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LA LEGGENDA

DI GIULIO PEZZOLA

di Marcello DI PIETRO (rivisto da Maurizio Roscetti)

dal libro: "Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo <<Memoriale>> (1598-1673) di Giorgio Morelli

da: html http://www.borgo-velino.it/pezzola.htm

CAPITOLO II

1. Inizi dell'attività brigantesca. - 2. Uccisione di Giovanni del Borghetto. Tentativi francesi di conquistare il Regno di Napoli. - 3. Incursione del Pezzo/a in Rieti. Bandito dal Papa e licenziato dal Viceré.

1 - Il 1624 è l'anno nel quale Giulio Pezzola fa la sua prima comparsa sulla scena storica con una azione compiuta nello Stato Pontificio. In quell'anno egli aveva ricevuto dal vicerè di Napoli, duca d'Alba, la nomina a capitano col compito di vigilare i confini dei due Stati per preservarli dalle incursioni brigantesche . Avvenne che negli ultimi giorni del 1623, presso Norcia, fu ucciso Gio. Pietro Perelli, Vicario del Vescovo di Sulmona, con tre persone del suo seguito. Grande impressione fece in Roma questo atto criminoso; voci malevole fecero circolare la notizia che l'autore fosse stato il Pezzola. Immediatamente egli protestò al Papa la propria innocenza e per darne la prova, con i suoi ottanta uomini si portò nei luoghi dove fu commesso l'eccidio: recuperò i corpi delle vittime e saputo chi erano stati gli assassini, li uccise tutti e consegnò le teste a Urbano VIII, il quale, soddisfatto della sincerità e della abilità del Pezzola, gli concesse la propria protezione, gratificandolo anche con doni e denaro. Oltre a quella del papa e del viceré poteva vantarsi di godere anche la familiarità di altri potenti. Il Granduca di Toscana "non sdegnava la di lui corrispondenza", come scrive il Galluzzi, il quale giudica il Pezzola "brigante insigne" per i servigi offerti a quel Signore. Il Duca di Parma, Odoardo Farnese, per sedare le turbolenze dei sudditi degli stati che teneva in Abruzzo - tra cui Cittaducale e lo stesso Borghetto - assoldava il Pezzola perché confidava sulla sua autorità e capacità. A dire dei cronisti, l'ormai notissimo capo bandito, di fronte a tant'altri, era giudicato "moderatissimo"; rispettava, alle volte, gli ecclesiastici verso i quali usò all'occasione ogni riguardo e li difese contro i soprusi, anche se giustificati. Lo dimostrò nei riguardi del parroco della piccolissima frazione di Vallerano, in provincia di Rieti; che contava appena quindici fuochi. Quei paesani, oppressi dalle continue insistenze con cui il parroco richiedeva il pagamento delle decime, non tenendo conto che in quell'anno il raccolto fu quasi totalmente distrutto dalla siccità, lo cacciarono con violenza dalla sua sede. Saputo ciò, il Pezzola con duecento uomini circondò il paese e, catturati i cinque più facinorosi, volle conoscere la ragione del loro sì esagerato comportamento. Al che, egli rispose che le decime e gli altri obblighi si debbono comunque sempre pagare; quindi, radunati sulla piazza tutti gli abitanti, reintegrò pubblicamente il parroco nel suo ufficio ed istruì un regolare processo contro i cinque, che condannò a morte. Fatta stendere completa relazione della sentenza da uno scrivano, senza richiedere l'approvazione dall'autorità, fece giustiziare pubblicamente i colpevoli. Al Viceré piacque talmente la libertà con la quale agi il Pezzola, che inviò entusiastica relazione al Re. Anche Urbano VIII si divertì " sino alle lacrime quando il card. Pamphilio gliene havea fatta relatione e ne prese gran contento". Grande impegno metteva nel rendersi in ogni momento utile, disponibile anche a tradire i suoi compagni, purché si rimanesse soddisfatti di lui. Due suoi vecchi amici, Alessandrino e Titta l'ascolano, con le loro bande rendevano difficile e pericoloso il transito di cinque o sei paesi di confine tra Roma e Napoli. Nel 1631 il Papa decise a por fine ai continui ladroneggi e ricatti che commettevano; cedendo ad alcune condizioni, stipulò un accordo con l'ambasciatore di Spagna: si stabilì che il Viceré di Napoli avrebbe reso libero dai briganti il confine tra i due Stati. Venne affidato l'incarico al Pezzola, il quale fece intendere ad Alessandrino e a Titta di aver organizzato un buon ricatto in Sabina; partiti i tre capi con i loro uomini e alloggiati in una piccola casa, di notte li fece uccidere tutti. Così, invece di due, consegnò al Papa ben tredici teste. Divenne, quindi, l'incontrastato dominatore delle zone di confine. Purtroppo, però, non si seppe contenere nei limiti dell’autorità legale concessagli. Posto alla tutela per reprimere ricatti, rapine e omicidi, furono poi i suoi uomini che si abbandonavano a quegli stessi eccessi col tacito consenso del loro capo, il quale riteneva quello l'unico modo per procacciare il sostentamento di una banda la cui consistenza variava dalle ottanta alle trecento persone, senza contare alcune decine di cavalli. Violenta fu la reazione di Urbano VIII ai frequenti tradimenti dell'ingrato Pezzola; ordinò che lo si catturasse a tutti i costi per poterlo giustiziare in forma solenne e pubblicamente. La sbirraglia spedita sulle sue tracce ritornava però sempre a mani vuote. La lamentata inefficienza sia delle truppe papali sia di quelle regie nei confronti delle bande brigantesche, era dovuta al fatto che le truppe regolari erano in gran parte costituite infatti da " guidati ", cioè da banditi indultati con l'obbligo però di servire come sbirri nella milizia. Quindi spesso accadeva che si fronteggiassero sbirri e banditi che avevano militato nella stessa banda e che univa una comune origine. Quale potesse essere l'esito dell'innocua scaramuccia che ne seguiva è facile prevedere. Solo rare volte vecchi rancori e odi personali facevano registrare nette vittorie alle truppe. Il viceré conte di Monterey destinò il Pezzola in Abruzzo; lo raccomandò al Preside dell'Aquila marchese di Rugiano che lo affidò a Girolamo Rivera. Questi apparteneva ad una delle illustri famiglie aquilane e, come privato cittadino, aveva messo liberamente le sue sostanze e la sua persona al servizio della propria città. Per il Rivera non fu certo un incarico facile tener presso di sé un uomo come Giulio; le lettere di Girolamo Branconio, altro amico fedele di Pezzola, riportate in appendice, testimoniano come questi sfuggisse continuamente dalle sue mani, cacciandosi in situazioni che richiedevano, per salvarlo, tutte le armi diplomatiche che sapeva essere a disposizione del suo amico, il quale non poteva non intervenire a suo favore. "Giulio con settanta compagni è andato a far qualche bene, se Dio vole, se no, non so che fare più scriveva angosciato, il Branconio a Giovanni Pagano in Roma . E qualche bene lo faceva, ma spesso contrapponeva, alle buone, cattive azioni.

2 - Le azioni compiute da Giulio Pezzola fin qui narrate, potute ricostruire su documenti sincroni, sono state da lui taciute nel Memoriale, il quale si apre con due clamorosi " servizi " che gli attirarono l'ira di molti. Si erano organizzate in Borghetto, oltre a quella dei Pezzola, altre due bande capeggiate da Giovanni del Borghetto e da Scucchiafarro; tutti e due, francofili, godevano della protezione dei Barberini. Giovanni del Borghetto scorreva le campagne abruzzesi mettendo il terrore tra le popolazioni rurali del chietino; infruttuose, furono le spedizioni inviate contro di lui da Lucio Caracciolo, Preside di quella provincia. Chiesti rinforzi al viceré, venne inviato a quella volta Giulio che nel settembre 1634 riuscì a uccidere Giovanni e suo fratello Attilio, le cui teste vennero consegnate al caporale Quinzio e portate a Chieti accompagnate da quindici prigionieri, componenti quella banda. La notizia di quella giustizia suscitò in Borghetto accese reazioni da parte della fazione colpita in modo cosi tragico. Della rivalità che esisteva tra le due bande approfittavano i Barberini per attirare sul Pezzola lo sdegno dei paesani. Giulio, infatti, non viveva più giorni tranquilli da quando Urbano VIII lo aveva messo al bando e gli aveva posto alle calcagna uomini che per più ragioni avevano interesse di vederlo morto. Tra questi era Giovanni del Borghetto che aveva attentato più volte alla sua vita. Lo dichiara lo stesso Giulio in una lettera, nella quale si apprende come i borghettani avessero messo in cattiva luce il loro temibile compaesano presso il principe Borghese affinché operasse contro di lui. Quei duplice omicidio, giustificato da legittima difesa, gli valse la facoltà, concessagli dall'Udienza dì Chieti, di servire ton venticinque uomini in quella provincia. Il Vicerè gli affidò il controllo di otto luoghi nel territorio di Guaito, presso Rocca Vittiana, in provincia di Rieti, antico posto di guardia sul confine trà l'Abruzzo e lo Stato Ecclesiastico. Il 20 gennaio 1635 implorava con un'altra lettera il suo informatore in Roma, Giovanni Pagano: " di fare quanto bisogna perché di qui si fa da dovero; è morto il Sig. Moretti, et anco procuri qualche lettera di favore al Governatore di Rieti che si è dato coll'anima a questi del luogo e teme tutti noi. Alla fine di giugno, ritiratosi in Borghetto, venne ferito in un attentato subito dentro la chiesa di S. Matteo. La sua vita era in continuo pericolo. Faceva pressioni al Pagano perché riuscisse a far mettere al bando i suoi assalitori; avrebbe poi pensato lui a procacciar loro la " forgiudica " dal regno. Banditi dai due Stati, si sarebbe messo poi sulle loro tracce per farne giusta vendetta. Ormai non pensava che a sbarazzarsi dei suoi nemici e trascurava di servire il Viceré, impegnato com'era anche a dover sfuggire alla implacabile giustizia dei Barberini che non gli dava tregua. Dei nipoti di Urbano VIII, Antonio, come Taddeo, era il più turbolento: di parte francese, assoldava una masnada di malfattori che operava come vedremo, a danno dei regnicoli. Era in continuo contrasto con suo fratello Francesco, più mite e pacifico, che simpatizzava invece per gli spagnoli. Antonio, Francesco e Taddeo Barberinì, per soddisfare la loro smodata sete di comando e di ricchezza, miravano al possesso del Regno di Napoli. Favorirono e appoggiarono i vari tentativi della Francia, che si susseguirono dal 1634/1640, diretti a far insorgere le popolazioni soggette alla Spagna. Nel gennaio 1636 in Napoli venne imprigionato il frate agostiniano Epifanio Fioravante; sotto i tormenti egli svelò il complotto ordito dal Duca Tommaso di Savoia, d'intesa con la Francia, di occupare il regno napoletano. Si doveva mettere in piedi un grosso esercito che passasse, col favore del Papa, per Bologna e la Romagna diretto al Tronto. A questo cospicuo contingente si sarebbero aggiunti altri seimila uomini reclutati dal card. Antonio Barberini e dal Contestabile Colonna, i quali potevano contare anche su altre forze che i loro amici napoletani tenevano pronte ad entrare in azione al primo segnale. L'Ambasciatore francese duca di Candai doveva portarsi intanto nelle acque dell'Adriatico e attendere che il noto fuoruscito Pietro Mancino sollevasse l'Abruzzo e occupasse la Dogana di Foggia, Bari e Monte Sant'Angelo, quindi sbarcare e iniziare la marcia per congiungersi con le truppe papali che contemporaneamente si sarebbero mosse alla volta di Napoli. Immediatamente il Viceré diede ordine che si rafforzassero e si disponessero nuovi presidi armati lungo i confini. In Aquila Girolamo Rivera offri il suo aiuto al Preside; chiese e gli venne accordata licenza di arruolare la squadra di Attilio Mareri e quella di Giulio Pezzola: la prima fu messa di guardia ai confini del Cicolano; la seconda a quelli di Cittaducale. l Rivera si riserbò il controllo dei confini di Leonessa, Cittareale e Accumoli. Con venticinque uomini, egli, fingendo di andare a caccia, osservava il movimento di quei luoghi di cui era preventivamente informato dagli informatori che teneva in Roma. Si riuscì, così, ad impedire ogni violazione di confine senza contrasti, né colpo ferire, con grande soddisfazione dei regi. Pietro Mancino non potendo entrare in Abruzzo si portò in Puglia; vista fallita la tentata sollevazione, si abbandonò a ricatti e ladroneggi. Contro di lui il Viceré inviò il capitano Rocco Quinardo con duecento uomini; quando questi rimase ucciso in uno scontro (1636) venne sostituito dal Consigliere Ferrante Mufloz. Giunse in Puglia verso la metà di novembre 1636; fu severissimo verso alcuni nobili sospettati di proteggere il Mancino. Risultarono infatti incriminati il Marchese del Vasto e suo figlio Duca di Montecalvo, Massimo Montalto duca di Fragnito e il duca di Sant'Elia, i quali furon6 tutti chiamati a presentarsi a Napoli. Il 2 dicembre il Muiìoz assediò il bandito a Monte Sant'Angelo; il 26 gennaio 1637 ebbe un altro scontro nel bosco di Marzocco; finalmente il 7 marzo il bandito riuscì a fuggire dalla Puglia e raggiungere, via mare, la Dalmazia. Tra il 1637 e il 1639 si contano una serie di azioni compiute dal Pezzola per alcune delle quali egli stesso dichiarò di vergognarsi. Si riferiva ad un omicidio commesso in Napoli nel gennaio 1637 , in seguito al quale dovette rifugiarsi in Puglia per sfuggire alla giustizia. Girolamo Branconio dall'Aquila scriveva con sollecitudine a Roma al Pagano affinché" s'aiuti alla gagliarda et solleciti a far quello bisogna con prestezza et per ragioni di stato V.S. deve difendere Giulio et farlo ricomandare da persone d'autorità al detto Preside, perché Giulio farà il suo debito per ogni mezzo.

3 - Dalla Puglia si portò a Chieti dove trovò il Preside ben disposto verso di lui. Soddisfatto scrive a Roma a Giovanni Pagano che "Faccia alla peggio contra il Principe (di Gallicano) e tutti i fautori loro", mentre lui, il Pezzola, avrebbe pensato di trovare appoggi nel Regno, dopo di che per i suoi nemici non ci sarebbe stato più scampo ("Stia alegramente che adesso che io son tornato non ve sarà tanto largo" (lett. 6)) È molto probabile che l'ucciso di Napoli fosse uno degli uomini al servizio di Pompeo Colonna principe di Gallicano. Sappiamo che il Colonna fu uno dei più irriducibili nemici del Pezzola e tramava per averlo tra le mani. La situazione per Giulio si era fatta insostenibile: l'ombra della morte lo accompagnava ovunque. Era necessario riconquistare la fiducia delle autorità; non perse occasione per farsi valere. In Rocca di Corno, vicino Antrodoco, riuscì a catturare "Lo Stuccatore" con quattro compagni e li consegnò alla Corte di Rieti . Il merito così acquistato venne ben presto sciupato. Seppe che in Rieti vivevano liberamente alcuni superstiti della banda di Giovanni del Borghetto decimata due anni prima. Ostinato nell'odio e nella vendetta il Pezzola, senza calcolare la portata del suo gesto e le inevitabili gravi conseguenze, con un atto inconsulto, compiuto nell'agosto 1637, aggravò maggiormente la sua situazione. Violando la giurisdizione papale, entrò con uno stratagemma in Rieti e uccise i suoi nemici consegnandone le teste all'Udienza di Chieti. Nel Memoriale l'autore si vanta davanti al Re di quell'azione tanto mal subita dai Barberini che ne " fecero una risentita istanza " al Viceré. Tramite il Nunzio di Napoli, mons. Rerrera, Monterey fece assicurare che si sarebbe impegnato a imprigionare il Pezzola. La promessa, però tardava ad essere mantenuta; da Roma si sollecitava insistentemente il Nunzio a far pressione presso il Viceré di agire quanto prima. Ma quando da fonte sicura seppe che proprio in quei giorni i Barberini davano ricetto in casa loro all'altro famoso bandito Pietro Mancino, che tanto danno arrecava nel Regno, fl Monterey pose una condizione: quando i nipoti del Papa renderanno possibile la cattura del Mancino, anche il Pezzola cadrà nelle loro mani. Francesco Barberini, con poca lealtà, il 5 settembre scriveva : "Il Sig.r V. Ré con lettera de' 3 cor.tc si duole che qui siasi dato aiuto al bandito Mancini, V.S. nel presentar la risposta che le invio soggiungerà che non solo ciò non è seguito, ma si è scritto per via della consulta avvisando i Governatori, che usino ogni diligenza contro il suddetto. Con quest'opportunità potrà ella esagerare, che Giulio Pezzola Capo guidato e bandito con l'Autorità di S. Ecc.a hà avuto ardire di prendere la porta di Rieti con la sua comitiva, avendoci ammazzato due, et condutto seco 4 o più fanciulli, et questi trucidati dopo esser poi rientrato in Ripi con haver preso un Prete et uccisolo. V'aggiungerà V.S. anche gl'eccessi commessi in Santa Sophia essagerando le giuste cause che qui s'hanno di doglianza". Il Viceré non dovette rimanere, di certo, turbato dall'atrocità di quei delitti che venivano imputati al Pezzola solo per "essagerare", perché ben sapeva come quello non aveva mai commesso, od era capace di commettere, tali assurde e inutili efferatezze, tanto più in quella particolare azione, e in quel luogo, compiuta solamente per una vendetta personale. Nessuno, comunque, piegò per primo il proprio orgoglio, tantoché, a dire del Capecelatro, la cosa rischiò di far scoppiare una guerra; i Barberini riunirono in Rieti seicento soldati corsi decisi a catturare a tutti i costi il Pezzola e i suoi compagni. Temendo il peggio, il Viceré inviò in Aquila due compagnie di fanteria e di cavalleria, pronte ad intervenire qualora fosse necessario. Fortunatamente la situazione si acquietò senza ulteriori complicazioni . Ma quando i Barberini vennero a conoscenza che il Monterey fece ringraziare il Pezzola per il fatto di Rieti, non poterono contenere il loro sdegno: nell'aprile dell'anno successivo, riusciti a catturare un componente della banda di Giulio, lo fecero giustiziare immediatamente senza alcun processo. Il Papa bandì con pubblico editto il Pezzola dallo Stato ecclesiastico e per formale cortesia diplomatica anche il Viceré lo licenziò dal servizio.

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