I carabinieri nella notte ripartirono alla volta di Dogliola e si appostarono nei pressi del paese, sulla riva sinistra del fiume Trigno, attendendo notizie dal Della Fazia. Dopo diverse ore d'appostamento nell'oscurità della notte si sentì un fischio, i carabinieri risposero, il fischio si ripetette e poco dopo si videro avvicinarsi due persone. Il Bergia accortosi che non si trattava del Della Fazia, gridò: "Chi va là; gli fu risposto con una scarica che fortunatamente andò a vuoto. I cararabinieri risposero con altri colpi, e subito si accese una lotta corpo a corpo fra il Bergia e un brigante che poi si accertò essere il temibile D'Alena. Il brigante nonostante le ferite in più parti del corpo si difendeva strenuamente, "...quando il carabiniere Corti, preso il fucile dalla parte della canna, assestò col calcio un tale colpo sulla testa del malandrino, che lo stese al suolo cadavere" (così Costantini "Moti liberali e Brigantaggio negli Abruzzi 1848-1870" cit pag 267 ). L'altro brigante, Berardino Di Nardo, si diede alla fuga e riuscì a dileguarsi nella macchia. In quel mentre Giuseppe Pomponio, che si trovava nelle vicinanze, sentendo dei colpi d'arma da fuoco pensò di allontanarsi verso Fresagrandinaria, trascinando con se Gaetano Franceschelli che aveva precedentemente sequestrato al fine di estorcergli la somma di £ 14.000. Il Pomponio giunto nelle vicinanze di Fresa si cercò un nascondiglio per riposare. Franceschelli, seppur avanti con gli anni, attese che il sonno "ingannasse" Pomponio e nel mentre questi russava, gli tolse il fucile a due canne e sparò due colpi ferendo il brigante alla spalla e di striscio in pieno volto; poi si diede alla fuga per i campi. Pomponio rinvenuto in se, con la faccia grondande di sangue, si alzò per inseguire il Franceschelli, il quale per via della sua età certo non poteva correre, lo raggiunse ad un chilometro di distanza e lo finì con cinque colpi di rivoltella alla schiena. Tuttavia le ferite che il brigante aveva riportato non erano di poco conto, quindi egli fu costretto a chiedere asilo nella casa del manutengolo Angelo Maria Argentieri di Furci. L'Argentieri, però, constatate le condizioni precarie di Pomponio e volendo salvarsi dalla galera riferì tutto ai carabinieri facendo catturare il Pomponio ormai inabile a muoversi. L'appostamento dei carabinieri nella casa dell'Argentieri proseguì per qualche giorno, onde procedere alla cattura di altri briganti. Infatti Michelangelo Pomponio e Berardino Di Nardo presto si recarono presso la casa dell'Argentieri per soccorrere il loro compagno ignari della presenza dei carabinieri. I militari nel vederli avvicinarsi alla casa fecero fuoco: uno morì immediatamente, l'altro tentò la fuga ma fu trovato cadavere nei dintorni dell'abitato. Giuseppe Pomponio dalla masseria dell'Argentieri fu trasportato in Furci, e morì dopo parecchi giorni, non senza aver svelato ai carabinieri del Bergia numerosi delitti e indicando diversi luoghi dove diceva di aver nascosto del denaro. Ma i militi sprecarono non poco tempo a cercare detti tesori, poichè il Pomponio sebbene moribondo si divertiva a beffarli. Invero il Piovesan ne "La Città di San Salvo" cit. pag 293 sia pur sinteticamente racconta una versione parzialmente diversa sulla morte del Pomponio: "Caduto per tradimento [...] fu impiccato sul posto, quindi decapitato, [...] mutilato. Una parte della sua carcassa fu esposta al ludibrio sulla torre di Bassano di Vasto; un braccio fu appeso all'ingresso del castello di Monteodorisio [...]; e l'altro braccio sotto l'arcata della porta di San Salvo, prospicente piazza San Vitale". Così, con la morte dei due Pomponio e dei loro compagni, fu quasi totalmente estirpata nei nostri territori la mala pianta del brigantaggio. Il Bergia già decorato di due medaglie d'argento, fu decorato della medaglia d'oro al valor militare. Sperando di aver reso il giusto omaggio alla memoria dei militi che tanto hanno fatto per la nostra terra, d'altro canto ci piace terminare questo scritto con le parole del Piovesan "La Città di San Salvo" cit. pag 294: "...nessuno ha motivo di arrossire dei fatti altrui, essendo ciascuno responsabile delle proprie azioni. San luigi Gonzaga non cessa di essere il grande Santo pur avendo avuto un pessimo fratello". |
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