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LA LOTTA CONTRO IL BRIGANTAGGIO

da: da: http://www.carabinieri.it

1. Premessa

2. La guerriglia del Mezzogiorno

3. Erano gli eroi dei cafoni

4. Come vivevano i banditi

5. Come rimedio, il pugno di ferro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Premessa

Ben prima che scoppiasse la terza guerra d'indipendenza (1866) il giovane Regno d'Italia dovette affrontare un conflitto assai più sanguinoso, che richiese un tributo di caduti superiore a tutte le guerre d'indipendenza messe assieme, superato solo dall'immane carneficina della prima guerra mondiale. Sotto lo sbrigativo nome di brigantaggio è passata alla storia una tremenda guerra civile e sociale, condotta senza esclusione di colpi da ambo le parti e che creò una seria frattura fra il nord ed il sud dell'Italia. Molti dei problemi sopravvissuti nei cento anni seguenti costituiscono senza alcun dubbio l'eredità di quel conflitto che mise in luce i contrasti fra culture e regole sociali profondamente diverse e difficilmente armonizzabili fra di loro. L'ordine tradizionale del Piemonte governato dai Savoia o del Lombardo-Veneto amministrato dagli austriaci, era ben diverso da quello imposto dai Borboni nel Regno delle due Sicilie. Le popolazioni civili subirono in pieno la violenza ed il retaggio di odio di un conflitto (sanguinoso, duro, di difficile soluzione) che si può dividere in due fasi. La prima detta di brigantaggio (nel quale lievitano i motivi di malcontento di intere popolazioni) politico durò dal 1860 al 1863 circa, mentre la seconda in cui prevalse la componente criminale si protrasse fino al 1870. Naturalmente il trapasso fra le due fasi non fu così netto, ma in entrambi i casi le forze dell'ordine e una consistente aliquota dell'esercito unitario furono pesantemente impegnate. I carabinieri furono ancora una volta in prima fila.

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2. La guerriglia del Mezzogiorno

Subito dopo l'unità d'Italia, i carabinieri furono impegnati sul fronte interno, per sconfiggere il brigantaggio alimentato dal malcontento del Meridione. La fuga della corte di re Francesco II, detto re Franceschiello, da Gaeta a Roma fu un episodio di rilievo non marginale: provocò conseguenze e contraccolpi certamente superiori a quelli attribuitigli da una certa storiografia ufficiale. Lo Stato Pontificio cercò di saldare subito il conto con Torino, che aveva da poco strappato senza troppe cerimonie le Marche al dominio di Roma. Sotto la protezione del reazionario Pio IX e con la tacita compiacenza delle forze francesi che proteggevano il papato, il re spodestato e la sua energica consorte Maria Sofia furono messi in condizione di condurre una seria (e riuscita) campagna di arruolamento nel febbraio 1861, una volta caduta la piazzaforte di Gaeta. Torme di soldati congedati, avventurieri presero l'abitudine di radunarsi in piazza Montanara e davanti al palazzo Farnese, messo a disposizione della corte in esilio. I soldi non mancavano, l'episcopato meridionale disponeva di una consistente rete di comunicazioni ed una intensa azione di propaganda clandestina oltre confine produsse i suoi frutti. Nelle terre dell'ex-regno delle Due Sicilie cominciarono a circolare volantini e voci sinistre: si mormorava che l'Inghilterra fosse sul punto di inviare truppe a Napoli ed in Sicilia per restaurare i Borboni; si sussurrava che il papa avesse scomunicato re Vittorio Emanuele II; si dava per certo che la Francia e il papa fossero pronti ad appoggiare in tutti i modi Franceschiello per la ricostituzione dei vecchi principati italiani. Del resto la pratica di ricorrere a milizie irregolari per avviare una controrivoluzione era stata sperimentata con successo proprio dai Borboni nel 1799 e nel 1849 per soffocare i moti giacobini e liberali. Ma l'incendio non avrebbe potuto propagarsi senza una serie di gravi errori commessi un po' da tutti, compreso lo stesso Cavour. Già nell'ottobre 1860 Cavour aveva inviato il Farini per eliminare in un sol colpo sia l'esercito borbonico che quello garibaldino. La preoccupazione politica primaria era, in quel momento, quella di neutralizzare politicamente Giuseppe Garibaldi, che sperava di restare nell'Italia meridionale come viceré, e di unificare al più presto amministrativamente le due metà del regno. Gli occhi dei governi europei e degli investitori stranieri, la cui collaborazione era indispensabile per iniziare la costruzione di strade ferrate, erano appuntati sullo Stato appena formato: la maniera forte era dunque ritenuta necessaria, per non dire ineluttabile. O, almeno, questa era la convinzione generalizzata a Torino. La Camera consultiva, insediata a Napoli da Garibaldi, venne immediatamente sciolta, la stampa fu imbavagliata e un governo militare prese il potere. Leggi e sistemi amministrativi piemontesi vennero repentinamente (e bruscamente) applicati e nel giro di una notte Napoli e l'intero Meridione si ricredettero riguardo agli entusiasmi provocati dalla ventata garibaldina per scoprire di essere poco più di una terra di conquista. Intanto l'esercito delle camicie rosse veniva rispedito a casa e con esso venivano dispersi molti elementi favorevoli alla causa nazionale. Come se non bastasse, anche il disciolto esercito borbonico contribuiva ad accrescere la massa di sbandati, pronti a qualunque avventura. Almeno 10mila uomini erano riusciti a passare il confine pontificio e, dopo essere stati disarmati dalle truppe francesi a Terracina e rinviati oltre frontiera, costituivano una formidabile massa di manovra per gli agenti sobillatori borbonici...... Invano Cavour fu informato della gravità della situazione. Sir James Lacaita, un proprietario terriero delle Puglie, appuntava in termini di assoluto disastro le condizioni del Meridione nel dicembre 1860. Scriveva che: il partito favorevole all'annessione è in netta minoranza; i risultati del plebiscito sono ingannevoli perché dovuti all'odio per i Borboni o all'intimidazione; Farini è responsabile di un malgoverno che danneggia e ridicolizza la causa italiana. Un altro liberale napoletano, il Fortunato, avvisava che il desiderio di unità manifestato dalla classe media locale era poco sentito e che il risorgimento era frutto più di una felice combinazione politico-diplomatica a livello europeo che di un genuino sentimento popolare. Le mene controrivoluzionarie borboniche e la rigidità piemontese si trovarono infine a incidere su una situazione sociale disastrosa. Le campagne meridionali conservavano ancora notevoli residui di feudalesimo. Il latifondo, la cui estensione media era di mille ettari (con punte fino ai seimila), vedeva le famiglie contadine coltivare piccoli appezzamenti per la sussistenza e per il versamento di un canone in natura o in denaro a un proprietario del tutto assente. Il latifondista, spesso rappresentato sul posto da un fiduciario, si limitava a godere della rendita senza reinvestire una lira. Una piccola e media borghesia terriera costituiva la cerniera tra i latifondisti ed i contadini, le cui condizioni di vita identiche a quelle di certe popolazioni attuali del terzo mondo. La mezzadria (nella quale il proprietario partecipava al rischio e all'investimento in cambio di metà del raccolto) era un sistema più moderno ma scarsamente diffuso e offriva comunque una redditività molto inferiore a quella di una azienda agricola capitalista, inserita direttamente sul mercato. Torino stentò a liberarsi dei propri pregiudizi sul Meridione anche se arrivarono molti segnali precisi e documentati, come per esempio la relazione Massari letta al Parlamento in seduta segreta nel 1863. E’ istruttivo seguirne qualche passo. "Dove il sistema delle mezzadrie è in vigore, il numero dei proletari di campagna è scarso; ma là dove si pratica la grande coltivazione sia nell'interesse del proprietario, sia in quello del fittavolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso Grande coltura: nessun colono; e molta gente che non sa come lucrarsi la vita ( ... ) La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare non inferisce certo dal paragone conseguenze propizie all'ordine sociale ( ... ) Il brigantaggio diventa in tal modo la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie. [Tra i mali lasciati in eredità dai Borboni] sono l'ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia. ( ... ) L'amministrazione che non procede, le leggi antiche distrutte ma non le usanze antiche, né rimosse dagli uffici le persone che quelle usanze praticavano, le leggi nuove o male eseguite o non eseguite affatto, il numero degli impiegati accresciuto, e gli affari disbrigati ciò non ostante con maggiori ritardi: da tutte queste cose ne consegue una prostrazione di spiriti, un languore di cui i tristi studiano continuamente di trar profitto". Partendo da questa analisi, corretta quanto impietosa, non è davvero difficile capire come e perché sia risorta la guerriglia sanfedista e contadina. All'analisi la relazione Massari faceva seguire una serie di proposte molto sensate: istruzione pubblica, sistemazione della questione agraria, riforma carceraria, applicazione celere e certa della giustizia, rinsaldamento del prestigio della carriera nella polizia. I rimedi indicati erano tutti ragionevoli, e sicuramente avrebbero dato i frutti che meritavano, se tutto questo meccanismo non si fosse messo in moto con eccessivo ritardo: il gioco al massacro era, di fatto, già cominciato da tre anni.

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3. Erano gli eroi dei cafoni

Negli anni Sessanta del secolo scorso la fotografia, ancora impacciata dall'ingombrante attrezzatura necessaria per realizzare i dagherrotipi, cominciava a fornire le prime testimonianze su questa guerra intestina e sanguinosa. Accanto alle popolarissime litografie che ancora illustrano gli avvenimenti nella loro immediatezza, ci sono le foto di generali e capitani carichi di medaglie, di briganti catturati o fotografati con gusto macabro armati di tutto punto e in piedi (anche se già ammazzati) oppure di compagne di briganti nei loro costumi tradizionali accanto all'inseparabile archibugio. Non cercate un sorriso su quei ritratti, spesso ritagliati su una vita dura e disperata. Chi sono i cavalieri di questa tragica rivolta? Nella Terra di Salerno detta legge '"o’ Chiavone", al secolo il guardaboschi Luigi Alonzi. Nel Casertano vi sono Fuoco, Cimino e Filone, mentre nel vicino Beneventano sono tristemente noti i fratelli Giona, i fratelli La Gala, il Di Paolo e Michele Caruso. Tamburini, Giorgi e "Cannone" (Valerio) hanno largo seguito negli Abruzzi. In Basilicata comandano "Crocco", alias Carmine Donatelli, "Ninco Nanco" (Giuseppe Summa), Schiavone e Nardi. Nelle Puglie spargono terrore il "Sergente Romano" e "o’ Pizzichicchio" (Cosimo Mazzeo), mentre in Calabria dominavano il Corea e il Mittica. Pochissimi moriranno di vecchiaia in esilio o in qualche tugurio isolato. Gli altri finiranno all'ergastolo, fucilati o con la testa mozzata vicino a qualche villaggio, per dare l'esempio. Storie esemplari di violenza, di ribellione, ma anche di miseria e di emarginazione sociale. Un tipico esempio della fase politica del brigantaggio è rappresentato dalla figura di José Borjs. Ufficiale catalano con una vasta esperienza nei torbidi della guerra carlista, si mette al servizio di Francesco Il per guidare le bande di insorti. Nel settembre 1861 si infiltra via mare a Brancaleone in Calabria, ma i primi contatti con i briganti dell'Aspromonte sono infruttuosi e deludenti. Dopo una faticosa traversata della Sila, Borjs ha la fortuna (o la sfortuna, dipende dai punti di vista) di incontrare in Basilicata il famoso brigante Crocco, che ne subisce il fascino. Borjs e Crocco diventano inseparabili in una lunga scorreria che ha probabilmente come obbiettivo ultimo la conquista della città chiave di Potenza. I dispersi reparti italiani vengono sconfitti inesorabilmente dalla massa d'urto di circa 1200 uomini. Ma come spesso accade nella guerriglia, quando un reparto irregolare diventa troppo grosso rischia di diventare un facile bersaglio per le forze regolari governative. La logistica, e quindi i movimenti, si appesantiscono, diventa sempre più difficile conservare il segreto sui propri spostamenti, E, nello scontro aperto, gli irregolari sono fatalmente destinati a soccombere. E’ quel che accade alla banda di Borjs e Crocco affrontata in campo aperto dai reparti di fanteria e carabinieri e fatta letteralmente a pezzi. Borjs, completamente demoralizzato, tenta una incredibile ritirata verso il 'santuario' dello Stato pontificio, sta quasi per farcela, ma non ha fatto i conti con il servizio informazioni che i carabinieri stanno gradualmente mettendo in piedi nei territori appena annessi. Una pattuglia dei bersaglieri, allertata dalla Benemerita, intercetta Borjs nel villaggio di Scurgola. La carriera dello specialista di sovversione e guerriglia catalano viene troncata l'8 dicembre 1861: Borjs viene fucilato. Crocco, invece, scampato fortunosamente alla distruzione della sua banda, continua ad operare con successo fino al 1864, fino a quando non si rende conto che l'epopea è finita e decide saggiamente di ritirarsi a Roma. Purtroppo per lui, nel 1870 gli capita qualcosa di simile al destino dei terroristi tedeschi della RAF (Rete Armee Fraktion, Frazione dell'Armata Rossa) rifugiatisi nella Germania dell'Est. Roma viene finalmente conquistata e la giustizia di uno Stato moderno, magari lenta ma di memoria lunghissima, riesce a catturarlo dopo due anni di latitanza. Il suo ergastolo tuttavia, unito alla pazienza del capitano Eugenio Massa che funge da intervistatore e scrittore, ci lascia un'autobiografia estremamente interessante sulla vita dei briganti. Ne riparleremo più avanti....... Ma come funzionano la guerriglia e la controguerriglia? Spogliate dei loro atti di coraggio e valore, che pure ci sono, si tratta essenzialmente di un'interminabile mordi e fuggi da parte degli irregolari, conoscitori dei posti e spesso aiutati dalla gente del luogo. Per i governativi è una non meno logorante sequela di pattugliamenti, imboscate tese e subite, marce, improvvisi scontri a fuoco. Niente bandiere al vento e rulli di tamburi, pochissimi cannoni e molti stivali consumati: solo uno sporco lavoro di fanteria, polizia e spie. Per la cavalleria ci sono tanti pattugliamenti e scorte, pochissime cariche. Togliete gli elicotteri, la giungla vietnamita, le comodità e la tecnologia della guerra moderna, lasciate paura, noia, disperata stanchezza e la tragica zuppa della guerra civile di guerriglia conosce poche varianti. Tra le componenti fisse e inevitabili in questo genere di conflitto figura nei primi posti la ferocia. Non è una contesa cavalleresca: un barlume di correttezza e moderazione sussiste agli inizi quando resistono i tabù culturali e gli uomini non hanno ancora annusato davvero il sangue. Superate queste resistenze iniziali, ci si scanna senza pietà; tutti lo sanno e fanno di tutto per evitare una prigionia atroce e di sicura breve durata. Le parole di un contemporaneo come Edmondo De Amicis offrono un quadro esauriente del fenomeno: "Era l'estate dell'anno 1861, quando la fama delle imprese brigantesche correva l'Europa; quei giorni memorabili in cui il Pietropaolo portava in tasca il mento di un 'liberale' con il pizzo alla napoleonica ( ... ), quando a Viesti si mangiavano le carni dei contadini renitenti agli ordini dei loro spogliatori; ( ... ) quando s'incendiavano messi, si atterravano case, si catturavan famiglie, s'impiccava, si scorticava e si squartava". Lo sanno bene cosa aspetta i prigionieri quei sei carabinieri usciti di servizio il 6 maggio 1862. Tutto comincia con una normale segnalazione del sindaco di Monteleone che avverte la presenza in zona di una nutrita masnada di banditi. Il brigadiere Michele Pomero parte con altri cinque carabinieri e nove guardie nazionali. Il binomio carabinieri-guardie nazionali è molto frequente per il semplice fatto che erano indispensabili elementi di éIite come spina dorsale per una truppa ancora scarsamente esperta ed amalgamata. Arrivati alla collina del Carmine, si fa una sosta e vengono inviati in perlustrazione alcuni esploratori, in base a una elementare (e molto opportuna) regola di prudenza: nelle immediate vicinanze di una cappella vengono scoperti quattro briganti a cavallo che scaricano addosso ai governativi i loro archibugi. Dal nulla sbucano altri quaranta cavalieri che si lanciano sul gruppetto dei quindici. Sarebbe ancora possibile imbastire una difesa contro forze poco più che doppie. Ma tra le guardie nazionali dopo un po' si diffonde il maledetto grido "Si salvi chi può!" e tutti si ritirano alla spicciolata. Il nome "guardia nazionale" è altisonante e ricorda le glorie della Rivoluzione Francese, ma per molti anni al sud i reparti della guardia nazionale si rivelano poco affidabili. Intanto i carabinieri restano nei guai a fronteggiare i loro assalitori, in un rapporto di uno a sei. Cercano disperatamente una posizione protetta, ma gli altri sono troppi. Per fortuna un loro collega, rimasto indisposto in caserma, intuisce dalle fucilate che la situazione è seria. Il carabiniere Angelo Chiesa, si arma in tutta fretta e corre dal capitano della guardia nazionale. "Mi spiace, le guardie sono senza munizioni", forse anche senza coraggio. Chiesa prova a chiedere a cinque civili di seguirlo con i loro fucili. Ma la buona volontà dura lo spazio di pochi spari sentiti da lontano. Lasciati i borghesi rintanati in casa, il carabiniere si precipita da solo, giusto in tempo per vedere un commilitone, assediato da tre briganti, ucciso da una fucilata. Chiesa ferisce a sua volta un brigante e avanza per aiutare gli altri, colleghi. Fortunatamente i briganti, temendo l'arrivo di forze superiori decidono per prudenza di rompere il contatto. I quattro sopravvissuti allo scontro più il soccorritore rientrano con due cadaveri, uno crivellato di palle, l'altro atrocemente mutilato. Sette medaglie d'argento al valor militare. Pochi giorni dopo (17 maggio) ad Ariano Irpino si ripete lo stesso cedimento della guardia nazionale e di nuovo sei carabinieri restano isolati. Uno di loro, Mansueto De Rocchi, piuttosto che lasciarsi massacrare, sfida il fuoco dei briganti per allertare altre forze. Due nemici gli sono addosso, ma lui si divincola e riesce a tornare con i rinforzi. Tre medaglie d'argento per i militi costituiscono, il bilancio dell'eroica operazione. Quando la situazione è assolutamente disperata e non è neppure lecito sperare nell'arrivo di rinforzi, si ricorre alle misure estreme pur di vivere e non morire malamente. In un gelido 10 dicembre 1863, la banda Germano, forte di 23 cavalieri, sorprende cinque militi e il loro brigadiere Giacomo Reinino mentre scortano in una zona della Basilicata due agrimensori. I due civili riescono a sganciarsi per cercare aiuto, ma lo scontro si protrae per oltre un'ora e le munizioni scarseggiano. Reinino si rende conto che la situazione non ha vie d'uscita a meno di non prendere di sorpresa gli assalitori e ordina ai suoi uomini di caricare alla baionetta. La sorpresa per i briganti è tale che tentano di rifugiarsi su un'altura, da cui vengono cacciati a viva forza. I militi riescono perfino a catturare due briganti...... Non tutti, però, se la cavano alla stessa maniera. La guerra contro i briganti ha le sue vittime, un lungo elenco. Eustachio Barra e Giuseppe Russo stanno rientrando (1 settembre 1862) alla loro stazione dopo aver tradotto in carcere quattro detenuti. Al castello di Lagopesole una scorta non è disponibile e i due carabinieri decidono di farne a meno. Sfortunatamente nei pressi di Atella vengono accerchiati all'improvviso dai quindici briganti guidati dal tristemente noto capobanda Coppa, che semina il terrore in Campania. In un attimo vengono catturati e spogliati non solo delle armi, ma anche degli effetti personali, anelli ed orologi inclusi. "Allora, che fate, entrate nella mia banda?", chiede con mediterraneo sarcasmo il Coppa. "NO", rispondono i due senza esitazioni. Quattro banditi fanno fuoco a bruciapelo: Russo muore sul colpo, Barra si becca qualche palla e si finge morto. Un rapido scalpitio ed i briganti spariscono nel bosco. Poco dopo alcuni bersaglieri, sentite le fucilate soccorrono il ferito. Due medaglie d'argento sono la ricompensa per una fedeltà a tutta prova. La stessa dimostrata dal milite Giovanni Martano nelle desolate lande abruzzesi presso Lanciano. Sotto un caldo che spacca le pietre (7 agosto 1862) sta tornando da una perlustrazione di routine con il vicebrigadiere Giacomo Bassano. Ad un tratto compaiono ben 25 banditi: dopo una tenace difesa le munizioni finiscono. Bassano si butta in un burrone e ce la fa a salvare l'osso del collo. Martano si difende come una belva anche nel corpo a corpo, ma alla fine viene legato a un albero. Il capobanda gli impone di rinnegare re Vittorio Emanuele Il e di gridare "Viva Francesco II!". Altri al posto di Martano avrebbero gridato qualunque cosa pur di salvare la vita, magari convincendosi che è più utile un soldato vivo per un'altra battaglia, che un eroe morto. Tutti ormai conoscono i racconti terribili di ossa spaccate, occhi estratti dalle orbite e sevizie in tutto il corpo (quelli stessi riportati da De Amicis nel racconto "Fortezza"). Eppure in quei momenti terribili possono verificarsi, e si verificano, strane reazioni: lo spirito di corpo, l'impulso a non concedere una preziosa vittoria psicologica al nemico, il senso dell'onore ed anche l'orgoglio personale fanno venir fuori parole come "No, ho giurato, piuttosto ammazzatemi". Le suppliche di una anziana donna che ha assistito alla scena da una masseria vicina incrinano la brutalità del capobanda, che in uno sprazzo di umanità, lascia libero il prigioniero. Martano riceverà la medaglia d'argento. Cinque giorni prima della tremenda avventura del milite Martano, i Carabinieri Reali hanno condotto a termine con successo una operazione antisequestro. A qualche chilometro dal paesino di Capaccio in provincia di Salerno un oste è stato sorpreso nella sua bottega da una ventina di briganti (2 agosto 1862). Le facce tinte di carbone, brandendo falci e fucili, i banditi compiono una razzia completa: 600 lire e tutti i viveri costituiscono il ricco bottino dell'incursione. Il capobanda non é comunque appagato e ordina all'oste, Antonio Grippa, ed al suo cameriere di seguirli. I due sventurati vengono trascinati dalla masnada in un folto bosco e l'oste viene legato ad un albero. "Tu adesso torni indietro e dici alla famiglia dell'oste che devono sganciare 600 scudi. Hai cinque ore per sbrigarti, altrimenti lo ammazziamo", dice il capobrigante al servo. Il servo torna all'osteria dove, con sua grande sorpresa, trova due carabinieri ed alcune guardie nazionali. Li ha mandati il brigadiere Zuccarelli, responsabile della stazione di Capaccio. Molto probabilmente comincia a funzionare il reclutamento dei confidenti che offrono ai tutori dell'ordine le soffiate giuste. Lo stratagemma studiato per liberare l'oste è quello classico di sempre: fingere di aderire alla richiesta di riscatto e sorprendere i criminali. Tremante di paura, nella destra una lampada come segno di riconoscimento e nella sinistra una borsa di scudi sonanti, il servo avanza nella boscaglia. Dietro di lui scivolano silenziosamente le forze dell'ordine. Tutto accade all'improvviso. Il servo sviene dalla paura, dal buio gli piombano addosso alcuni briganti, quattro lunghi lampi lacerano l'oscurità, il Grippa grida aiuto a gran voce. I briganti si danno velocemente alla fuga e non hanno nemmeno il tempo di ammazzare l'ostaggio. Uno di loro tenta di resistere al carabiniere Antonio Dagna, vibrandogli una coltellata e rimediando una revolverata a bruciapelo in cambio. Dagna ed il suo collega Cesare Durazzo saranno decorati con una medaglia d'argento al valor militare.

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4. Come vivevano i banditi

Eroi per qualche anno, belve umane al momento della fucilazione, come vivevano i briganti? L'autobiografia del brigante ergastolano Carmine Crocco fornisce qualche risposta. L'aspirina non era stata ancora inventata, ma la patata era considerata un vero e proprio toccasana. I tuberi pestati fornivano un unguento latteo capace di coagulare e disinfettare le ferite di arma da fuoco, riducendo la tumefazione della carne. L'erba detta pelosella, oppure la cosiddetta stampa cavallo, era invece impiegata per le ferite da arma bianca mischiata con l'olio di oliva. Il servizio di sicurezza degli accampamenti era molto accurato: vedette, magari rinforzate su alture dominanti da sentinelle con i mastini, controllavano a giro d'orizzonte le vie d'accesso. Spie venivano incaricate di seguire le truppe regolari in modo da informare i briganti di ogni spostamento. Il fuoco per il rancio veniva acceso in modo che il fumo non tradisse la posizione. I viveri venivano requisiti ai possidenti reazionari e liberali con le buone o con le cattive. Erano gli stessi signori che aiutavano (attivamente o con il silenzio) i banditi. Crocco, in tanti anni di brigantaggio, dormì poche volte all'addiaccio e moltissime nelle case di persone insospettabili, che non lo tradirono mai. Un ulteriore aiuto veniva dallo spionaggio, che Crocco descriveva cosi: 'I nostri confidenti erano contemporaneamente informatori del governo e stipendiati quindi dallo Stato, di modo che eravamo quasi sempre informati delle mosse della truppa; e più di una volta, per fare acquistare merito ai confidenti (contemporaneamente nostri e del governo) mandammo noi stessi informazioni esattissime ai Comandi di zona, sul luogo del nostro bivacco. E quando la truppa giungeva sul luogo per darci la caccia, noi, che avevamo avuto tempo per misurarne la forza, l'attaccavamo oppure la fuggivamo a tempo, secondo la convenienza. Non pochi confidenti facevano pare della Guardia Nazionale e per mezzo loro si ebbero talvolta informazioni precise sul luogo dove erano depositate le armi, sul punto in cui stazionavano normalmente le pattuglie notturne, di modo che avanzavamo spesso a colpo sicuro". Morale: se non vuoi far sapere al nemico, evita con cura di far sapere all'amico Il motivo di tante complicità è spiegato da Crocco con grande naturalezza. Prima del 1861 molti uomini della sua banda erano uomini che non avevano voluto subire le angherie di potenti Don Rodrigo locali, magari compromettendo l'onore di mogli e figlie. Dopo l'arrivo dei piemontesi i cosiddetti controreazionari, protetti dalla legge dei nuovi padroni, ne avevano approfittato per regolare conti personali, commettendo delitti e infamie che potevano essere paragonati a quelli dei briganti. La legge Pica e la spocchia sprezzante dei piemontesi che facevano di ogni erba un fascio con la gente del posto, avevano fatto il resto fornendo nuove reclute........ Finora abbiamo raccontato di bande e banditi ordinari, ma non tutti erano così. Alcuni erano diventati autentiche celebrità, amati e temuti, circondati da un alone di leggenda e largamente protetti dalla popolazione locale. A questa categoria apparteneva Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio, signore e padrone di una vasta zona del barese. Con Francesco Maniglia e Tito Trinchera (e con un seguito di una cinquantina di gregari), Pizzichicchio aveva costituito una banda adorata dai contadini e temuta dai possidenti. Pizzichicchio era considerato un raddrizzatore di torti, un bandito paterno verso gli oppressi e gli sfruttati. La sue rete di spie gli aveva permesso più volte di sfuggire alla cattura, numerosi possidenti gli pagavano le tangenti per garantirsi il quieto vivere e di fatto l'autorità dello Stato veniva annullata dal suo contropotere. Appena cinquanta banditi coraggiosi, feroci e determinati tenevano in scacco la legge e l'ordine. Le cose si misero male per Pizzichicchio quando, nel 1863, arrivò a Bari il generale Stefanelli, uomo di eccezionale energia, ben deciso a porre fine a quello scempio. Stefanelli sapeva perfettamente che, per raggiungere l'obiettivo, occorreva evitare le grandi operazioni i cui preparativi diventavano presto un segreto di Pulcinella. Quel che serviva era un uomo in gamba a capo di un centinaio di soldati esperti e molto mobili. Trovò l'uomo giusto in un gagliardo capitano dei Carabinieri Reali, Francesco Allisio, al quale dette carta bianca. Allisio formò una colonna mobile forte di 29 carabinieri a piedi, 19 a cavallo, 31 cavalleggeri del reggimento Saluzzo e 14 guardie nazionali. Scelse in maggioranza uomini appartenenti ad unità di punta: solo il 15 per cento era costituito da elementi della guardia nazionale. L'11 giugno la colonna mobile di Allisio riuscì ad avvistare la banda di Pizzichicchio, che si diresse verso il bosco di Arneo. Allisio non mollò la presa: un telegramma del delegato di PS di Francavilla. gli confermò la presenza del bandito. Per Pizzichicchio le cose si mettevano decisamente al peggio, il morale dei suoi era molto basso e undici briganti disertarono nella notte. La colonna mobile aveva lanciato la sua rete di esploratori in tutta la zona. Di ora in ora arrivavano nuovi rapporti ad Allisio che era perfettamente al corrente dei movimenti del suo avversario. Il rifugio nel bosco di Arneo era una manovra diversiva, l’"orda" (come venne chiamata nel rapporto) stava tornando sui suoi passi verso le familiari alture di Morite S. Angelo. Allisio individuò la zona in cui far scattare la trappola, scegliendo il terreno più favorevole allo scontro ed attuando una tipica manovra di controguerriglia. L'elemento di fanteria continuò ad avanzare per mantenere sotto pressione la banda. La colonna di guardie nazionali e carabinieri era guidata da Nicola Perrone, una vecchia volpe della guardia nazionale. La cavalleria venne invece divisa in due altre colonne che si aprirono a tenaglia per chiudere ogni via di scampo. Nei pressi della masseria Belmonte la colonna di fanteria agganciò i briganti, ma Perrone non si lanciò all'assalto: il suo compito era di tenerli impegnati finché non fossero arrivati i rinforzi. Allora non c'erano le radio ed era il crepitio dei fucili a guidare le truppe. Dopo oltre mezz'ora di sparatoria, si videro le due colonne di cavalleria convergere fulmineamente sui briganti. "Sacramento! Sciabl’ mano, caricat' ", la tonante voce di Allisio impartiva ordini secchi ai suoi. In pochi minuti fu un inferno. I briganti fuggivano come lepri, i cavalieri li sciabolavano volteggiando tra gli ostacoli, i fanti si lanciavano nel rastrellamento. Su 37 briganti soltanto 11 furono feriti e catturati vivi, mentre soltanto un cavalleggero riportò una ferita di una qualche entità. Ai cadaveri degli uccisi esposti in pubblico, si aggiunsero quelli dei prigionieri, passati per le armi senza misericordia. Qualche tempo dopo arrivarono le medaglie: croce di cavaliere dell'ordine militare di Savoia per Allisio, sei medaglie d'argento al valore, 60 menzioni onorevoli. La testa di Pizzichicchio le valeva tutte.

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5. Come rimedio, il pugno di ferro

Avigliano aveva visto nascere tra la miseria e la disperazione di una famiglia di malviventi il piccolo Giuseppe Summa, che aveva presto seguito con profitto le orme dei genitori: l'amnistia del 1860 lo aveva salvato dalla fucilazione per omicidio. I torbidi seguiti all'annessione del regno delle Due Sicilie lo videro presto a capo di una banda di disperati, che aveva il suo santuario nel bosco d Lagopesole. Conosciuto ormai come Ninco-Nanco, il giovane spadroneggiava nella Lucania e, inalberando la bandiera del legittimismo borbonico, s’era creato dal 1861 un'immagine pittoresca di indomito generale di guerriglieri. Il suo petto era adorno di medaglie e firmava i suoi messaggi come "Generale delle Truppe Francescane". Le memoria storica lo descrive come una belva umana avida ignorante, ambiziosa, ma Ninco-Nanco doveva avere, oltre alla furbizia, altre doti: sapeva scegliersi amici giusti e al di sopra di ogni sospetto Gli stessi amici che negli anni passati avevano discretamente proposto alle autorità civili e militari di arrivare a un qualche modus vivendi e gli stessi che, probabilmente, lo tradirono al momento opportuno. Fortunatamente l'ipotesi di un vergognoso compromesso all'italiana venne seccamente stroncata dall'approvazione della cosiddetta legge Pica (1863). Nel Parlamento di Torino l'esasperazione contro il fenomeno della guerriglia contadina era giunta a un livello tale che l'orientamento politico fu favorevole al pugno di ferro, nonostante si comprendesse che solo rimedi a lungo termine potessero risolvere il problema. Il dibattito sulla legge fu brevissimo perché le vacanze estive erano vicine. La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell'applicazione dello stato d'assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi. Dopo l'approvazione della legge la forza del contingente di pacificazione toccò un picco di 120mila unità per poi scendere negli anni successivi a 90mila uomini prima e poi a 50mila: quasi la metà dell'esercito unitario. Quasi tutte le armi (carabinieri, fanteria, cavalleria, artiglieria) parteciparono al sanguinoso conflitto insieme alla guardia nazionale. La guerra al brigantaggio fu durissima come testimonia il bilancio delle ricompense al valore: 4 medaglie d'oro al valor militare, 6 croci dell'ordine militare di Savoia, 2.375 medaglie d'argento e 5.012 menzioni onorevoli. I territori dove il brigantaggio era maggiormente diffuso furono divisi in tre zone: Caserta, Gaeta, Avellino. Ognuna di esse fu frazionata in sottozone, in cui vennero creati distaccamenti e colonne mobili. Su una forza complessiva nel 1861 di 18.461 carabinieri, un totale di 6.887 (il 37,3 per cento) furono dislocati nel meridione, Sicilia inclusa. Il loro ruolo fu preminente: ebbero una medaglia d'oro, 4 croci dell'ordine militare di Savoia, 531 medaglie d'argento e 748 menzioni onorevoli. ......... Gli echi di questa legge erano ovviamente arrivati anche nella lontana Basilicata, ma Ninco-Nanco non se ne curava troppo. Il 2 febbraio 1864 la sua banda trucidò alcuni bersaglieri, fanti leggeri scelti in prima linea nella lotta. al brigantaggio. Cinque giorni dopo, a capo di 25 dei suoi a cavallo, Ninco-Nanco sorprese quattro carabinieri ed un vicebrigadiere di ritorno alla stazione di Acerenza dopo una perlustrazione e intimò loro di arrendersi. I carabinieri non si arresero: per tre ore nella contrada di Ralle (comune di Genzano) infuriò il combattimento, in cui rimasero uccisi tre carabinieri. Gli altri due scamparono alla morte per un pelo, grazie all'arrivo di guardie nazionali condotte dal sindaco di Genzano. I briganti si ritirarono lasciando sul terreno un solo ferito'. Apparentemente si trattò di un episodio di guerriglia come tanti altri, ma suscitò un'ondata di sdegno e rabbia tra i possidenti locali e tra i militari di stanza. "La memoria degli estinti durerà fin che il mondo dura, ed una aureola di gloria circonderà le loro tombe ( ... ). E’ un grido di vendetta quello che prorompe dal petto esanime dei vostri commilitoni. Raccogliete l'appello, vendicateli e siate inesorabili come il destino!". Questo fu l'ordine del giorno diffuso dal luogotenente generale delle truppe di Basilicata. Poco dopo la macchina della propaganda governativa si mise in moto. Vale la pena di leggere il proclama del prefetto della Basilicata, Veglio, affisso per tutte le strade l'11 febbraio: "Lucani! Nel giorno 7 Febbraio corrente cinque Reali Carabinieri della stazione di Acerenza furono presso Genzano sorpresi dalla banda di Ninco-Nanco forte di venticinque assassini. Essi circondati, assaliti si difesero per tre ore. Tre caddero estinti, ma nessuno si arrese, perché i soldati Italiani combattono sempre, non si arrendono mai. Ai colpi dei due Carabinieri superstiti mortalmente ferito rimase un brigante: essi due soli tennero testa finché sopravvenne il Sindaco di Genzano guidando la brava sua Guardia Nazionale. I briganti si volsero allora in fuga perché i vili non sanno uccidere se non col tradimento e l'insidia. Lucani! Due Carabinieri Reali bastarono a tenere in rispetto l'intera banda di Ninco-Nanco. Che ne sarebbe dei briganti se tutte le Guardie Nazionali si levassero in massa, unite e compatte in un solo desiderio di distruggere questi assassini che disonorano la terra italiana, che uccidono i nostri figli, che contaminano quanto vi ha di più sacro all'onore di un cittadino? Si levi quest'onta che da tre anni pesa sulla nostra Provincia: si mostri che il tempo di questi assassini è finito. Chi ha cuore ed onore risponderà alla mia voce e la Storia dirà: 'Le Guardie Nazionali di Basilicata mostrarono ancora una volta che impunemente non si assassina nel loro territorio: esse non vollero più i briganti e li hanno distrutti'. Si imiti l'esempio del Sindaco di Genzano: è alla testa dei suoi militi che ogni Sindaco ha il suo posto". E chiaro che le guardie nazionali erano ancora una spina nel fianco per la maglia di controlli sul territorio e i sindaci erano un altro anello debole della catena. Dalla lettura di questo documento si ricava l'impressione che il sindaco di Genzano fosse un'eccezione. L'appello alla vendetta venne concretamente raccolto dai carabinieri della stazione di Avigliano. Il 13 marzo si verificò finalmente un colpo di fortuna. Una pattuglia di carabinieri (maresciallo Francesco Rebola, carabinieri Tobia Segoni, Giuseppe Grimoldi, Gaetano Salandi), che era accompagnata da un drappello di volontari, si imbatte in un gruppo di 15 individui, metà dei quali a cavallo, che si dirigevano verso una pagliaia. Secondo il rapporto dei carabinieri era difficile distinguere a distanza se fossero briganti o guardie nazionali. Si decise comunque di dare l'assalto, ma dopo un miglio e mezzo di corsa a rompicollo si scoprì che erano guardie nazionali e che avevano circondato la pagliaia. Con mezzi spicciativi il padrone della pagliaia, Giovanni Lorusso, fu costretto a parlare. Confessò che lì si nascondeva il brigante Nicola Lorusso, detto Carciuso, e con lui il famigerato Ninco-Nanco. Restava da spiegare come mai le guardie nazionali, tradizionalmente di basso livello, fossero arrivate in modo così tempestivo alla pagliaia e che fine avesse fatto la banda di Ninco-Nanco. I carabinieri intimarono la resa, ma dall'interno non giunse alcuna risposta. Fu allora appiccato il fuoco alla pagliaia ripetendo l'invito alla resa. Due guardie nazionali ed il carabiniere Segoni si predisposero per controllare le vie d'uscita. Il primo ad arrendersi fu Carciuso, seguito da Ninco-Nanco, immediatamente afferrato dai tre soldati. Ma a quel punto si verificò quel che forse nessuno poteva immaginare. Il bandito negò di essere Ninco-Nanco e una guardia nazionale, Nicola Coviello Summa, gli sparò a bruciapelo, uccidendolo. Nel trambusto fu ammazzato anche il brigante Mangiullo. Perché? Perché le cronache posteriori riferiscono di colluttazioni mai avvenute tra il carabiniere ed il brigante? Perché non furono attribuite decorazioni per un'impresa indubbiamente importante? Finora i documenti tacciono, ma non è peregrina l'ipotesi che quel colpo di fucile non fosse così "inopportuno", come lo definì la circolare periodica dei Carabinieri del primo trimestre 1864. Probabilmente si temeva che Ninco-Nanco rivelasse imbarazzanti ed inconfessabili complicità con le autorità locali e con la stessa guardia nazionale, che forse avevano svolto un ruolo non secondario nel garantirgli l'immunità. Meglio non suscitare inopportuni scandali, meglio mettere tutto a tacere, secondo un sistema molte volte adottato anche in seguito. Il brigantaggio anche dopo il 1863-64, quando la fase politicizzata del fenomeno cominciò ad affievolirsi perché il Vaticano non appoggiava più incondizionatamente le operazioni di destabilizzazione dell'Italia, rimase un capitolo aperto ancora per un buon lustro.

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