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LA LEGGENDA

DI GIULIO PEZZOLA

di Marcello DI PIETRO (rivisto da Maurizio Roscetti)

dal libro: "Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo <<Memoriale>> (1598-1673) di Giorgio Morelli

da: html http://www.borgo-velino.it/pezzola.htm

CAPITOLO VI

1. La rivoluzione di Masaniello e i suoi riflessi in Abruzzo. Tumulti e la protesta aristocratica. L'assedio di Celano, Fontecchio e Teramo. - 2. Fallimento della rivoluzione. L'assedio di Cittaducale e Antrodoco da parte degli aquilani. Nuovo dilagare del brigantaggio e l'opera del Pezzola alla sua repressione. Giulio Pezzola barone di Collepietro.

1 - Appena giunse in Abruzzo la notizia che a Napoli era scoppiata la rivoluzione capeggiata da Masaniello (luglio 1647), tutta la provincia insorse. A Chieti la popolazione, oltre a reclamare l'abolizione delle gabelle, aveva espresso la minacciosa decisione di liberarsi con la forza dalla servitù baronale di Ferrante Caracciolo al quale era stata venduta dal regio demanio nel marzo dell'anno precedente. Con la stessa aspirazione insorse Lanciano contro il marchese del Vasto a cui era soggetta; e così pure accadde in altri paesi e città abruzzesi come: Guardiagrele, Ortona, Montereale, Sulmona ecc. Ma ovunque le sommosse vennero sedate dal tempestivo e ferreo intervento del preside Michele Pignatelli che ristabilì il primitivo ordine. In Aquila, più che i cittadini, fu la popolazione del contado, quella rurale, ad aderire maggiormente alla sollevazione. Anche la stessa nobiltà, che mal soffriva il Tribunale regio, stabilito nel luglio 1647, proprio per ridurre la loro prepotente autorità esercitata sui vassalli, approfittò di quel momento di generale agitazione per imporre al Preside della città di abolirlo. Nel luglio 1647 minacciò di scoppiare un tumulto allorché alcuni soldati uccisero, in uno scontro con certi facinorosi1 un uomo accusato di molti delitti che godeva la protezione della turbolenta famiglia Quinzi. Tommaso Quinzi, offeso dall'affronto, deciso a chiedere soddisfazione, con rumorosa scorta armata si portò d~ Preside D. Raimondo Zagariga reclamando con arroganza il colpevole e chiedendo inoltre che operasse affinché venisse tolto il regio Tribunale. Lo Zagariga rimase talmente terrorizzato per ciò che era accaduto, che si occultò in casa senza mai più uscire, fino al 13 novembre, quando lasciò definitivamente l'Aquila con tutta la famiglia, diretto alla volta di Napoli. Durante la volontaria reclusione, egli chiamò in Aquila il Pezzola perché salvaguardasse la sua persona, e volle che lo scortasse fino a Napoli. La protesta aristocratica, rappresentata dai Quinzi, dai Pica, dagli Alfieri e Alfieri Ossorio, era incoraggiata dalla presenza, in Aquila, del principe di Gallicano, come sappiamo, di dichiarata tendenza filo-francese. Il 13 settembre entrò in Aquila Michele Pignatelli, Preside dell'Abruzzo Citra e Governatore delle due Province, ristabilendo la calma; al suo ingresso, a severo monito, fece giustiziare Domenico di Fagnano e quattro sulmonesi componenti una stessa famiglia; perdonò tutti i rivoltosi eccetto Antonio Quinzi che fece perseguitare anche nello Stato Ecclesiastico, per cui quello si vide costretto a fuggire, insieme a Lorenzo Alfieri e altri nobili, rifugiandosi prima a Genova, poi a Venezia e quindi a Roma dove si mise sotto la protezione della Francia. Il Fignateili avrebbe ridotto alla quiete quella provincia: senonché, dal Viceré duca d'Arcos fu pregato di indulgere e provvedersi invece di uomini e danari da inviare a Napoli. Seppure a malincuore, dovette ubbidire e riunì un buon numero di soldati, molti dei quali, durante il viaggio, disertarono. Fu dato incarico al Pezzola (dicembre '47) di inseguirli e accompagnarli a Napoli. Nella sua squadra militavano in quel tempo il caporale Giuseppe Colaranieri, Girolamo di Domenico di Civitella e Durante Mancecchi di Campovelino, tutti emeriti briganti. Ma i fuggitivi rimasero inafferabili, gran parte di essi andarono ad ingrossare le file de]la comitiva dei fuorusciti guidati da Bartolomeo Vitelli che sosteneva le forze dei popolari . Non rimase al Pignatelli che contare solo sulle forze del Pezzola e dei suoi nomini, i quali si prodigarono, nei mesi che seguirono, in operazioni di guerriglia contro gli insorti. In Napoli, intanto, la situazione si faceva sempre più caotica e violenta, favorita dal carattere 'debole del viceré d'Arcos e dalla sua politica indecisa e temporeggiatrice. La Francia approfittò di questo stato di cose e inviò a guidare i ribelli Enrico di Lorena, duca di Guisa, che mirava alla corona di Napoli cui presumeva di aver diritto in quanto discendente di Renato d'Angiò. L'intervento francese incoraggiò il Quinzi e i suoi seguaci a porsi in marcia alla conquista dell'Aquila e di tutto l'Abruzzo a nome del Re Cristianissimo. Con l'autorità conferitagli da Gennaro Annese, che prese il comando dei ribelli dopo l'uccisione di Masaniello, il turbolento aquilano Antonio Quinzi (detto anche Tonio o Tonto) si mosse alla volta dell5Abruzzo. Si diresse verso Celano per occuparne il Castello; alla notizia, Michele Pignatelli informò tempestivamente l'abate Piccolomini assicurandolo di non temere perché il luogo era ben munito e poteva fronteggiare anche un lungo assedio. Ma appena il Quinzi, con soli trentadue uomini, raggiunse le mura, il Piccolomini, senza opporre resistenza, si arrese. Il Pignatelli, privo di soldati di leva, inviò a quella volta il Pezzola con l'ordine di riconquistare la città. La defezione però dei suoi trecento sbirri fece fallire quella spedizione. Nel frattempo (gennaio 1648), il Quinzi ricevette rinforzi dall'Ambasciatore di Francia, marchese di Fontenay Mareuil, che gli inviò da Roma Romano Savelli, marchese di Palombara, Francesco Sebastiano e Gio. Antonio Sisti alla testa di truppe formate da soldati francesi e romani, uniti ad una squadra di artiglieria. Costoro, approfittando del tumulto scoppiato anche in Tagliacozzo, passarono inosservati e poterono fortificarsi in Scurcola. Il Quinzi aveva diretto un distaccamento verso Fontecchio, dove trovò una guarnigione del Pignatelli pronta a resistergli. Vi accorse egli stesso insieme al marchese di Palombara; acquartieratisi nel Convento di S. Francesco, rimasero assediati per nove giorni dalle truppe del Pezzola. Col fare della notte e della nebbia, gli assediati riuscirono a fuggire e sarebbero certamente caduti nelle mani del Pignatelli se questo non fosse stato impegnato a Sulmona occupata dal barone di Bugnara Carlo di Sangro. Da Fontecchio il Pezzola si portò a Fagnano dove ebbe a superare la resistenza degli abitanti; contrariato da quel loro contegno, mise a sacco il luogo; quindi liberò S. Demetrio dall'occupazione da parte di Gio. Antonio Sisti, facendo prigionieri sette uomini del Quinzi. La fazione francese si faceva sempre più numerosa e audace. Cittadini, contadini e anche nobili e sacerdoti andavano a ingrossare quelle file stimolate dal Quinzi. Il Pezzola, zelantissimo e onnipresente in ogni occasione, braccio destro del Pignatelli ed esecutore della volontà dei viceré, divenne un personaggio scomodo a molti. Si ordirono contro di lui certe trame che avrebbero dovuto farlo cadere in disgrazia. Venne accusato, insieme a Giuseppe Rivera, di avere segreti contatti coi francesi e per dar maggior peso alle accuse si fecero pervenire al Preside tre lettere accompagnate da un biglietto con la falsa firma del maggiordomo del conte d'Oflate, dove si diceva che le missive accluse erano spate tolte al corriere dell'Ambasciatore di Francia. Esse erano dirette al Pezzola, al Rivera e ad un certo Mongallo; in tutte si accennava a precedenti accordi con i quali si facevano ai tre offerte vantaggiose qualora avessero dato in mano ai francesi il Pignatelli in persona e la piazza dell'Aquila. Il Preside sospettò fosse una calunnia; ma proprio il Pezzola diede occasione di far dubitare della sua condotta, perché, avendo l'ordine di rimanere in Aquila, si portò di nascosto a Rieti a prendere contatti proprio coi francesi, mentre giungevano voci che da varie parti si stavano riunendo i ribelli per assediare l'Aquila. Nella stessa notte, poi, egli rientrò quasi furtivo; chiestogli quanta gente avesse condotto con sé, rispose 12 o 15, quando il Pignatelli sapeva, invece, che ne erano entrate più di ottanta e nella notte avanti altre settanta. Circostanze che fecero sorgere al Pignatelli quasi la certezza che le lettere dicevano la verità: senza esitare, il primo di marzo 1648, imprigionò gli accusati. Intanto si chiesero informazioni a Roma che rivelarono la falsità delle accuse e fecero riacquistare immediatamente, il 3 marzo, la libertà ai prigionieri. Reintegrato nei comando, il Pezzola venne inviato contro il marchese di Palombara il quale, unito a Scucchiafarro, a Marco della Starza e a cinquanta uomini, si era acquartierato a Le Grotte intendendo impadronirsi di Cittaducale. Da un documento riportato dal Capecelatro in data 21 marzo 1648, apprendiamo con quale astuzia il Pezzola poté catturare tutti quei ribelli senza colpo ferire: "Essendo assediata Civita Ducale da una gran quantità di banditi, vi penetrò ad ogni modo Pezzola, il che essendosi saputo dal capo di quelli di fucra, fece grandissima istanza d'abboccarsi con il Pezzola; ma non volendo questo uscire, fece in maniera che indusse il capo bandito con un altro suo compagno ad entrare dentro, assicurandolo. Entrati questi incominciarono a persuadere il Pezzola, che volesse accostarsi al partito del popolo, offrendogli gran cose; allora il Pezzota pretendendo che avessero commesso nuovo delitto di ribellione li fece legare, e poi volle che scrivessero alli compagni di fuori, dicendogli che entrassero sicuramente, mentre il Pezzola s'era accostato al loro partito, come fu fatto: ed essendo creduto per vero l'avviso, entrarono allegramente nella città, nella quale furono tutti legati, per farsene poi quel che avrebbe ordinato il signor D. Michele Pignatelli" . Sempre nello stesso mese di marzo la provincia dell'Aquila subì ancora incursioni da parte di Antonio Quinzi al quale si uni Tobia Pallavicino. Mossero contro di lui, in direzioni diverse, il Pignatelli e il Pezzola, preoccupati di tener lontano il pericolo dalI'Aquila. Però il mastro di campo Giuseppe Cappelletti che era di presidio a Cittaducale, al primo apparire degli insorti, abbandonò la città e si rifugiò a Roma; ugualmente fece l'alfiere 5. Giovanni che abbandonò Antrodoco, occupata poi dal Quinzi. Contemporaneamente il principe dell'Amatrice si impadronì di Cittareale. Il Pezzola e il Pignatelli rimasero così quasi accerchiati con le principali vie di sbocco in mano dei rivoltosi; solo la perfetta conoscenza dei luoghi permise loro di porsi in salvo. Appena giunti all'Aquila seppero che Teramo era minacciata da Alfonso Carafa, duca di Collepietro e Casteinuovo. Partiti a quella volta riuscirono, a quanto si riferisce nel Memoriale 1281, a disperdere i ribelli a Giulianova. Nicola Palma, storico serio e ben informato, rievoca con soddisfatto compiacimento la sconfitta inflitta al ribelle Alfonso Carafa, dovuta esclusivamente all'eroismo di un giovane teramano: Torquato Mezzucelli; il quale, libero cittadino, per riscattarsi da una colpa, si offri di servire la sua città in quel tragico momento. Il 9 aprile, quando il Carafa fu in vista di Teramo, rimase sorpreso a vedere la nutrita e ben schierata difesa pronta a far fuoco che Michele Pignatelli aveva organizzato in tempo. È certo che il Carafa non dovette sentirsi troppo sicuro e intuì che la vittoria mai poteva esser la sua, sicché, appena i teramani apersero il fuoco e vedendosi attaccato ai fianchi dal Mezzucelli, ignorando la reale entità di quelle forze e temendo di rimanere accerchiato, decise di ritirarsi. Il Mezzucelli entusiasmato dalla facile vittoria voleva inseguire il Duca e infliggergli dure perdite, ma il Pignatelli, per legittimo senso d'orgoglio militare, lo richiamò perentoriamente indietro. Teramo, dunque, venne salvata solo da un pugno di suoi valorosi figli, senza quasi colpo ferire: si contò solo un prigioniero, sicario personale del Carafa, che venne fucilato.

2 - L'offensiva dei ribelli si indeboliva gradatamente per il mancato soccorso dei rinforzi promessi dalla Francia. Il popolo ormai esausto, dopo la cattura del Guisa, desiderava la pace che fu conclusa il 13 aprile 1648. La notizia, giunta in Abruzzo, trovò quella popolazione disposta a sottomettersi nuovamente alla soggezione della Spagna, unitamente a molti ribelli che preferivano abbandonare la causa francese, eccetto Tobia Pallavicino e Antonio Quinzi. Il nuovo Preside d'Abruzzo, Bernardino Savelli, che successe al Pignatelli, organizzò un piano per l'assedio da porre a Cittaducale e ad Antrodoco occupate da questi due ultimi ostinati ribelli. Si radunarono in Aquila le forze di Prospero Tuttavilla, di Luigi Poderico, del Duca di Popoli e gli uomini di Girolamo Rivera, del Pezzola e quelle stanziate nella città: in tutto formarono un esercito di alcune migliaia di uomini. Antrodoco, difesa dal Quinzi, fu la prima ad essere espugnata. Assediata Cittaducale, dove si trovava asserragliato il Pallavicino, dopo una breve resistenza, capitolò il 17 maggio. Tutto il Regno ritornò così nella calma e nuovamente suddito fedele e sottomesso al Re di Spagna. Il Pezzola con dovizia di particolari narra, nei paragrafi 28-33, quanta parte egli ebbe in quegli avvenimenti: narrazione che l'Antinori profuse largamente nei suoi Annali, come del resto si servì di tutto il Memoriale, considerandolo una fonte storica, che integra con l'autorevole testimonianza di una cronaca anonima coeva, la cosiddetta "Cronaca del Prete". Conclusa favorevolmente la repressione dei moti popolari antispagnoli, il governo vicereale si trovò impegnato nuovamente a fronteggiare la dilagante piaga del brigantaggio che gli avvenimenti del 1647-48 avevano favorito e sviluppato in modo preoccupante. Durante la rivoluzione si aprirono le porte delle carceri e una legione di malviventi, riacquistata la libertà, riprese a seminare terrore nelle province meridionali, già tanto provate dalle recenti rivoluzioni. Al Pezzola venne affidato il compito di distruggere quelle bande che, numerose, infestavano il Regno. Riuscì ad assicurare alla giustizia: Domenico Colessa detto Papone, G.B. Santarcieri detto Tittarello; e a disperdere le bande di Gennaro Cirillo, Francesco Eustachio e del Leccese. In Gragnano, nel 1648, unito alla squadra del capitano Onofrio Vecchione, liberò Nocera dei Pagani dall'incubo di due sanguinari banditi: i fratelli Giovan Angelo e Giovan Luca d'Auria che erano a capo di due bande. Gio. Luca era al soldo di Alfonso Carafa, duca di Collepietro. Dopo vari scontri, il Pezzola riuscì a far prigionieri i due fratelli e arruolarli nelle truppe spagnole. Esausto per la intensa attività protrattasi senza soste per tre anni, nel 1649 il Pezzola chiese di potersi ritirare in Borghetto e godersi un meritato riposo. La licenza gli fu concessa senza difficoltà, anzi, per espresso ordine reale, il Viceré conferì al Pezzola il possesso del castello di Collepietro con il titolo di barone. Il castello era feudo di Alfonso Carafa, al quale venne confiscato, insieme agli altri suoi beni nel 1650, perché ribelle alla corona spagnola. Si ritirò a vivere con la sua famiglia in quel luogo sicuro, lontano dalla vendetta dei suoi potenti nemici, mantenendo una piccola corte, Avuta anche la patente di Capitano di Cavalleria, formò una squadra personale di 57 uomini a cavallo mantenuta a proprie spese che mise a servizio del governo. Durante l'assenza dei viceré Conte d'Oflate, partito il 3 maggio 1650 alla testa di una compagnia alla riconquista di Portolongone e Piombino occupate dai francesi, il Pezzola dovette portarsi a Napoli per porsi a servizio presso il luogotenente Beltrano di Guevara, fratello del viceré. Fino al settembre fu a fianco di Diego de Quiroga, Governatore delle armi, impegnato alla repressione di alcune bande che infestavano la provincia di Salerno.

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