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LA LEGGENDA

DI GIULIO PEZZOLA

di Marcello DI PIETRO (rivisto da Maurizio Roscetti)

dal libro: "Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo <<Memoriale>> (1598-1673) di Giorgio Morelli

da: html http://www.borgo-velino.it/pezzola.htm

CAPITOLO IV

1. Elogi ricevuti dal Pezzola. Ritiro in Borghetto per tema di vendette. Al servizio del Viceré. In Lucera sgomina la banda di Camado. 2. Documenti vaticani sull'attività del Pezzola negli anni 1640-1641. Colella e Scucchiafarro impegnati ad assediarlo. Fallita azione del Pezzola in Sora. Sua supplica di perdono al Papa. Uccisione di Giovanni Pezzola.

1 - Caduta la mannaia sul capo del giovane principe di Sanz si prevedevano reazioni da parte dei Francesi e dei suoi fautori. Prudentemente il viceré di Napoli, per evitare il sorgere di eventuali contrasti di natura armata, fece ritirare gran parte delle truppe che erano acquartierate in Abruzzo; ma lasciò " che siano ben custoditi li posti a' confini senza però fare alcuna alteratione che possi apportare maggior ombre o gelosie... " . I dispacci degli ambasciatori a Roma, gli "avvisi", le cronache e le corrispondenze diplomatiche e quelle private, che erano i canali consueti d'informazione dell'epoca, non riferiscono altro che i particolari dell'avvenuto rapimento e il successivo svolgersi degli avvenimenti. Alle rimostranze del Papa, gli spagnoli: " pubblicano che il Pontefice non ha alcuna occasione di dolersi di essi, perché non hanno in niuna maniera intaccata la sua giurisditione et autorità. Che il Principe di Sanz era convinto di lesa Maestà, che conveniva al servitio del Re Cattolico haverlo nelle mani. Che hanno trattato con un bandito, che si è esibito di consegnarglielo quando sia riconosciuto; se gli è concessa, effettuando la promessa, la sua liberatione dal bando, et quella d'altri ventiquattro suoi compagni, et seimille ducati contanti, con bonificarle tutte le altre spese, che facesse per ben condurre a fine la detta cattura: che egli aveva eseguito le sue commissioni, ne saper dove, ne in qual parte dissegnasse costui ritenere il Principe. Che le cause, che non Io hanno dimandato a S. S.tà sono molte et considerabili, delle quali hora non paflano, ma lo faranno poi astretti dalla necessità, et una, la più importante, mi viene affermato, che sia il rispetto del Sr. Card. Antonio, che vogliono i Spagnoli, che sia intervenuto molte volte a diverse consulte fatte in pregiuditio del Re sopra questo Regno, et che fosse benissimo informato di ogni trattatione, e tenesse corrispondenza anco con li medesimi soggetti, che si offerivano partiali alla Corona di Francia". Col passar dei mesi si notò una distensione da parte dei Barberini per quest'affare, trovandosi essi impegnati in una nuova grave questione sorta col duca Farnese, che sfociò nella vergognosa guerra di Castro (1641-1644). Per la strepitosa operazione compiuta, il Pezzola riscosse il plauso da più parti. Persino Ferdinando Il Granduca di Toscana "he non sdegnava la di lui corrispondenza - come scrive il Galluzzi - ne lodò sommamente il valore". Il viceré duca di Medina de las Torres, complimentandosi, gli consegnò, come promesso i seimila ducati, ma egli, per dimostrare infondati i sospetti nutriti su di lui, rifiutò ogni compenso, dichiarando "di havere esseguito tale cattura per servire al Re Suo Signore, et non per avaritia di denari "; chiese però di essere protetto contro il principe di Gallicano , il quale si era accanito maggiormente contro di lui per vendicare, oltre al suo, anche l'affronto fatto verso i Barberini suoi amici. Per dargli maggior possibilità di difendere la propria persona e più ampia libertà di movimento, il 25 gennaio ricevette dalla Corte vicereale un indulto speciale e alla sua banda venne conferita l'insegna di una regolare compagnia militare destinata a reprimere gli eccessi commessi dai briganti in Abruzzo. Operò in quelle terre sino alla fine di marzo consegnando alla Corte molti prigionieri, tra cui il Barone della Castagna. In aprile operava in Puglia a fianco di Gio. Tommaso Blanch preside di Lucera . In due mesi riuscì a distruggere parecchie bande, tra le quali quella di Andrea Camado. Tanto zelo attirò sul Pezzola l'odio, ancora, di numerosi signorotti pugliesi e degli stessi capi militari. Gli uni e gli altri, com'era notorio, accordavano protezione ai briganti: i nobili non avevano altra soluzione per salvarsi dai loro ricatti e saccheggi; i caporali e i commissari di campagna traevano sensibili vantaggi da quei maneggi: mal pagati, mal vestiti e peggio equipaggiati, essi spesso chiedevano ai malviventi protezione dalle eventuali incursioni o imboscate tese loro da altre bande e, per questo appoggio, assicuravano di ignorare i ricatti e le rapine che essi avessero compiute a patto di partecipare alla divisione del bottino. In tale triste situazione l'opera tenace del Pezzola, deciso a distruggere quante bande e banditi gli fosse possibile, non poteva che far attirare su di sé inevitabili odii e vendette. Trame insidiose si ordirono per ucciderlo. Non sentendosi più sicuro neppure in Puglia, decise di ritornare a Napoli; pregò il Bianch di informare il Viceré della risoluzione presa, resasi necessaria e urgente. il 27 maggio il preside di Lucera inviava al Medina de las Torres una lettera, nella quale faceva presente i gravi pericoli che correva il Pezzola e il desiderio di questi di portarsi personalmente ai rea]i piedi per chiedere protezione e qualche "segno di consideratione" per i suoi efficaci servizi resi finora. Tanto efficaci che il Blanch si rammaricava che il Pezzola volesse partire, perché " questa provincia - assicura - necessita moltissimo della sua opera ". Il Viceré concesse licenza al solerte uomo d'armi di ritirarsi nella sua Borghetto, il solo luogo dove si sentiva veramente sicuro.

2 - Il più volte citato codice Ottoboniano latino 2349 della Biblioteca Vaticana è la sola preziosa fonte che ci rimane, sull'attività svolta dal Pezzola da giugno 1640 all'aprile 1641. La fitta corrispondenza corsa tra il governatore di Roma e quello di Rieti ci fornisce, oltre ai dettagliati particolari sui movimenti del bandito borghettano, anche le operazioni studiate dai due governi per avere tra le mani l'inafferrabile fuorilegge. Lasciata Napoli, dunque, il Pezzola arrivò a Borghetto il primo giugno 1640. Il 5 il governatore di Rieti scriveva a Roma: "Giulio Pezzola è arrivato sabato sera in Borghetto con la sua comitiva che conta di quaranta persone e cavalli et aveva sempre anco pronti quindici buornini di Cantalice e di Città Ducale. Onde in tutto sarà una massa di sessanta facinorosi in circa, Ha portato Giulio grandissima quantità di pecore, castrati, vacche e cavalli e due some anco d'argenteria, per quanto si è inteso, con altra roba, et una parte ne ha lasciata in Antrodoco, l'altra l'ha portata al Borghetto, e subito arrivato ha mandato a chiamare muratori per fabbricare et ampliare la sua casa. li suoi pensieri sono cattivi, havendo egli pubblicamente detto di voler far due ricatti in Rieti e levarsi alcuni nemici d'manzi, e della severità di lui si può credere". I due maggiori nemici erano Scipione Colella e Nicola Schucchiafarro: il primo, scherano del Governatore di Rieti, il secondo del card. Francesco Barberini. Il rancore che il Pezzola nutriva verso Schucchiafarro, suo paesano, fu originato da un insulto che questi fece a sua moglie mentre, accompagnata da una serva, si recava nella chiesa Parrocchiale di Borghetto e per ciò disse chiaramente di volersi vendicare, Sia il Colella che Scucchiafarro misero insieme i loro uomini, dietro ordine del Governatore, col compito di cogliere dì sorpresa il Pezzola durante i suoi frequenti spostamenti e, se necessario, assediarlo nella sua casa. Ogni volta che si stabili il momento dell'attacco essi preferirono sempre desistere, considerata l'inferiorità di numero e la impossibilità di poter espugnare quella casa tanto ben difesa. Dopo pochi giorni da quando era giunto in Borghetto, sistemate le sue cose e iniziati i lavori di fortificazione della casa, il 7 giugno partì, con cinquanta uomini, alla volta dell'Aquila, chiamato dal Preside della provincia; ebbe anche un incontro con quello di Chieti, Francesco Boccapianola, duca di Ripa Candida. Gli fu chiesto di assicurare alla giustizia due banditi di Gallinaro, Dionisio e Giorgio, parenti del " Capruccia ", che si trovavano nascosti a Sora, protetti dal principe Boncompagni. Questa missione non è ricordata nel Memoriale forse perché fu la sola, nella sua carriera, che falfl. Infatti, giunto a Sora gli furono chiuse le porte della città e negato l'ingresso. Si portò quindi ad Alvito, per conferire con quei Duca, ma ebbe la stessa accoglienza1 Non rimase che ritornare in Aquila. Qui il Consigliere Merlino lo destinò in Puglia, perché doveva riprendere il suo servizio, quale Capitano di Campagna. Il Pezzola lo pregò di esonerarlo da quell'incarico e di non costringerlo ad eseguirlo: ad andare in quella regione avrebbe corso seri pericoli. Il Merlino fu irremovibile e invei contro di lui, dandogli del " villano, pecoraro et huomo falso ". lì Pezzola partì immediatamente per Napoli (si era alla fine di giugno) e riferì al Viceré il comportamento inqualificabile del Consigliere nei suoi riguardi e soprattutto di quello usato anche verso la popolazione "dove si sentono le strida dei popoli che non possono più sopportare e le lamentazioni sono grandi". Il Viceré dette facoltà al supplicante di potersi ritirare, per maggior sìcurezza della vita, in Borghetto e gli commutò il capitanato di Puglia con quello d'Abruzzo, donandogli, inoltre, il passo di Antrodoco che fruttava duecento ducati l'anno. Svolgendo il real scrvìzìo in Abruzzo, attendeva al controllo delle zone di confine ed eseguiva quegli ordini che riceveva dall'Aquila e da Napoli. Aveva duramente ammonito i suoi uomini di non creare difficoltà, abbandonandosi, come era loro consuetudine, ad azioni banditesche, per non suscitare reazioni pericolose da parte delle autorità romane. Dopo che i Barberini misero la cospicua taglia sul suo capo, egli "è in grandissimo timore di se stesso scrive il Governatore di Rieti - e si fida solo di pochi, diffidando particolarmente dei banditi suoi compagni sudditi della Chiesa " (....) " i consigli de' Pezzola non si sanno perché egli non li comunica ad altri che a se stesso, ne meno li notifica a i suoi seguaci, se non dopo averli messi in essecutione" Si circondava solo di fidatissimi scelti tra i membri della sua famiglia. Quando passeggiava essi lo attorniavano letteralmente in modo di impedire a qualsiasi di vederlo e di aver contatti con lui. I nipoti del Papa assoldarono, oltre a quelli di Scucchiafarro e del Colefla, anche le bande di Tàta Ferretti e Marco Marchetti, formate di cinquanta uomini, tutti nemici del Pezzola, col compito di dargli incessantemente la caccia. Ma mai avvenne uno scontro diretto o un'azione da parte di quelle squadre, perché queste, conoscendo bene la forza del loro nemico, cercava no sempre di evitare un attacco. Si impegnavano però di catturare qualche malvivente che avesse servito Giulio, Caddero nelle loro mani Giacinto e Marco: i due che, pur non risultando nominati nell'elenco dei componenti la banda del borghettano nel monitorio pubblicato durante il processo, vennero ugualmente giustiziati perché confessarono di " essere stati a servizio di Giulio ai quali dava 25 baiocchi il giorno e cavallo". Nemici ne aveva tanti e dovunque; coalizzavano tutti contro di lui accusandolo, presso le autorità, di colpe che egli specie in quel particolare momento sì guardava bene dal compiere. Il 26 giugno aveva inviato una lettera all'Ottoboni, Governatore di Rieti, nella quale manifestava il proprio disappunto per aver: " con mia grandissima disgratia sentito giornalmente le risolutioni e diligenze che si fanno in diversi luoghi confinanti et in particolare in cotesto di Rieti " a suo danno, e si meravigliava come: " i Padroni e i Principi che governano il mondo, si lascino guidar da simili personaggi è cosa che mi fa continuamente travagliare l'intelletto, che si doverà pur considerare lo stato in che mi trovo, che è di servire e non turbare alcuno ", Assicurava che: " non mi è mai caduto in mente, nè mai mi caderà non solo invadere, ma anco accostarmi allo Stato del Papa ". inoltre tiene a precisare come "nefle sollevationi fatte giornalmente, io sempre sono stato in casa mia, dove io mi trovo per interessi domestici" e prosegue, riferendosi ai "tumulti", "gelosie" e "negotij", fomentati da persone malevoli "che il tutto fanno per il vitto necessario". Causa di tali turbolenze erano gli sbirri, in gran parte ex banditi, che sfuggivano spesso al controllo delle stesse autorità. È sintomatico quanto scrive in proposito l'Ottoboni al governatore di Roma: " Io non mi fido dei regnicoli et i Regni possono facilmente contaminarli con promesse e speranze. Non stimo bene che stiano tanti regnicoli qui, che possono all'improvviso far qualche aggressione alla giustizia, per questo ho trattenuto di dar la patente a Gio. Battista per sentir più precisamente i comandi di V.S. III., la quale prego di nuovo di non creder a' regnicoli, è bene sentirli per cavarvi frutto, ma io non gli lascerei tanto la briglia del collo, che non potessi ad ogni mio piacere fermarli". Non sappiamo quale effetto produsse sulle autorita' romane la lettera del bandito, così piena di buone intenzioni e di ragioni quasi credibili. Un documento singolarissimo, conservato nello stesso codice ottoboniano, ci induce a credere che le autorità avessero dato speranza al bandito di un possibile riavvicinamento con la Corte di Roma. Si tratta della copia di una supplica che il Pezzola umiliò al Papa. Leggiamola: "Giulio Pezzola dal Borghetto in Regno devotissimo ora (tore) di V.S. desiderando farle pienamente tocear con mano l'innocenza sua nella presa del Prince di Sanz3 condotto a Napoli et disingannare il mondo della commune opinione che egli sia stato capo di tal delitto, assicurando quello che non ha abastato le tante gratie ricevute dalla Sede Apostolica, et che non ha commesso tanta ingratitudine quanto è stata conseguita nell'animo di tutto, quanto piaccia alla somma benignità e misericordia di N.S.re ricerverlo nel grembo di Santa Chiesa, e gratia di V.S. dalla quale mai è stato scacciato nissuno che a quelli con necessaria sommissione sono rworsi. Prima si obbliga provare che egli non solo fu auttore ne capo di detta presa1 ma che ne anco v'intervenne~ benché poi sforzato lo condusse in Regno. Secondo, si offerisce dar vivi o morti in poter della Sede Apostolica tLItti quelli che furono in detta presa et che vi operarono, eccettuati due solamente, quali l'Or (atore) e supplica si siano concessi in gratia. Terzo, si obb!iga ancora dare in mano della Corte alcuni altri banditi del Stato Ecclesiastico per delitti gravissimi, anco di lesa_maestà. Quinto et ultimo, promette dopo baver fatte ed adempiute tutte le dette cose, quali farà senza premio e remunaratione alcuna, star sempre pronto a tutti li commandamenti di V.S. stabilire, vivere et morire nel Stato di Santa Chiesa, nel quni promette fermarsi nè mai più partirsi della volontà di V.S. et insieme di quella espor sempre la propria vita con tutto quello si ritrova al mondo. Pertanto la supplica in visceribtis Christi a non diffidare della pronta dispositione dell'infelice Or.e, ma ad accettare con benigna mano l'esposte oblationi, quali adempierà in brevità di tempo; che del tutto". Del documento non sì fa nessun accenno nelle lettere inviate da Rieti a Roma, nè poteva esserci. È incredibile come con quanta temeraria sfrontatezza il Pezzola abbia potuto implorare una ennesima volta il perdono papale, dopo una beffa tanto sfacciata quale fu la cattura del Sanz, che ora perfino rinnega di aver compiuto, ammettendo solamente che " sforzato lo condusse in Regno ", e dopo aver ognivolta tradito la fiducia riposta in lui. Esposto quanto di buono e di utile avrebbe operato per lo sterminio dei briganti nello Stato Ecclesiastico, promette di vivere fedele, per il resto dei suoi giorni, al servizio del Papa. Non può negare, però, che tale "pronta dispositione" possa suscitare legittima e giusta aggiungiamo noi - diffidenza, ma "supplica in visceribus Christi" di dargli fede, perché questa volta le sue intenzioni sono veramente serie. Come tutte le suppliche, anche questa non ha data; essa però va collocata tra l'estate e l'autunno del 1640. Tra la fine di agosto e i primi di settembre di quell'anno il Pezzola si trovava ammalato in Aquila in casa di Girolamo Rivera, suo amicissimo e protettore. Nonostante vivesse protetto dal favore del Viceré, nel Regno di Napoli la sua incolumità non era più garantita: compromessa com'era dai troppi odii che si era attirato su di sé da parte specialmente dei nobili, i quali cospirarono di toglierlo dal mondo. Il solo luogo dove potesse vivere con una certa sicurezza, rimaneva proprio lo Stato Ecclesiastico quando lo avrebbe liberato - come prometteva e ci sarebbe riuscito - dalla tirannia dei più facinorosi capo-banditi. Perciò tentò nuovamente, come fece un anno prima, di riconquistare la benevolenza del Papa. Confidava sulla influenza dei suoi amici, i quali dovettero incoraggiarlo a presentare la supplica, sostenendolo nella folle speranza di un miracolo. Come risposta, i Barberini, appena si presentò loro l'occasione, catturarono Giovanni Pezzola, l'innocente figlio giovinetto di Giulio, che tennero in prigione per alcuni mesi e poi, per una assurda vendetta, fecero uccidere. In Rieti, nel febbraio 1641, si divulgò la notizia che Giulio fosse morto; l'Ottoboni scrive a Roma per sapere quanto di vero ci fosse in quefla voce. Lo Spada, freddamente, rispose che " la notizia sparsa della morte di Pezzola vuoi essere creduta da ognuno essendo morto nefla fortezza di Sileo Giovanni Pezzola, che fu carcerato ai mesi passati ".

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