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Spezzano Albanese: briganti ed episodi di brigantaggio dopo l’Unità d’Italia

di: Francesco Marchianò

Durante il decennio napoleonico (1806-1815) ed i momenti più cruciali del periodo risorgimentale (soprattutto nel 1848 e 1860) Spezzano Albanese (Cs), era un centro di attività cospirative e di diffusione delle idee unitarie ed in cui convergevano le forze antiborboniche durante le rivolte armate (1).

Ciò era dovuto sia alla sua posizione strategica, che dominava le valli del Crati e del Coscile, sia perché il paese era situato a metà strada fra Cosenza e Castrovillari, quindi attraversato dalla Strada Consolare delle Calabrie, vitale arteria di comunicazione e di spostamento di truppe (2).

Da qui transitarono le truppe borboniche incalzate da quelle francesi nel 1806, truppe austriache che dovevano sedare i moti del 1820 1821, inoltre si scontrarono bande di rivoluzionari con le truppe borboniche nel 1848, ed infine nel 1860 transitarono le truppe borboniche in ritirata e Garibaldi con i suoi Mille (3).

Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, in tutto il Meridione si accesero focolai di malcontento contro il nuovo governo piemontese e contro i liberali locali ("galantuomini") accusati di non aver risolto i problemi del demanio pubblico, usurpato ancora una volta dai latifondisti passati al nuovo regime. Inoltre le popolazioni erano deluse dal governo centrale per l’aumentato della pressione fiscale e, soprattutto, per non aver sostenuto le piccole industrie, soprattutto della filatura che garantivano un minimo sostentamento a migliaia di famiglie (4).

A questi problemi si aggiunsero il mancato reintegro di ufficiali e sottufficiali garibaldini nell’esercito regolare italiano, poiché erano visti come elementi socialmente e politicamente pericolosi, e l’imposizione della leva obbligatoria (5).

Queste misure, che opprimevano le già misere plebi, definite spregiativamente cafoni, ebbero come effetto lo scoppio di rivolte e disordini antipiemontesi in quasi tutto il Meridione, soprattutto in Basilicata e nel Cosentino, che spesso sfociavano in massacri di galantuomini, di liberali e Guardie Nazionali (6).

I primi mesi del 1861 anche nel mandamento di Spezzano Albanese si verificarono disordini spesso fomentati da elementi reazionari filoborbonici, come a Tarsia e S. Lorenzo del Vallo, mentre in Spezzano Albanese essi erano dovuti all’usurpazione dei terreni demaniali da parte dei latifondisti e dei soliti profittatori passati alla corona sabauda (7).

Di questa situazione di malcontento generale ne approfittarono i Borboni, assediati nella fortezza di Gaeta, che inviarono loro emissari, generalmente ex-ufficiali del disciolto esercito napoletano, per sobillare, finanziare e dirigere le popolazioni in rivolta (8).

Così, nel 1861 tutto il Sud Italia fu infestato da bande di briganti, più o meno legate al legittimismo borbonico, che oltre ad eliminare i cosiddetti galantuomini fedeli al governo sabaudo, a dare l’assalto a reparti militari, o ad occupare interi paesi, sfuggendo poi di mano ai loro capi militari filo-borbonici, cominciarono a terrorizzare anche le inermi popolazioni con azioni di rapina e di violenza (9).

Anche il territorio spezzanese fu interessato dal fenomeno del brigantaggio, data la sua equidistanza geografica con il Massiccio del Pollino e la boscosa Sila, entrambi luoghi di ricovero di numerose e famose bande di briganti (10).

Per arginare questo inquietante moto, che nuoceva all’immagine dell’Italia unita sia da punto di vista economico che politico, il governo piemontese inviò subito nel Meridione interi reggimenti di soldati con lo scopo di debellare, con tutti i mezzi leciti ed illeciti, il brigantaggio (11).

Vennero istituiti così tribunali militari, si inviarono reparti comandati da ufficiali non sempre rispettosi dei diritti umani, furono impiegati reparti di squadriglieri, corpi irregolari formati da ex Guardie Nazionali o Camicie Rosse, che davano la caccia ai briganti o ai loro fiancheggiatori e sostenitori, noti come manutengoli (12).

Nel momento più cruciale, il 1863, il Parlamento varò la legge Pica mirante a reprimere il brigantaggio ma che in realtà colpì indiscriminatamente la popolazione civile del Meridione assumendo i connotati di un vero e proprio genocidio Le povere masse di contadini e pastori calabresi venivano oppresse sia dai briganti, che esigevano vettovaglie ed indumenti, pena la morte, ma sopratutto dai militari che passavano subito per le armi coloro che venivano sospettati di favoreggiamento (13).

Nella vasta ed irrequieta provincia di Cosenza il governo piemontese inviò l’ispettore della Guardia Nazionale Pietro Fumel che si distinse per i suoi metodi sbrigativi, la sua astuzia e crudeltà, la cui fama, fino a poco tempo fa, era ricordata dagli anziani del paese (14).

Feroce precursore della famigerata legge Pica, nel febbraio-marzo 1862, da Cirò e Celico, il Fumel emanò due proclami in cui prometteva laute ricompense a chi collaborava le forze dell’ordine e parimenti avrebbe comminato pene severe, compresa la fucilazione, a chi aiutava i briganti (15).

In Spezzano Albanese, dal 1861 fino al 1870, capo della Guardia Nazionale era il Maggiore Vincenzo Luci (1826-1898), consigliere provinciale che vantava un passato di comandante rivoluzionario nel 1848, di carcerato nelle famigerate prigioni borboniche e di valoroso ufficiale delle Camicie Rosse nonché amico personale di Garibaldi. Inoltre nel paese era stabile un battaglione mobile di fanteria di linea ed operava un Tribunale Militare Straordinario, con sede nell’ex Ritiro del Carmine, che giudicava e condannava i briganti catturati nel Pollino e nella Sila Greca (16).

Nonostante una massiccia presenza di militari e Guardie Nazionali, le campagne spezzanesi non erano sicure a causa di alcune bande che dalle montagne del Pollino scendevano nei paesi pedemontani o collinari tendendo agguati a viaggiatori isolati o a postali che transitavano lungo la Consolare delle Calabrie (17).

In due di queste famigerate bande si distingueva spesso come capobanda Angelo Maria Cucci, denominato in arbëresh "Cucciariegli", ma tristemente noto anche come "lo spezzanese" (18).

Questi, nato nel 1819, fu accusato ingiustamente di un omicidio ma, riuscito forse ad evadere, si diede alla macchia, commettendo da solo, o assieme ad altri ribaldi, numerosi crimini che vanno dalla rapina, all’omicidio e allo stupro di povere contadine (19).

Già durante il regime borbonico il Cucci era noto alle forze dell’ordine poiché nel 1850 il suo nominativo compariva accanto ad una quarantina di briganti catturati dal Marchese Nunziante (20).

Non si sa se sia nuovamente evaso o sia stato liberato, poiché si trovò aggregato sia nella banda dei Saracinari, di Carlo De Napoli, sia nella banda del famigerato brigante lucano Antonio Franco, sostituendolo anche come capo, compiendo scorrerie nell’appennino calabro-lucano, nell’Alto Ionio casentino e nella Piana di Sibari (21).

Riuscito più volte a sfuggire agli agguati delle forze dell’ordine, fu ucciso con un colpo di scure, nell’ottobre 1863, in contrada Cammarata di Castrovillari mentre tentava di usare violenza ad una giovane donna (22).

In Spezzano Albanese e dintorni la vita non doveva essere tanto facile considerando che nel gennaio 1862 venne ucciso proditoriamente il giovane Costantino Credidio mentre faceva la guardia (23).

Un contributo sulla situazione della zona ce lo offre il noto sacerdote e polemista acrese D. Vincenzo Padula (1819-1893) attraverso le pagine del suo periodico "Il Bruzio".

Apprendiamo così che la Compagnia di Linea, di stanza nel nostro paese, si scontrava con i briganti della banda di Bellusci nella zona di Policastrello, che carabinieri e soldati di fanteria ingaggiavano un conflitto a fuoco nei pressi dell’attuale Scalo di Tarsia e che nel luglio 1865, l’astuto brigante Carmine Buonofiglio, condannato ai lavori forzati dal Tribunale militare straordianario di Spezzano Albanese, sfuggiva ai carabinieri che lo traducevano al carcere di Cosenza (24).

Chi non dava tregua ai briganti della zona era lo spietato maggiore Fumel che era venuto a conoscenza che in Spezzano Albanese un cantiniere, noto come Zu Simunu, nomignolo di Simone Molinari, era un manutengolo, cioè un informatore ed intermediario dei briganti (25).

Il Fumel convocò il Molinari, tramite il Maggiore Luci, a Saracena alla fine del marzo 1862 dove, sottoposto certamente ad un brutale interrogatorio, rivelò all’ufficiale tutta la rete di fiancheggiatori, tra cui comparivano anche notabili e proprietari terrieri del mandamento spezzanese, tutti coinvolti nel brutale rapimento di Caterina Mascaro (26).

Il 31 marzo il Fumel con un laconico messaggio comunicava al Luci che Simone Molinari sarebbe stato fucilato il giorno seguente nella Dirupata di Saracena per attività criminose (27).

A questo punto bisogna citare la triste vicenda del rapimento di Caterina Mascaro ("Rina e Mashkarit") che, dovendo recarsi a Cosenza a trovare il figlio malato, venne rapita a Finita dalla banda del già citato Giovanni Bellusci, di Mongrassano, preavvisato da manutengoli spezzanesi (28).

La povera donna venne condotta a piedi nelle falde del monte La Mula da dove i briganti chiesero il riscatto tramite gli intermediari spezzanesi che, però, intascavano il denaro inviato dal marito della rapita (29).

Questi, il proprietario terriero Vincenzo Bevacqua, pur di riavere indietro la consorte mise in vendita tutti i suoi terreni ma invano poiché i briganti, non vedendo giungere altro denaro, le mozzarono un orecchio (30).

Finalmente un altro manutengolo riferì i fatti al Bellusci che, dopo 47 giorni di prigionia, liberò la sequestrata che ebbe per sempre compromessa la ragione. I briganti poi, catturati dal Fumel, furono giustiziati o condannati a lunghe pene detentive (31).

Con la triste vicenda di Rina Mascaro si chiudono le vicende del brigantaggio in Spezzano Albanese ma non in Calabria.

Dopo la Terza di Indipendenza (1866), vi fu una recrudescenza del brigantaggio in Sila e nel Distretto di Rossano in cui scorazzava liberamente il brigante Domenico Straface detto Palma. Per debellare questi ultimi focolai di brigantaggio nel 1868 il governo inviò in Calabria il Gen. Sacchi, coadiuvato dal suo capo di Stato Maggiore il colonnello Bernardino Milon. Usando gli stessi metodi di Fumel i due militari annientarono tutte le bande ed eliminarono Palma nel 1869, dopo una lunga caccia sull’altipiano silano.31

Bisognerà attendere la fine del secolo perché in tutta la Calabria si diffonda la leggenda del Brigante Musolino, ma… questa è un’altra storia!

 

NOTE

1 F. Cassiani, Spezzano Albanese nella tradizione e nella storia (1470-1918), Edisud, Roma, 1968 (II edizione).

2 A Spezzano Albanese, tappa intermedia del tratto Castrovillari-Cosenza della Consolare, che allora passava sulla parte Ovest del paese, c’era la posta per il cambio dei cavalli.

3 F. Cassiani, op. cit.

4 S. Scarpino, La mala unità – Scene di brigantaggio nel Sud, Effesette, Cosenza, 1985.

5 ibidem

6 F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, 1983 (VI ed.). Il testo del Molfese rimane un testo sacro per capire i meccanismi della nascita del brigantaggio e della sua spietata repressione.

7 Archivio di Stato di Cosenza, Intendenza di Calabria Citra- Polizia Generale – Distretto di Castrovillari, b.4 f. 107 (Tarsia), b. 4 f. 113 (S. Lorenzo del Vallo), b.4 f. 115 (Spezzano Albanese).

8 S. Scarpino, op. cit. Si trattava di ufficiali spagnoli, tedeschi, francesi idealisti, mercenari ed avventurieri, come il Borjès. Tristany, Théodule de Christen, Ludwig R.Zimmermann ed altri che si illudevano di trasformare bande di criminali incalliti in disciplinati e leali soldati.

9 F. Molfese, op. cit.

10 Sui versanti calabro-lucani del massiccio del Pollino operavano la banda di Antonio Franco, quella dei Saracinari di Carlo De Napoli. Invece nella Sila e dintorni imperversavano le bande del longobucchese Domenico Straface Palma (1831-1869), di Francesco Godino Faccione, di Catalano, di Turchio, Romanello,etc….

11 Cfr. F. Molfese, op. cit., pag.332; cfr. E. De Simone, "Atterrite queste popolazioni- La repressione del brigantaggio in Calabria nel carteggio privato Sacchi-Milon (1868-1870), Editoriale progetto 2000, Cosenza, 1994, pag. 79. Una pratica messa in atto dalle truppe era la fuga dei briganti che consisteva nell’allentare la sorveglianza sui briganti prigionieri, in attesa di giudizio, per favorirne la fuga e quindi sparare loro addosso uccidendoli. In pratica una fucilazione camuffata.

12 S. Scarpino, op. cit. In realtà il governo piemontese, con la militarizzazione del Sud e facendo ricorso a metodi brutali, intendeva prevenire, stroncando sul nascere, eventuali sommosse aventi il carattere di rivendicazione sociale o politica.

13 Il Molfese nel suo interessantissimo e documentatissimo testo pubblica le statistiche ufficiali della repressione del brigantaggio nel periodo giugno1861- dic.’63 (pag.361-364) riporta oltre 5000 briganti fucilati o uccisi! Mancano però dati sui civili innocenti uccisi dalle forze dell’ordine che, a quanto pare, risultano superiori alle perdite avute nelle tre guerre per l’Indipendenza. Dal 1861 al 1865, la legge Pica provocò "13.853 individui, tra fucilati, uccisi in combattimento e sepolti nelle carceri dello Stato, senza contare i numerosi nuclei familiari smembrati per effetto del domicilio coatto". Cfr. S. Lizzano, Il brigantaggio calabrese, Tipolitografia Jonica, Trebisacce (Cs), 2001, pag. 236.

14 Il colonnello Pietro Fumel (1801-1866), già noto in Calabria per aver represso dei moti nel 1860,operò con spietatezza fucilando spesso senza processo i briganti o semplici civili sospetti. Per ricattare i briganti faceva rinchiudere in carcere i parenti più stretti dei briganti, senza distinzione di sesso ed età. Inoltre per evitare che le popolazioni locali sostenessero materialmente i briganti fece concentrare greggi ed armenti in campi recintati. A Spezzano Albanese i suoi modi brutali e il suo carattere protervo fecero coniare dalla popolazione il detto "Duket Fuma" ("Assomiglia a Fumel"), volendo apostrofare una persona arrogante. Il 18 aprile 1863 il deputato calabrese Luigi Miceli denunciò al Parlamento i comportamenti del Fumel. Cfr. F. Molfese, op. cit., pag.429. Richiamato da Parlamento, i calabresi però ne invocarono il ritorno nel 1865.

15 S. Lizzano, op. cit., pagg. 230 e segg. Il proclama del Fumel emanato da Celico recitava:"Avviso pubblico- Il sottoscritto incaricato della distruzione del brigantaggio, promette una mancia di franchi 100 per ogni brigante vivo, o morto, che si presenterà. Tale mancia sarà pure data a quel brigante, che ucciderà un compagno, oltre di avere salva la vita".

16 G. Rizzo- A. La Rocca, La banda di Antonio Franco - Il brigantaggio post-unitario nel Pollino Calabro-lucano, Edizioni "Il Coscile", Castrovillari, 2002, pag. 29. I Tribunali Militari Straordinari (o di Guerra) di Spezzano Albanese e di Rogliano coadiuvavano quello più importante di Cosenza. Circa la presenza della Fanteria di Linea nell’archivio parrocchiale è registrato il decesso di due militari: il soldato Nicola Storti di Castelfranco, morto a 25 anni il 24/9/1862, e Luigi Di Giovanni, morto il 19/10/1862 del 9° Regg. Fanteria.

17 E. Miraglia, Notizie storiche su Castrovillari, Edizioni Prometeo, Castrovillari, 1989.

18 G. Rizzo - A. La Rocca, op. cit., pag. 139, 192, 383, 392. Il testo si presenta come un qualificato documento sul brigantaggio del Massiccio del Pollino.

19 G. Rizzo - A. La Rocca, op. cit., ibidem; F. Marchianò, Un brigante spezzanese: Angelo Maria Cucci,in "Katundi Ynë", A. XXVII – n° 88-1996/1-2.

20 G. Rizzo - A. La Rocca, ibidem; F. Marchianò, ibidem.

21 G. Rizzo - A. La Rocca, ibidem; F. Marchianò, ibidem.

22 F. Marchianò, ibidem; A. Serra, Spezzano Albanese nelle vicende sue e dell’Italia, Trimograf, Spezzano Albanese, 1987.

23 Archivio Parrocchiale della Chiesa dei SS. Pietro e Paolo in Spezzano Albanese: Liber Mortuorum 1852-1873, vol. V. L’atto è stato redatto da G. A. Nociti e firmato dallo zio l’Arc. D. Paolo Nociti.

24 F. Marchianò, Spezzano Albanese nel "Bruzio", in "Katundi Ynë", A. XXVI – n° 90 – 1996/4; S. Lizzano, op. cit., pag. 167.

25 A. Serra, op. cit., pag. 354.

26 27 ibidem, pag. 355, 356.

28 29 30 ibidem, cap. XXXIX, par. 3.

31 cfr. E. De Simone, op. cit., pag. 29.

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