CASTELPAGANO Terra del Sannio Beneventano |
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IL PANE LAVORATO E COTTO IN CASA
da: "CASTEPAGANO" di D.M.Ricchetti, Fasano Editore, 1983 |
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O ggi sono rare le famiglie che a Castelpagano fanno il pane in casa propria, molti però tengono ancora il forno di mattoni in casa. Le famiglie che non avevano grano dovevano acquistano. La trebbiatura allora si eseguiva con i buoi sull'aia, restavano nel grano molte impurezze e il grano "scognato" (trebbiato) richiedeva una buona lavatura e conciatura. In una bella giornata di sole si preparavano due tini di legno quasi pieni di acqua. Si immergeva il grano in un tino, si prendeva con il crivello (polliccio), si muoveva con le mani e si passava nell'altro tino per la stessa funzione; da questo tino veniva messo nei cesti, o "monelli" e portato su panni distesi a terra (ràchene) ove era sparso. Ogni tanto il grano si rivoltava con il "ratavello" (zappa di legno). Dopo che si era asciugato bene, si conciava per togliere altre impurezze. Il grano lavato si conservava in sacchi in attesa della sfarinatura. Con animali da soma si portava il carico (salma) al molino che aveva macine di pietra. La farina vi usciva integrale. Tanto come preliminare. La sera avanti di fare il pane si metteva a lievitare in un secchio di legno la farina impastata col lievito. Si prendeva un mezzetto di farina (circa 24 Kg.) e si cerneva nella madia (fazzatora). La mattina seguente si metteva la pasta lievitata nella farina e con acqua si mescolavano. Con le mani a pugno chiuso si lavorava (ammassava) la pasta e si aggiungeva ogni tanto un pò di acqua. Quando la pasta cominciava a fare le vescichette, si smetteva. La lavorazione era di circa due ore. La pasta si lasciava lievitare nella madia oppure in un tino coperto da panni fin quando raggiungeva il segnale fatto con la pasta (circa 10 cm. di altezza). Intanto si accendevano le legna nel forno. Poi "si scanava", cioè la pasta lievitata si distendeva sul tavolino cospargendolo con un pò di farina per non farla appiccicare, si allungava e si tagliava a pezzi. Ogni pezzo si arrontondava con le mani a forma di pannello e avvolto in salvietto si deponeva in cestino o nella madia per una seconda lievitura, mentre le pizze restavano sul tavolino coperte. Colla raditura della madia, o del tino si faceva un parrozzo a parte. Un pò di pasta in una tazza si lasciava per il lievito. Quando la volta del forno era imbiancata, era pronto per la cottura. Si tirava la brace alla bocca del forno e con lo scopino (mùnnelo), fatto di spoglie di spighe di mais, si puliva il forno; alla buca piccola del forno si accendevano le fascine (ceppe), perché la fiamma mantenesse caldo il forno e vi facesse luce. Prima si infornavano le pizze con una pala di legno (panara), si estraevano le pizze cotte e si infornavano i panelli (circa 10-12). Si lasciava un pò di brace alle bocche del forno, e si chiudevano con coperchi. La durata della cottura era di circa due ore. Poi si estraevano i panelli e si mettevano sul tavolo, o nella madia a raffreddare, infine si conservavano nello stipo. I meno abbienti usavano fare la "cornùzzola" che era il pane di farina di grano e di mais in parti eguali. Il "paniciello" che usavano molti contadini era pane di farina di mais soltanto. Si impastava con acqua molto calda usando un mestolo di legno (cucchiara). Chiunque entrava in casa mentre si faceva il pane doveva dire:Sant' Martin ' e si rispondeva: Ben venut' |
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