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 CONTRO LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI

di Sergio Romano

da: I VOLTI DELLA STORIA edizione RCS Libri, 2001 Milano

 

In una raccolta di saggi e articoli (Storia e politica) Paolo Mieli ricorda i dibattiti degli scorsi anni sul "revisionismo" e si chiede perché sia così difficile, in Italia, discutere "con pacatezza della nostra storia patria". A questa domanda Mieli risponde puntando il dito contro le molte ombre con cui i vincitori, sin dall'inizio dello Stato unitario, hanno oscurato la storia dei vinti. Abbiamo raccontato e idealizzato la spedizione dei Mille in Sicilia, ma abbiamo dimenticato i "mille" borbonici di Teodoro Salzillo che nell'ottobre del 1860 "formò un battaglione di volontari costituiti in gran parte da guardie urbane, militi congedati, gendarmi fedeli al re, e mosse all'attacco dell'esercito garibaldino". Abbiamo elevato monumenti alla gloria degli eroi risorgimentali, ma dimenticato la nobilità con cui Francesco II e la regina Sofia difesero il loro regno sugli spalti di Gaeta. Passano gli anni e cambiano i regimi, ma il metodo storiografico rimane sostanzialmente lo stesso. Il fascismo elogia Crispi, "precursore" di Mussolini, ma ignora o sottovaluta Giolitti. La storiografia antifascista del secondo dopoguerra esalta le lotte operaie e le proteste popolari, ma trascura o sfuma i fermenti sociali dell'ultimo fascismo. Ogni famiglia ideologica ha riscritto a suo piacimento la genealogia del paese in cui vorrebbe vivere. Per i fascisti eravamo legittimi discendenti degli antichi romani. Per l'antifascismo di sinistra siamo nipoti dei giacobini francesi. Comunione e Liberazione vorrebbe che discendessimo dagli aretini e dai napoletani che insorsero in nome della fede contro l'esercito francese del generale Bonaparte. Questo vizio di ridurre la storia alle proprie convinzioni e convenienze non è soltanto italiano. Alcune generazioni di scolari francesi hanno studiato le vicende del loro paese sul manuale di Lavisse e Isaac (una sintesi della grande opera in dieci volumi che Ern est Lavisse pubblicò agli inizi del Novecento) in cui il tono è strettamente patriottico repubblicano. Gli studenti inglesi degli anni Trenta hanno appreso la storia dell'impero britannico in un libro di J.A. Williamson (History ofBritish Expansion) in cui il lettore non troverà traccia della spietata durezza con cui le truppe di Sua Maestà schiacciarono l'ammutinamento indiano del 1857. Il problema della "storia patria" sorge nel momento in cui gli Stati, dopo il 1848, diventano "nazionali" e adottano, uno dopo l'altro, il principio dell'educazione obbligatoria. Ai figli dell'operaio, dell'artigiano, dell'agricoltore e del bottegaio non basta impartire nozioni di lingua e dì aritmetica. Occorre insegnare un catechismo civile, positivo ed entusiasmante. Occorre spiegare che la patria è sacra e che la sua storia è costellata da gloriose vittorie o immeritate sconfitte. I grandi storici e i grandi volgarizzatori - Macaulay, Trevelyan, Michelet, Taine, Thiers, Jaurès - forniscono dall'alto le loro nobili riflessioni sul passato. Gli istitutori e i maestri le traducono e le adattano in un linguaggio comprensibile ai loro scolari. Una "buona" storia produce buoni soldati. Qualcuno disse che la battaglia di Sedan, nella guerra franco-prussiana del 1870, fu vinta dai maestri delle scuole tedesche. Altri potrebbero osservare che i difensori di Verdun, nel 1916 e nel 1917, avevano imparato a odiare i boches sui banchi della Terza repubblica. Ma fra le maggiori democrazie e l'Italia vi è, sin dagli anni del fascismo, una vistosa differenza. Altrove la storia dei manuali e quella degli storici corrono su binari separati. La prima riflette le esigenze e i criteri pedagogici della classe dominante; la seconda esplora nuovi terreni, sovverte vecchie convinzioni, "rivede" le conclusioni della generazione precedente. In Italia invece, per molti anni, la storia accademica e la storia scolastica dello Stato nazionale hanno condiviso, con qualche eccezione, la stessa matrice ideologica e si sono ispirate a una stessa "correttezza". Spero che gli storici della sinistra militante non se n'abbiano a male se osservo che il loro modo di scrivere assomiglia come una goccia d'acqua a quello di molti dei loro colleghi degli anni Venti e Trenta: le stesse certezze manichee, le stesse scomuniche, la stessa inclinazione a leggere gli avvenimenti con gli occhiali dell'ideologia, nazionalista allora, marxista, proletaria e antifascista oggi. Le cose cominciano a cambiare nel momento in cui la fine della guerra fredda, il crollo del comunismo e l'apertura degli archivi, soprattutto sovietici, rimettono in discussione la storia del secolo. Quelle che a certi studiosi di sinistra appaiono manovre revisioniste, concepite per spianare la strada alle offensive della destra, sono in realtà un fenomeno salutare. Finito ormai il mondo delle contrapposizioni ideologiche, la storia ridiventa ciò che è sempre stata: incoerente, ambigua, contraddittoria, camaleontica, capace di mutare forma e significato a seconda dell'occhio che ne scruta le pieghe. Paolo Mieli è stato fra i primi a rendersene conto. Dopo avere diretto il "Corriere della Sera" ha tirato fuori dall'armadio, dove l'aveva riposta per qualche anno, la sua vecchia vocazione di studioso e si è immerso in letture storiche da cui ha tratto articoli e saggi che ha raccolto in un libro del 1999 (La storia, le storie) e in quello apparso successivamente in libreria, Storia e politica. Non esistono in questi scritti né una ideologia, né un partito preso. Mieli ha alcune personali convinzioni politiche e morali a cui non intende rinunciare, ma non permette che gli velino lo sguardo o gli impediscano di constatare che gli uomini non sono facilmente classificabili e che le ragioni dei vinti meritano sempre di essere ascoltate. Con le sue letture ha costruito una straordinaria galleria di personaggi che rompono gli schemi della storiografia ideologica. Vi è Giorgio Siculo, benedettino, eretico, condannato dall'Inquisizione, ma inviso anche all'Europa protestante. Vi è Carlo Filangieri, liberale, figlio di un grande illuminista, ma devoto suddito della dinastia borbonica. Vi è il capitano Prinetti, soldato di mestiere, veterano della terza guerra d'indipendenza, ma sacerdote dal 1873 e rettore, alla fine della sua vita, della Casa degli oblati a Torino. Vi è Carlo Silvestri, socialista, ma amico di Mussolini e regista di una impossibile riconciliazione tra una parte del fascismo e una parte della Resistenza. Vi è Guido Piovene, fraterno amico di un intellettuale ebreo, Eugenio Colorni, ucciso nel 1944; ma autore negli anni Trenta di alcuni articoli esplicitamente antisemiti. Vi è Roberto Vivarelli, salveminiano e storico del liberalismo prefascista, ma volontario, a tredici anni, nelle Brigate Nere. E vi sono soprattutto, senza le abituali prudenze e distinzioni dello storico di parte, gli orrori, le perfidie e le crudeltà del Novecento, dal gulag al lager, da Hitler a Stalin, dai comunisti italiani perseguitati in Unione Sovietica alla guerra civile italiana del 1943-45. Come tutti gli scrittori Paolo Mieli ha qualche tic ricorrente e usa più volte, quando s'imbatte in una buona lettura, l'espressione "un gran bel libro". Mi permetto di prenderla a prestito per descrivere il suo.

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