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LA LEGGENDA

DI GIULIO PEZZOLA

di Marcello DI PIETRO (rivisto da Maurizio Roscetti)

dal libro: "Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo <<Memoriale>> (1598-1673) di Giorgio Morelli

da: html http://www.borgo-velino.it/pezzola.htm

CAPITOLO V

1. Falliti tentativi di catturare il Pezzola. Cattura del bandito Alfonso Mancino. - 2. Scontro armato tra gli ambasciatori Lamego e Los Velez. !l Pezzola corseggia nel Tirreno. - 3. Siallea col Granduca di Toscana e promette di occupare lo Stato Ecclesiastico. Burla giocata all'Arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino. L'assedio di Magliano dei Marsi.

1 - I tentativi per far cadere il Pezzola in una imboscata e poterlo, una volta per sempre, consegnare vivo o morto alla giustizia si intensificarono. Da una informazione che il Governatore di Rieti riuscì a carpire alla moglie del bandito, si seppe che quello sarebbe rientrato in Borghetto tra la tine di aprile e i primi di maggio 1641. Titta Ferretti e due akri uomini assistiti da Scipione Colella vennero posti a guardia di alcuni passi nei dintorni di Borghetto, per seguire le sue mosse e studiare un piano d'attacco prima che egli potesse raggiungere la propria casa. Però non si trovò mai o non si volle -l'occasione opportuna di agire a causa della grande disparità di forze che correva tra la squadra del Pezzola e quella loro, composta di soli trenta uomini. I Barberini dovettero risentirsi della inabilità e ineffìcienza dei loro scherani, i quali, abbandonati a se stessi, nell'agosto 1641 chiedevano aiuti perché non avevano di che vivere. La corte, per raggiungere il suo scopo, riuscì a corrompere Mercurio Tavano, amico del Pezzola, ma anche lui fu di nessun aiuto, Sta di fatto che nessuna operazione massiccia è ricordata nei documenti studiati. Il Pezzola, intanto, proseguiva nel suo servizio a favore della Spagna. Nell'aprile 1641 il marchese di Castel Rodrigo, terminato il mandato di rappresentante straordinario della Spagna presso la S. Sede, venne richiamato a Napoli dal Viceré per destinano quale plenipotenziario a]la Dieta di Ratisbona. Il Pezzola accompagnò il Castei Rodrigo nel viaggio da Roma a Napoli e da qui fino ai confini di Ascoli, attraverso l'Abruzzo. Precisi particolari dei movimenti del Pezzola in quell'occasione si apprendono da una interessante lettera scritta da Cesare Pagano, suo nemico, a G.B. Ferretti: "Il Consigliere parte domani da Civita e giovedì a sera ritornerà in Sulmona dove arriva l'Ambasciatore di Spagna che viene da Napoli et con lui ritorna il Pezzola con li suoi et lo andarà servendo per l'Abruzzo insieme col detto Consigliere sino alli confini di Ascoli, et si farà la strada di Ortona a Mare et tiraranno per le marine verso Pescara e Giulianova, perché il detto Ambasciatore va a Loreto et da Il a Germania con potestà di Plenipotenziario alla dieta di Ratisbona, con lui va Don Giuseppe Floriano, suo mastro di Camera, et se detto Ambasciatore non licentierà il Consigliero alli Confini d'Ascoli, arrivarà anco lui sino a Loreto. Il Pezzola poi se ne tornerà a sua casa et si tratterrà sino alla fiera di Foggia, primo di maggio, dove si troverà per far compra di bestiame et anco in compagnia del detto Ambasciatore fino alli confini una Compagnia di cavalli" .La cattura del famoso bandito Alfonso Mancino, nipote del famigerato Pietro e scherano dei Barberini, ricordata nel Memoriale [19], fu un impegno che il Pezzola perseguiva da alcuni anni. Nel 1640 il viceré duca di Medina incaricò personalmente il Pezzola, con ordine segreto, di radunare tutti i guidati che si trovavano in Lucera, per andare contro quel bandito che si nascondeva nelle vicinanze della città aspettando il momento propizio per compiervi un'incursione. Ma avvenne che il Governatore delle armi di Lucera D. Garzia de Noguera non dette credito alla richiesta fattagli dal Pezzola e gli negò ogni aiuto; anzi, alle giuste rimostranze che gli uomini del Pezzola dovettero esprimere, il Noguera per tutta risposta ne fece imprigionare alcuni. Solo in seguito ad un efficace intervento di Gio. Tommaso Blanch, si riuscì a chiarire l'equivoco e i prigionieri poterono essere liberati. Godendo della protezione dei Barberini, il Mancino rimase inafferrabile sino all'aprile-maggio 1642, quando con un ben studiato piano~d'attacco, concordato tra il Pezzola e il capitano Francesco Lupo, si riuscì ad assicurano alla giustizia .

2 - Fino allo scoppio della futura sommossa masaniellana le notizie su Pezzola non sono copiose. Nel settembre 1642 alcuni uomini della sua squadra, eludendo la sorveglianza del loro capo, si erano dati a commettere estorsioni e rapine nelle vicinanze di Marigliano; affrontati dai soldati del consigliere Giulio Mastrillo, ne seguì una scaramuccia nella quale rimasero uccisi alcuni banditi, Pochi mesi dopo il Pezzola ebbe la sua parte, conclusasi poi nei nulla, nella animata questione accesasi tra i rappresentanti, in Roma, della Spagna e del Portogallo. Giovanni Il duca di Braganza, spinto dalla moglie Maria Luisa di Guzman, rivendicò il trono di Portogallo come erede della nonna Caterina di Portogallo. Il primo dicembre 1640, con l'appoggio della Francia, il duca provocò una rivoluzione che strappò la nazione alla dominazione spagnola e venne proclamato re col nome di Giovanni IV (1640-1656). Prima sua cura fu quella di inviare ambasciatori nei vari regni, che tutti accolsero benignamente. A Roma, dove destinò fl nipote, Michele di Portogallo Vescovo di Lamego (1638-1644), invece si incontrarono inevitabilmente grandi ostacoli frapposti dalla Spagna. L'Ambasciatore spagnolo Marchese di Los Velez intimò al Papa di non concedere udienza al portoghese. Anzi doveva vietargli addirittura l'ingresso a Roma. Urbano VIII fece rilevare che come padre universale non poteva rifiutare di riceverlo. Per non urtarsi con gli spagnoli, il papa propose di accogliere il Lamego non come ambasciatore, ma solo come vescovo in visita ai sacri limini. Anche questa proposta trovò la ferrea opposizione del Los Velez. Comunque il Lamego sbarcò a Civitavecchia il 17 novembre 1641 e tre giorni dopo entrò in forma privata a Roma prendendo alloggio nel palazzo de Cupis in Piazza Navona. In attesa di portarsi dal Papa con grande pompa come conveniva ad un rappresentante di un regno, visse molto ritirato per tema di qualche pericolo. L'ambasciatore spagnolo impedì con ogni mezzo che il portoghese venisse ricevuto sotto qualsiasi forma in Vaticano e affermava pubblicamente che desiderava averlo vivo o morto. Trascorse un anno durante il quale il Lamego attese invano l'udienza papale; nel frattempo, per sicurezza personale, assoldò una gran quantità di birri e altrettanto fece il Los Velez. La tensione tra i due personaggi scoppiò il 20 agosto 1642, quando il Los Velez, saputo che il Vescovo sarebbe andato a colazione dall'Ambasciatore di Francia che abitava al Palazzo Ceri, dietro Fontana di Trevi, fece del tutto per affrontarlo durante il tragitto. Le due carrozze si incrociarono davanti la chiesa di S. Maria in Via e ne segui una nutrita scaramuccia tra i soldati di scorta, nella quale si ebbero numerosi morti e feriti dalle due parti. Grande fu l'impressione suscitata da un tale avvenimento che non poteva non avere sensibili strascichi diplomatici. Siccome alla sparatoria intervennero anche delle guardie del governatore di Roma, il Los Velez ritenne che esse avessero parteggiato per il Vescovo e perciò, ritenendosi offeso nell'onore, partì da Roma alla volta della Spagna. Al Lamego si aprirono buone speranze per una felice conclusione della sua missione; invece il Papa, non facendo nessun conto delle pressioni francesi per riconoscere il nuovo governo portoghese, adducendo vari motivi, non concesse la desiderata solenne udienza. Il Vescovo di Lamego, trattenutosi ormai troppo tempo e inutilmente a Roma, decise di rientrare in patria. Nel dicembre parti alla volta di Livorno da dove si sarebbe imbarcato. Il Viceré di Napoli marchese di Medina las Torres, deciso ad aver in suo potere il Vescovo, promosse il Pezzola a comandante di una spedizione marittima composta di venti feluche e settanta uomini, con l'incarico di dar la caccia alla. nave sulla quale viaggiava il portoghese. Giunto nelle acque di Livorno, il Granduca di Toscana intimò al Pezzola di non compiere alcuna azione contro il Vescovo nel suo Stato. Il bandito, che godeva la sua protezione e la sua amicizia, fu costretto ad ubbidirgli. Ripreso il mare e scorrendo in lungo e in largo il Tirreno sperando di poter avvistare e abbordare la nave del Lamego lontano dalle acque toscane, non dimenticò la sua natura: attratto dal fascino di una nuova esperienza, il Pezzola si abbandonò allegramente al corseggio. Nel marzo si imbattè con le galere pontificie comandate dallo Zambeccari, comandante della flotta papale, addetto a proteggere le coste tirreniche dalle incursioni corsare (85). Lo Zambeccari accerchiò le feluche, ma prima che le potesse affrontare, vennero tolte dalle sue mani dal tempestivo intervento del Viceré. Rientrato in Napoli, il Pezzola riprese il suo regolare servizio. Nel luglio catturò due gentiluomini accusati di vari delitti, che si trovavano rifugiati nella chiesa di S. Orsola. Tale fatto turbò tutti quelli e non erano pochi - che godevano dell'immunità ecclesiastica e vivevano tranquilli in luoghi sacri; visto che la loro sicurezza era in pericolo molti preferirono costituirsi spontaneamente .

3 - La vicenda Lamego-Los Velez ebbe sensibili ripercussioni sugli avvenimenti politici successivi. Le ostilità armate che si protraevano già da tempo tra Urbano VIII e il duca di Parma Odoardo Farnese per il possesso di Castro, si acuirono maggiormente, destando negli altri Stati la preoccupazione di una possibile ingerenza da parte della Francia. Allora Venezia, Firenze e Modena il 31 agosto 1642 - solo dieci giorni dopo lo scontro romano tra i due ambasciatori - firmarono la cc Lega a difesa dei principi italiani", mettendo in piedi un forte esercito da inviare contro quello papale. Giulio Pezzola vide in quel frangente una grande occasione per poter arrecare ancora una volta danno e offendere i suoi grandi nemici: il Papa e i suoi nipoti. Patteggiò una alleanza col Granduca di Toscana impegnandosi di armare unasquadra di 1500 uomini con la quale avrebbe fatto insorgere Spoleto e Rieti e quindi mettere a ferro e fuoco lo Stato Ecclesiastico. La sopraggiunta pace conclusasi tra il Papa e il Farnese, il 31 marzo 1644, troncò ogni progetto. In quello stesso torno di tempo fu giocato un tiro al card. Ascanio Filomarino, Arcivescovo di Napoli. Erano celebri le quotidiane contese giurisdizionali che egli sostenne ostinatamente con la corte vicereale, tanto che divenne oggetto di satire che correvano sulla bocca del popolo. Durante uno dei frequenti viaggi che il Filomarino compiva a Roma, fu svaligiato da una banda di malandrini che g]i tolsero due cavalli, la biancheria personale, gli abiti che portava in una cassa e 160 ducati in moneta contante. Ai cinque del suo seguito vennero tolte le cappe e i denari che possedevano. L'affronto subito dal Cardinale avvenne ai confini dello Stato Eceresiastico dove i banditi del regno di Napoli non avevano ardire di giungere, per cui si ritenne che fosse stata opera di persone potenti, le quali vollero umiliare e mettere alla berlina l'animoso Arcivescovo. Il Filomarino, giunto a Roma, si querelò con sdegno con Urbano VIII, il quale promise di fare proporzionato risentimento all'offesa da lui subita. Giulio Pezzola, che forse non fu del tutto estraneo alla faccenda, da Napoli mandò ad assicurare il Cardinate che avrebbe pensato lui a vendicare l'offesa e a punire i colpevoli! "Questa nuova - scrive un cronista - pubblicata, fu causa che si mettesse il negozio in canzona e che invece di apprendere il rigore, servisse lo strapazzato cardinale palla da gioco per spasso dei napoletani e per sollazzo dei suoi nemici". Il Papa non poté tollerare tanta sfrontatezza mostrata dal brigante e impossibilitato ad agire sugli ignoti colpevoli e sull'inafferrabile Pezzola, decise di vendicarsi comunque " con chi voleva lacerare la sacra porpora". Colse l'occasione della recente pace conclusa con Odoardo Farnese permettendo ai briganti napoletani, licenziati dal duca, di passare, per raggiungere le loro case, per lo Stato Ecclesiastico e di dar loro ricetto in Caprarola. Ma prima che giungessero sul luogo venne tesa loro un'imboscata nella quale persero la vita molti di essi e altri, feriti, riuscirono a fuggire. "E fu tanto stimata questa attione in Corte - conclude il cronista - che ne fu in Roma fatta la canzone del bel tiro". Dopo una fugace apparizione del 1645, la presenza sulla scena storica del Pezzola divenne più determinante negli anni seguenti, culminando nella sua attiva partecipazione ai moti abruzzesi del 1647-48, essendo divenuto ormai il rappresentante dell'autorità pubblica e l'esecutore della giustizia vicereale. Negli ultimi mesi del 1646 si trovò impegnato, per ordine del nuovo Viceré duca d'Arcos , a fronteggiare Pompeo Colonna principe di Gallicano, che tramava per averlo tra le mani vivo o morto per torti subiti a noi rimasti ignoti. Il principe era uno dei sostenitori del disegno di Tommaso di Savoia di sollevare, con l'appoggio francese, il regno di Napoli a favore del dominio sabaudo. A tal proposito aveva fortificato il suo castello della Petrella, posto ai confini tra l'Abruzzo e lo Stato Ecclesiastico. Il successo incontrato dall'armata francese nella conquista di Piombino e Portolongone, consigliò il Viceré, che era a conoscenza dei propositi del Colonna, di imprigionarlo e rinchiuderlo in Castel Novo (27 ottobre 1646); contemporaneamente ordinò al Preside dell'Aquila D. Raimondo Zagariga di provvedere allo smantellamento della rocca della Petrella che avvenne per opera del Pezzola il 3 novembre. Appena rientrato in Aquila il Preside lo inviò a Magliano dei Marsi a liberare quella terra dalle grassazioni commesse da una banda di briganti che si erano ivi asserragliati, il cui capo era Marco Antonio Sebastiano. Su questa missione l'Antinori, con la scorta di una cronaca coeva, ha potuto ricostruire il reale svolgersi degli avvenimenti, dando risalto a certi particolari che il Pezzola aveva tutte le ragioni di tacere. Lo storico scrive che lo Zagariga inviò il 17 novembre 1646 il Pezzola con l'uditore Figliuola ad assediare in Magliano dei Marsi la casa di Francesco Sebastiano che vi si era asserragliato con ventisei fuorilegge capeggiati da suo fratello Marco Antonio. Il rifiuto opposto dal Conestabile Girolamo Colonna, che risiedeva in Tagliacozzo, di inviare rinforzi agli assediatori, palesò chiaramente che i fuorilegge erano suoi protetti. Fidando, quindi, solo sulle proprie forze, il Pezzola ordinò di appiccare il fuoco alla casa; i rifugiati riuscirono a fuggire e a ripararsi nell'attigua chiesa. Si stava dando fuoco anche a quella, quando, vista preclusa loro ogni possibilità di salvezza, si arresero. Però gli uomini del Pezzola, accesi dalla lotta e dalla perdita di alcuni compagni, infuriati entrarono ugualmente in chiesa e senza nessun riguardo al luogo, ne uccisero dodici, tra cui Marco Antonio Sebastiano e ne fecero prigionieri sei, che più tardi vennero barbaramente decapitati. Assetati dall'orgia di sangue, misero a sacco il paese facendo un bottino di circa tremila scudi. Rientrati in Aquila al Preside Zagariga dettero atto della vittoria, ma tacquero dell'avvenuto sacco. Quindi: l'assedio fu posto ad una sola casa e non a tutto il paese; gli assediati erano ventisei anziché quaranta; si tace, nel Memoriale, l'indegna circostanza dell'eccidio e della violazione dell’immunità ecclesiastica.

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