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MOMENTI DEL BRIGANTAGGIO IN CAPITANATA: LA BANDA GARGANICA DI DEL SAMBRO

di: Michele Galante

da: http://www.reciproca.foggia.it/Contributi/Capitanata/galante.htm

Tra le numerose bande di briganti che infestarono il promontorio garnanico nella tormentata fase di passaggio dai Borboni alla monarchia sabauda la più nota rimane quella che faceva capo ad Angelo Maria Del Sambro, detto "Lu Zambro", figura a quel tempo conosciuta in Capitanata, ma successivamente poco studiata (1). Nato a San Marco in Lamis il 24 marzo 1827 da Michelangelo e da Maria Michela Palma, entrambi contadini, si trovò ben presto ad affrontare la vita dura dei campi con il relativo carico di miseria e di monotonia, per cui fin da giovane cominciò la sua vita avventurosa e rischiosa, mostrandosi poco incline alla passiva rassegnazione. Prestò servizio di leva nell'esercito borbonico, dal quale disertò, dedicandosi ben presto ad attività malavitose "radunandosi in comitiva armata" in compagnia di altri giovani contadini che allora si stavano affacciando sul territorio garganico, scorrendo le pubbliche strade e commettendo misfatti e delitti. Questi giovani erano Michele Battista, detto Incotticello, Angelo Raffaele Villani, alias Recchiomozzo, e Nicandro Polignone, soprannominato Licandrone, tutti e tre personaggi di spicco, che segneranno i tempi tristi del brigantaggio post-unitario garganico e di Capitanata. Il primo arresto Del Sambro lo subì il 30 novembre 1859 da parte della guardia urbana, che lo sorprese insieme al Villani in una casetta di campagna a poca distanza da San Marco in Lamis, dove erano annidati. "All'intimidazione di arrendersi Recchiomozzo non oppose difese, non così il Del Sambro che, con baionetta, opponeva viva resistenza scagliandosi contro la forza, cagionando ferite ai componenti della stessa. Dopo un sì vivo attacco, finalmente il De Sambro cadeva in potere di quelle guardie, le quali requisirono ai banditi tre fucili con rispettive baionette ed anche munizioni di polvere da sparo e di palle" (2). Processati dalla Gran Corte di Capitanata, vennero condannati il 16 ottobre 1860 a pene varianti dai diciannove ai venticinque anni di ferri attribuiti allo "Zambro", e al pagamento di ducati 276 e 11 grana per le spese processuali (3). Nella confusione e nell'anarchia causata dal rivolgimento politico in atto nel Mezzogiorno, riesce ad evadere con altri suoi compagni dal carcere di Bovino, dove vi era rinchiuso, come attesta un dispaccio del sottogovernatore di San Severo indirizzato all'allora sindaco di San Marco in Lamis Antonio De Theo il 5 gennaio 1861 (4). È evidente che senza il repentino crollo della monarchia borbonica e la traumatica transizione al nuovo stato unitario, questi briganti avrebbero senz'altro oscuramente trascorso la loro esistenza come forzati nelle galere borboniche. La crisi dissolutrice dell'estate del 1860 valse a restituire loro non solo la libertà, ma anche l'insperata occasione di potersi dare ad un banditismo prima assolutamente impensabile per proporzioni e pericolosità. Comincia così, organicamente, il cammino di brigante di Del Sambro, nel corso del quale si fa portavoce della riscossa sociale e legittimista e dell'ansia di riscatto dei tanti nullafacenti che popolavano San Marco in Lamis e che vivevano in una condizione subumana di miseria e di ignoranza, concorrendo ad alimentare una catena di odi e di vendette che di lì a poco sarebbe esplosa in forme virulente, causando lutti e rovine. Gli esordi di questa banda furono caratterizzati da reati di abigeato, che nel territorio garganico conosceva una sua consolidata tradizione ed un suo radicamento. Abigeato assumeva un ruolo decisivo in una società che aveva nell'allevamento e nella trazione animale degli strumenti economici di primaria importanza. "La pratica dell'abigeato, infatti, mobilita persone di condizione sociale diversa, consente una ricollocazione nell'ambito della comunità di appartenenza, aggrega clientele e gruppi politici" (5). L'esordio politico questa banda lo ebbe a Mattinata, nell'invasione del 10 maggio 1861, con la partecipazione di numerosi briganti capitanati da Agostino Nardella, alias Potecaro. Il ruolo di Del Sambro, all'inizio, non era quello del capo, che apparteneva indiscutibilmente al "Potecaro", il quale, sia per ragioni di età sia per capacità militari, coraggio e autorevolezza, si era guadagnato i galloni di capo nelle turbinose vicende dell'ottobre 1860, allorché si pose con ardore e coraggio novello Farinata (6) a difesa degli interessi dei suoi concittadini, respingendo una provocazione proveniente da alcuni briganti di San Giovanni Rotondo ed evitando in tal modo lo scorrere di sangue; dopo che lo stesso era stato elemento di punta del movimento che aveva portato i sammarchesi a disertare le urne per il plebiscito fissato per il 21 ottobre 1860 e al quale il Del Sambro, essendo rinchiuso in carcere, non potè prendere parte. Ma sono soprattutto gli avvenimenti del 2-4 giugno 1861, allorché si verificò l'insurrezione di San Marco in Lamis e di Rignano Garganico, nel corso della quale ebbero luogo gravissimi torbidi accompagnati da morti, che sanciscono la leadership di Del Sambro, anche a seguito della morte di Agostino Nardella, che, fino ad allora, era stato autorevolissimo capo della banda dei sammarchesi. La banda Del Sambro, della quale assunse il comando con il titolo di "generale di campagna", operava per lo più nel triangolo San Marco in Lamis-Apricena-San Severo, compiendo numerosi furti ed anche sequestri di persona, come a danno di un certo Santelli, al fine di incamerare danaro. Scarsi o quasi inesistenti erano, invece, i collegamenti con le bande che facevano capo ad altri briganti garganici come Palumbo e Gatta, operanti, prevalentemente, nel versante sud-orientale del promontorio. La banda di Del Sambro crebbe in pochissimo tempo, alimentandosi degli sbandati, che, incorporati nell'esercito italiano, disertavano, arruolandosi sotto la bandiera bianca dei Borboni e, soprattutto, dei tanti giovani che affluivano nelle bande per motivi diversi. In primo luogo perché i giovani potevano con facilità sganciarsi di casa perché non avevano figli a cui pensare; poi perché volevano sfuggire al servizio di leva; infine perché il mancato mantenimento delle promesse del nuovo regime provocò in loro una profonda delusione, spingendoli a diventare i più accaniti oppositori. In poco tempo l'agro di San Marco in Lamis divenne il rifugio di tutti i malviventi e di tutti gli sbandati, mentre la banda Del Sambro allargava il suo raggio d'azione attraverso una frenetica ed incessante attività, fino a coprire buona parte del territorio garganico e dell'Alto Tavoliere, andando in tal modo a costituire un "distretto brigantesco" di discrete dimensioni. Lu Zambro e la sua combriccola accrebbero le file, formando una banda di oltre cinquanta individui armati di tutto punto e a cavallo, la quale sovente si divideva in frazioni comandate dallo stesso Del Sambro, da Recchiomozzo e da Licandrone. Queste bande, a cui di volta in volta si aggregavano quelle di minore consistenza guidate dal terranovese Leonardo d'Aloia, dall'apricenese Nicandro Barone, detto Licandruccio, dal Magnocavallo, taglieggiavano la zona garganica, il Tavoliere e tutti i paesi circostanti, arrivando alla sponda destra del Fortore, congiungendosi, talvolta, con le grosse accozzaglie di Michele Caruso, il cavallaro di Torremaggiore, il brigante più famoso e conosciuto di quella zona, di Varanelli da Celenza Valfortore e di Minelli, che infestavano le due sponde del Fortore. Per tutto il 1861 e fino alla sua morte il De Sambro partecipò alle più importanti azioni brigantesche o direttamente o attraverso i suoi luogotenenti: all'invasione di Poggio Imperiale nel giugno 1861, alla rivolta di Vieste nel luglio, agli scontri con i lancieri nel territorio di San Marco in Lamis e di Rignano Garganico, ai combattimenti presso la masseria Petrulli in agro di Torremaggiore, all'invasione di Ischitella nel mese di settembre, alla cruenta battaglia di fine 1861 in località Ciccallento (7). In questi scontri la banda Del Sambro inflisse sempre pesanti perdite all'esercito, anche perché il capo era dotato di grandi capacità militari e di uno straordinario senso tattico, che gli consentivano di "scansare la forza, minore o maggiore come si fosse stata, essendone a tempo avvisato del più piccolo movimento da persone prezzolate, le quali facevano a gara a chi il primo li portasse notizie, per la grossa mancia che poi si riceveva" (8). Gli incendi, i ricatti, le uccisioni di persone e di animali, i sequestri di persona da parte di Del Sambro continuarono fino a metà anno 1862, allorché, nel corso di quella calda estate, si cominciò da parte dell'esercito a preparare una controffensiva contro il brigantaggio, colpendo più efficacemente gli appoggi occulti, che costituivano la vera forza dei briganti. Il 28 giugno, infatti, il nuovo comandante della guarnigione di San Marco in Lamis, il maggiore Rajola Pescarini, uomo coraggioso e militare accorto, riesce ad intrappolare, con l'aiuto del capitano Cavallero e del tenente Federici, il Del Sambro, che si trovava in località "Cardinale", vicino alla strada che da San Marco in Lamis conduce a Sannicandro Garganico, presso la tenuta di don Giuseppe Luigi Ciavarella, ricco possidente, che a quel tempo era uno dei capi del locale comitato borbonico. In quell'occasione trovarono la morte i compagni d'armi di Del Sambro: i fratelli Giovanni e Giuseppe Antonio Vincitorio, il medico cerusico don Nicola Perifano e Pietro Argentino, renitente alla leva del 1861. Il Del Sambro, invece, fu catturato, portato a San Marco in Lamis e fucilato il giorno dopo, il 29 giugno 1862, alla presenza di migliaia di persone, perché essendo un brigante di primo piano ("generale riformatore di comitiva"), la decisione ultima era demandata alle massime autorità provinciali. Si chiudeva così l'esperienza umana di un vero capobrigante, che tuttavia non riuscì mai a varcare la fama di capo essenzialmente locale e i confini di un territorio piuttosto ristretto, diversamente da quanto capitò ad altri due briganti famosi, Michele Caruso e Giuseppe Schiavone, il cui raggio d'azione fu molto più ampio e la cui esperienza politico-militare superò i confini della loro area di provenienza. Il Del Sambro non costituì una precisa dimensione politico-sociale o, comunque, allo stato della documentazione è difficile rinvenirla. A differenza di altri briganti, che rappresentarono una forma di banditismo sociale come Vardarelli o Nicola Morra, o, anche, di altri briganti, come il suo concittadino Agostino Nardella, che, pure, non era insensibile ad alcune problematiche sociali. Uomo dal carattere forte e deciso, fu un capobanda capace e riconosciuto; seppe tenere in pugno, con autorevolezza e carisma, ma anche con autoritarismo, una banda composita e variegata, che, dopo la sua morte, conobbe un vero e proprio processo centrifugo, sfaldandosi progressivamente, a causa del risveglio di vecchie gelosie ed inimicizie, temporaneamente sopite. Come capita sempre nel fuoco di una lotta, capo non è chi è designato a tavolino, ma colui che si rivela il più energico, il più abile, il più coraggioso e persino il più spietato. E la disciplina che vige all'interno delle bande non proviene da leggi o regolamenti, ma unicamente dal prestigio personale e dal timore che ispira il capo. Del Sambro da un certo punto di vista fu un brigante del tutto particolare. Temuto e rispettato, ma non amato, suscitatore di speranze, non capopolo. Suo scopo era quello di accrescere il suo potere di intimidazione e il suo potere economico in particolare, accumulando non soltanto un enorme patrimonio zootecnico, che toccò punte elevate, ma anche oro e danaro. Per questa ragione, oltre che per motivi di consenso sociale, egli con i suoi seguaci assaltava le masserie, i luoghi ricchi della pianura, piuttosto che le misere casupole di montagna. Fu tra quei briganti che, con il cambio di regime politico, accarezzarono l'idea di poter finalmente mutare le modestissime condizioni di una vita, condotta fino ad allora tra tante umiliazioni ed altrettante privazioni, ricorrendo alla violenza criminale come strumento di ascesa sociale per acquistare prestigio, potere, agiatezza. Ma nella sua avventura le vicende politiche rimangono molto sullo sfondo, per cui non si può dare completamente torto al giudice istruttore di Trani, che, a proposito dei moti di San Marco in Lamis del giugno 1861, sottolineò che lo scopo precipuo di quel movimento fu la rapina, il furto e la vendetta privata, e la causa politica vi concorse come secondaria ed accidentale" (9). Affermare che la finalità principale di quella rivolta fosse criminale e non politica non significa però nascondere o sottovalutare le collusioni occulte e palesi che, anche localmente, esistevano tra la banda Del Sambro e i maggiori rappresentanti del comitato borbonico, che cercavano con tutti i mezzi di promuovere la reazione antiunitaria, fornendo alle bande protezioni, e appetitosi finanziamenti, oltre che una forma di legittimazione politica. Per i briganti accumulare capitali e ricchezze era il fine essenziale, non diversamente da quanto oggi accade per la moderna criminalità che sulle vicende politiche, vuole esercitare un potere di condizionamento per salvaguardare i propri interessi ed accrescere i propri beni illeciti e che al potere politico presta il suo aiuto e i suoi favori, nella logica di un reciproco accordo, anche se non ufficializzato. Era questo il corrispettivo di una vita trapazzosa, piena di incognite e di troppi rischi, contrassegnata da troppe notti passate all'addiaccio, con la spada del ricatto o del tradimento permanentemente sulla testa. La condizione dei briganti era quella che il famoso brigante calabrese Carmine Talarico descrisse: "Un brigante deve stare sempre attento ad eventuali pericoli, girando la testa prima in una direzione, poi nell'altra. Egli vive in uno stato di paura, soprattutto di sfiducia e di vigilanza. È nemico di tutti e tutti gli sono nemici" (10). I briganti possedevano sì ricchezze, ma potevano goderle solo per poco tempo, consapevoli come erano che la loro vita era destinata ad essere breve e che la morte poteva sorprenderli da un momento all'altro. Quando Del Sambro fu catturato, addosso gli trovarono un ricco bottino di danaro ed oggetti di oro. Non diversamente accadde a Ninco Nanco, il quale venne colpito da un colpo di fucile che "lo fece estinto e gli si trovarono indosso molti danari e due medaglie, una in bronzo al merito di un istituto militare, l'altra un fregio di un'armatura antica che rappresentava un elmo con dei rabeschi" (11). Cannone da Casoli, il capo della banda di Atessa, portava orecchini, anelli, orologio, il tutto massicciamente in oro, ma anche strisce di argento alla giacca e scarlatte ai calzoni (12). Ad un altro esponente garganico, appartenente alla banda di Angelo Raffaele Villani, del quale forse era il cassiere, venne trovato addosso al momento della morte avvenuta in combattimento presso Cagnano il 6 marzo 1863 un vero e proprio tesoro. Così un cronista militare dell'epoca raccontò la sua uccisione: "Allora uno dei soldati sparò nella buca e, dopo poco, tirando ancora il piede, il corpo esanime fu estratto. Era un giovane poco più che ventenne, bella figura scultorea, impuntabile nella sua uniforme brigantesca con ogni ben di Dio nelle tasche: lunga borsa fornita di 200 piastre, un grosso involto di gioielli, orecchini e spille di brillanti di valore, fili di coralli comuni, parecchi anelli con pietre varie, un orologio ed ancora una magnifica pipa di schiuma con buoni sigari napoletani" (13). Una descrizione che fa pensare più ad un giovane aristocratico che ad un bandito. Sempre sul Gargano, a Rignano, nel corso di un'incursione una compagnia di briganti si "ammutina contro il loro capo, lo disarma, lo spoglia di ducati 1700 che aveva in oro e in argento" (14). Una cifra non disprezzabile, considerato che un ottimo cavallo era venduto a cento ducati. Tornando al Del Sambro, va detto che il suo carattere aspro, spigoloso, e persino malvagio, talora conosceva barlumi di vera umanità, come gli capitò in più occasioni. Nel corso dei moti del giugno 1861 mise sotto protezione, salvandogli la vita, il medico Giuseppe Tardio disobbligandosi "per un servizio che io gli resi nel dicembre '59, allorché, ferito, fu medicato da me nel carcere criminale senz'ombra di diffidenza e di timore, mentre altri medici rifiutarono l'opera loro, temendo di lui come belva feroce" (15). Non meno generoso si rivelò, nel mese di luglio 1861, nei confronti di diciotto lancieri, che, fatti prigionieri in territorio di Rignano Garganico, furono da lui non sgozzati, ma posti in libertà con in più un regalo di quattro piastre (16). Con la morte del "generale riformatore di comitiva" inizia il processo di disfacimento e di disgregazione della sua banda, che si va frazionando in più 'comitive', talora in guerra tra di loro, tant'è che dopo la morte di Del Sambro vengono uccise alcune sorelle dello stesso da parte di bande rivali. La durezza della repressione intanto e la perdita di consenso che i briganti subivano presso la popolazione, spingevano molti ad abbandonare le file e favoriva il processo di distacco e di dissociazione dalle bande. La "legislazione premiale", che veniva praticata con lo sconto della pena per chi si presentava 'spontaneamente' e i premi in danaro elargiti a favore di quanti concorrevano a segnalare la presenza delle bande o ad agevolare la loro cattura, determinarono una crisi acuta all'interno delle stesse, inserendo anche un clima di lotta intestina e di sospetto reciproco, che toglieva forza e vigore alla lotta contro i militari impegnati nella repressione. I comandanti delle compagnie schierate su quei teatri di lotta sempre più praticavano, con il concorso delle autorità locali, un'opera di pressione, di intimidazione e, nello stesso tempo, promettevano riduzione di pene, protezione e lavoro alle famiglie più incerte e tentennanti, per indurre i 'tristi' a costituirsi e a collaborare con il nuovo stato. Questa condotta introdusse un cuneo formidabile nella compattezza delle bande e ne determinò lo scompaginamento. Il 15 aprile 1863, tradito da due briganti, suoi cugini, venne ammazzato, in uno scontro presso il convento di Stignano, il capobanda Nicandro Polignone. Quattro giorni dopo il regio delegato Giuseppe Santelli, che nel comune di San Marco in Lamis aveva sostituito il sindaco e il decurionato, distribuì simbolicamente in pubblica piazza, alla presenza del popolo e dei soldati parati in armi, un premio di mille lire ai due fratelli cugini, assassini del Polignone. Dopo l'uccisione di "Licandrone" il processo di disfacimento delle bande che operavano nel territorio garganico conobbe una fase di accelerazione, ed insieme ai sammarchesi furono coinvolti quei gruppi armati che operavano attorno ad Apricena. Il 1° giugno del medesimo anno venne ucciso in agro di Sannicandro Garganico, dove aveva tentato di trovare scampo, il brigante Nicandro Barone, detto Licandrino, colpito da fucile della guardia nazionale Nino Maglio (17). Dei briganti di un certo peso che costituivano la banda dello "Zambro" l'unico rimasto in vita era il famoso Recchiomozzo. Ma il cerchio si stava stringendo attorno a lui da parte delle autorità militari provinciali, che cercavano di incentivare il fenomeno del pentitismo e della dissociazione, promettendo benefici. Il prefetto di Capitanata De Ferrari il 1° giugno 1863 emise apposito bando contro Schiavone, Caruso, Villani e Palumbo, ricevendo per queste operazioni fondi speciali da parte del ministero dell'interno. Infatti promise un premio straordinario e fortissimo, pagabile immediatamente "a chi contribuirà alla cattura di uno almeno dei briganti o di qualche complice. Colui che renderà tale servigio, se bandito e presentandosi, oltre il premio godrà della diminuzione della pena di un grado e sarà raccomandato alla grazia divina" (18). Il 17 agosto del '63 venne ucciso sempre a San Marco in Lamis, in contrada Lavorelli, dopo un lungo scontro a fuoco con un gruppo di guardie nazionali, capeggiato dai fratelli Carlo e Luigi De Carolis. La fine del Villani fu resa possibile grazie ad un tranello teso dalle guardie nazionali con il concorso di alcuni appartenenti alla banda Villani e di una donna, Gaetana D'Apolito, che ebbe in premio trecento lire da parte della Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio. Con la morte di Recchiomozzo nei fatti veniva sgominata quella che era stata la più temibile, agguerrita e impietosa banda del Gargano, che aveva fatto riferimento a Del Sambro, e il comune di San Marco in Lamis, considerato dai responsabili dell'ordine pubblico 'vergogna nazionale', poteva considerarsi pressoché normalizzato. Questo episodio, avvenuto per mera coincidenza due giorni dopo la promulgazione della "legge Pica", che istituiva nel Mezzogiorno infestato dal brigantaggio lo stato di polizia, rappresentò per la Capitanata una svolta nella lotta al brigantaggio, che, seppure non completamente debellato sul piano militare, sempre più appariva agli occhi delle popolazioni un fenomeno con il quale non bisognava avere nulla da spartire. Una lotta disperata senza più alcuna possibilità di successo.

 

 

 NOTE

1 - Sulla figura di Del Sambro costituisce un prezioso punto di riferimento il lavoro di P. Soccio, Unità e brigantaggio, Napoli, 1969. Di qualche interesse è anche l'articolo di T. Nardella, Angelo Maria Del Sambro, comparso sul periodico "Il Gargano" del 30 marzo 1961. Uno studioso serio e attendibile come il Molfese lo confonde invece con l'altro brigante sammarchese Angelo Raffaele Villani (cfr. Storia del brigantaggio dopo l'Unità) e, sulla sua scia, altri incorrono nello stesso errore. Sempre a proposito di Del Sambro va segnalato che all'anagrafe comunale il suo nome risulta essere non Angelo Maria, ma Antonio Angelo (cfr. Comune di San Marco in Lamis, Registro atti di nascita, anno 1827, fol. 152). Questo stesso nome viene confermato altresì dall'atto di matrimonio che il Del Sambro contrasse con Maria Rachele Tantaro il 14 luglio 1847 (cfr. Comune di San Marco in Lamis - Registro atti di matrimonio, anno 1847, fol. 38).

2 - Archivio di Stato di Foggia - Sezione Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata, f. 952, f. 7567.

3 - Ib., f. 952, f. 7567.

4 - P. Soccio, op. cit., p. 131.

5 - R. Mangiameli, Banditi e mafiosi dopo l'Unità, in "Meridiana - Rivista di storia e scienze sociali". Roma, n. 7-8, sett. '89-genn. '90, p. 89.

6 - P. Soccio, op. cit., p. 52.

7 - T. La Cecilia, A caccia di briganti in terra di Puglia a cura di T. Nardella, Manduria, 1985, p. 39.

8 - P. Soccio, op. cit., p. 203.

9 - Corte d'appello delle Puglie, Trani, Sentenza ed atto di accusa pei fatti criminosi accaduti in San Marco in Lamis e Rignano nei primi giorni di giugno 1861, Trani, 1864, p. 13.

10 - A. Scirocco, Briganti e società: il caso Calabria, Cavallino, 1991, p. 53.

11 - G. Bourelly, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865 nelle zone militari di Melfi e Lacedonia, Venosa, 1987, p. 218.

12 - R. Colapietra, Il brigantaggio post-unitario in Abruzzo, Molise e Capitanata nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all'individualismo agrario, in "Archivio storico per le province napoletane", Napoli, a. CI, 1983, p. 308.

13 - T. Mariotti, Una pagina del brigantaggio in Capitanata negli anni 1862-1865, in "Rivista militare italiana", Roma, 1951, p. 36.

14 - P. Soccio, op. cit., p. 209.

15 - G. Tardio, I giorni del brigantaggio a San Marco in Lamis, Foggia, 1962, p. 20.

16 - P. La Porta, Ricordi del brigantaggio garganico, S. Marco in Lamis, 1995, p. 37.

17 - T. Mariotti, op. cit., p. 19.

18 - N. C. D'Amelio, Quel lontano 1860, Foggia, 1989, p. 115.

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