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IL CONTADINO MERIDIONALE |
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di Ludovico Greco da "PIEMONTISI, BRIGANTI E MACCARONI", Guida Editori, Napoli, 1975 |
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"Vassallo, cafone, ciuccio, villano" |
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L'eroica gesta dei Mille, che alla gran famiglia italiana con giunse l'antico regno di Napoli, aveva suscitato nelle plebi del Mezzogiorno i più vaghi sogni di eguaglianza civile ed economica; ma, dileguata l'ebbrezza dei primi entusiasmi, le disparità sociali riapparvero più insanabili e profonde. Mentre la borghesia, sorta sulle rovine del feudalismo, celebrava il trionfo delle sue idealità politiche, l'immensa turba dei campi continuava a dibattersi nella più tetra miseria. |
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Era scomparso fin dagl'inizi del secolo decimonono il feudatario; ma rimaneva, sfruttato e vilipeso, il servo della gleba; era infranta la proprietà medioevale; ma gemeva ognora nell'antica oppressione la classe dei contadini. "I baroni non sono più, - affermava in quei giorni un illustre parlamentare di fede conservatrice - ma la tradizione dei loro soprusi e delle loro prepotenze non è ancora cancellata, ed in parecchie località l'attuale proprietario non cessa dal rappresentare agli occhi del contadino l'antico signore feudale. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere ne prosperità; sa che il prodotto della terra inaffiata de' suoi sudori non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria, e l'istinto della vendetta sorge spontaneo nell'animo suo". Lacero e scalzo, curvo e deforme dal disumano lavoro della zappa, il bracciante meridionale nella seconda metà del secolo scorso, ed anche oltre, vive in affumicate e luride stamberghe, vere tane di bestie; si nutre di legumi secchi o di erbe, che' la sua donna cerca nei sentieri e nei prati. Non solo la carne, affatto bandita dal suo miserevole desco, ma anche il pane è per lui un cibo di lusso, sostituito per lo più da una minuta polvere di orzo, ceci e granone, che gli strozza la gola. E, triste a dirsi, una classe di tracotanti terrieri non solo ne manomette le sudate fatiche e lo insidia nell'onore, seducendone le consorti e le figlie; ma lo cosparge di ludibrio e irride alla sventura, additandolo con i roventi appellativi di vassallo, cafone, ciuccio, villano! E' analfabeta, superstizioso, semibarbaro: nessun lume di cultura gli rischiara la mente, nessun raggio di speranza lo conforta e sorregge nelle insopportabili angosce. Unico sollievo in tanto squallore è la rassegnazione ispirata nel suo animo da un sentimento religioso, primitivo e grossolano; unica remora alle selvatiche tendenze il misterioso terrore dell'eterno castigo. Non di rado, sotto l'impulso incoercibile della fame, insorge e tumultua nei campi o sulle piazze della natia borgata; ma la morte violenta, tra le raffiche di selvaggia fucileria, o la perenne galera spegne il fremito della riscossa. E in tal guisa il derelitto colono, dalla prima infanzia all'estrema vecchiaia, trascorre la sua vita grama, intessuta di dolori e di lacrime, amareggiata dall'odio contro i galantuomini, piccoli tiranni, esclusivi possessori della terra tante volte usurpata ai danni della comunità e del pubblico demanio. (Antonio Lucarelli: Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860, Bari 1946). |
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